Fine ottobre 2014. Un appuntamento con Alain Ducasse non va preso alla leggera, ma fissato minimo minimo tre lune prima. Meglio giocarsela alla giapponese e presentarsi con almeno una mezzora d’anticipo sul quadrante. Solo che lui, bruciandoci sulla pista d’arrivo, è già davanti al desk del suo ristorante al Plaza Athénée. Comincia male. E dire che volevamo far bella figura. Per convincerlo a partecipare al Grand GELINAZ! Shuffle (sarà la prima di una serie di almeno quattro sedute e di negoziazioni alla fine vittoriose). Vestito scuro, camicia chiara, stendiamo prima la mano per poi ravvisarci come sempre per un triplo, timido bacino sulla guancia, Svizzera-style.
È quello l’Alain che preferiamo, quando non ci prova neanche più a metterti sulla difensiva facendo lo straputello. Invece nel corso del tempo e degli anni che ci frequentiamo e ci sopportiamo abbiamo eletto tutti e due, come una Vecchia Coppia, le nostre routine. Appena ci si vede, neanche il tempo dei preliminari col Long Time No See e stiamo là tali due ragazzini coi pantaloni corti e la figurine Panini a farci “mi manca, ce l’ho, mi manca ce l’ho”… a passarci in rivista i ristoranti, gli chef e le scoperte fatte da ciascuno dall’ultima rimpatriata. Solo che questa volta un granello di sabbia si è intromesso nell’orologiferico meccanismo. Alain afferra la maniglia, tira verso di se la porta che, muta alla sua autorità, resta bloccata. Chiusa definitivamente a chiave. Sbirciamo all’interno le maestranze impegnate ad assettare tavoli e a lustrare lustri e ori mentre col rumore dell’aspiratore sul tappeto (l’Hoover è più silenzioso) nessuno di loro prende nota dell’increscioso incidente col loro datore di lavoro. Che oramai scuote la porta, malmena la maniglia, si scortica le nocchie contro il vetro, sbotta tutto imporporato in volto contro l’avversa sorte. Gli proponiamo come uscita di soccorso l’entrata degli artisti. Ma lui ci tiene a far le cose per bene, a farci far, per la porta principale, il tour du patron. Solo che stavolta padrone a casa sua non lo è. E quando all’interno si accorgono infine che sbraita al limite del paonazzo e in un silenzio di tomba aprono a capo chino la ferrea porta c’è la frase che cade lapidaria peggio delle ultime parole famose: “C’est le comble! On ne peut même pas entrer dans son propre restaurant!”



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