Mini-storia
cucina italiana in evoluzione
Di Tèrra (a Copenhagen), di identità
Raccontare il territorio danese con la sensibilità italiana
Testo di
Elisa Teneggi
Foto cortesia
Di Tèrra (a Copenhagen), di identità
7 minuti

Ci sentiamo da Roma, loro “terra d’origine”. Sono Valerio Serino e Lucia De Luca: nel 2017 hanno aperto il ristorante Tèrra a Copenhagen, dal 2021 hanno una Stella Verde della Guida Michelin. È la settimana di Pasqua e il cielo è bigio. D’altronde, fa sempre così.

Tutto sembra manna per chi, come loro due, si è trasferito al Nord. E mica di malagrazia: la storia dei ragazzi ormai la conosciamo. Compagni di vita, lei fa un Erasmus a Copenhagen, lui fa tutt’altro ma, affascinato, decide di raggiungerla dopo aver già messo le mani ai fornelli da autodidatta. Approcciano una cucina a spreco zero. A fine marzo, sono ripassati dall’Italia per un evento organizzato da Eataly Milano insieme a Identità Golose, puntata di un ciclo di cene dedicate ai “Giovani Talenti”. Arriveranno in tavola un Crudo di pescato del giorno, kumquat, radici; poi Passatello di castagna, anguilla bergamotto; Merluzzo, mandorla, acetosa; chiudendo con Mela, cioccolato bianco, alghe.

Mi dicono che è stata una serata piena di amici e di ottima energia. I miei ricordi di seduta al tavolo confermano le impressioni dall’altro lato del bancone. A Valerio e Lucia piace “uscire” dal ristorante e sparigliare le carte, per loro in primis.

“È un’esperienza di vita”.

O, comunque, una sfida, almeno per alcuni palati. Soprattutto quelli che non avrebbero immaginato l’anguilla appaiata all’alga kombu, al bergamotto, ai funghi shiitake. Ha un sapido complesso, un umami spinto. È molto buono, qualcuno fa una smorfia. Quasi un piatto comfort, per Serino e De Luca, che hanno in carta da tempo e che per l’occasone milanese hanno addomesticato. “Avevamo paura della reazione del pubblico italiano ai sapori che volevamo portare. L’obiettivo era creare piatti che facessero parlare, non arricciare il naso per la stranezza. E poi, arrivare a costruire un menu che dicesse: questo è Tèrra”.

Mi viene da aggiungere: messaggio da passare al commensale italiano soprattutto. Non solo per la posizione geografica del ristorante, ma anche per quella di due ragazzi che, nel frattempo, non cresciuti e hanno messo radici. Anche se, per quelli del luogo, cioè gli autoctone danesi, potrebbe benissimo non essere così. Non per nulla “dopo tanti anni fuori dall’Italia, possiamo dire di non esserci mai sentiti così fieri dell’essere italiani e di volerci rappresentare all’estero”. Da Tèrra si genera un paradosso: per i danesi non fanno cucina danese; per gli italiani non fanno cucina italiana. Allora che cos’è questa “cucina” a cui giriamo intorno?

“Tante persone ci dicono: ma non state facendo cucina nordica. È vero, nel senso che per noi è l’evoluzione di una cucina italiana. Una nuova cucina italiana, se vuoi. Rimane il fatto che molti colleghi propongono piatti, in Italia, molto simili ai nostri nelle intenzioni e nessuno si va a chiedere se siano italiani o meno”.

Il ragionamento arriva, si sente sulla pelle. Il coacervo però rimane: anche perché Serino e De Luca sono arrivati a Copenhagen allo scoccare della “ora X” della new nordic cuisine, movimento di rivalutazione della cucina scandinava, dei suoi ingredienti e delle strategie di conservazione e cottura. “Sono bravissimi a fare marketing. La cucina New Nordic è stata studiata a tavolino, lo stesso René Redzepi è macedone, non danese. È stata un’iniziativa guidata da Carlo Petrini, hanno steso il manifesto di una cucina mediterranea senza prodotti mediterranei. Questa è la “nuova cucina nordica”. Da qui arrivano i “prodotti del territorio”. Quello che facciamo noi non ha nulla a che vedere con questo. Stiamo semlicemente continuando un processo di tradizione e qui torniamo davvero al concetto di cucina italiana: tramandare, il metodo ancestrale, l’ingrediente locale. Anche questo è tornato di moda, ma le tecniche ancestrali non sono altre che le salamoie che si fanno in Puglia per conservare le verdure. Qui a Copenhagen sembra abbiano fatto la rivoluzione dei fermentati, ma vai in Russia, in Oriente, ritrovi queste pratiche. Il cliente internazionale che viene da noi le vede, così instauriamo un dialogo. Questa è la sensibilità che vogliamo portare anche da “giovani”, appunto, ed è per questo che ci diremo sempre italiani”.

Serino continua: “In questo senso essere stato autodidatta è stata anche una fortuna. Non ho avuto condizionamenti. Si ha la mente aperta e ricettiva, ti crei il tuo mondo. Un’altra cosa, ci tengo a precisarla: la cucina italiana, per me, è anche il racconto di un territorio”. A ben pensare, originariamente, tutte le cucine lo sono.

“E quindi quello che facciamo da Tèrra, con sensibilità italiana, è raccontare il territorio danese.

Poi, alla fine, dipende molto dai retaggi di ognuno, dai ricordi. Ho dei dubbi a dire che lo spaghetto al pomodoro sia l’emblema della cucina italiana, per esempio. Forse lo è della cucina del Sud Italia, o di una cucina del Sud Italia”.

Così torniamo a quello che si mette nel piatto. Passare da una stagionalità mediterranea a una scandinava è uno shock addizionale, come diceva Franco Battiato. Obbliga a non essere più li stessi. “Serve studiare. Potresti far arrivare qualsiasi ingrediente da tutto il mondo, ma non è la nostra idea. Bisogna giocare d’anticipo, conoscere i prodotti e come saranno una volta conservati. Devi capire quanto aspettare, la gestione del tempo è fondamentale. Uno dei nostri vantaggi, venendo da fuori, è che abbiamo uno sguardo esterno e creativo su ingredienti che i danesi considerano scontati. O almeno, credo questo. Poi succede anche il contrario, ovvero ingredienti comuni nel Sud Europa che, coltivati in Danimarca, cambiano completamente, penso ai pomodori”. All’inizio della cena di marzo, ci verrà servito un pomodoro verde accompagnato da vaniglia e foglia di fico. Un gusto ricreato a partire dalle note sottostanti.

Questi siamo noi. Ma i danesi? Come ci stanno, tra le idee di Tèrra? “Noi siamo fortunati, lavoriamo con un 95% di pubblico internazionale. È assurdo pensare che, per i prodotti che utilizziamo, potremmo definirci un ristorante danese e che poi i locali non ci percepiscano come tali. Da un lato va benissimo eh, vuol dire che ci mettono nella stessa categoria dei grandi ristoranti, tipo il Noma. Allora qualcosa di buono l’abbiamo fatto. Dall’altro lato ci sono appunto i danesi, che ci guardano male perché pensano che abbiamo voluto emulare la cucina nordica. Mettici anche che siamo arrivati dove siamo in pochi anni e che di mentalità tendono a essere chiusi… Competiamo con i ristoranti danesi. Tutto l’insieme, per loro, è un po’ difficile. La Danimarca ha la popolazione di una regione italiana, il pensiero è quello di provincia”.

In più, continuano i ragazzi, la cultura della ristorazione è nata vent’anni fa circa, in Danimarca. In un certo senso, anche quella della tavola. Se da Tèrra arrivano tanti asiatici, per esempio, è anche perché nella pulizia dei sapori, o nell’evoluzione del piatto, si incontrano i gusti di tradizioni millenarie. Ma quindi Valerio e Lucia, questi ragazzi andati a colpo sicuro, che hanno cominiciato tutto aprendo un negozio/ristorantino di pasta fresca – Il Mattarello – in una capitale scandinava e che hanno continuato con la lezione della nonna, “non si butta via niente”; mica avranno nostalgia dell’Italia, almeno un po’?

I progetti e le idee, mi assicurano, non mancano. Il sogno di rientrare e fare la stessa identica cosa in Italia, be’, è innegabile. Vedremo dove li condurrà il loro stato di continua evoluzione. Che fa parte dell’essere giovani, anche ai circa-quaranta di questi due. Alla fine, io mi trovo pure d’accordo.

Posto
Europa/Danimarca/Copenaghen
Tèrra

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