Reportage
Dine on a mat
Chef senza confini
Attraversando le frontiere con Fatmata Binta
Testo di
Lydia Itoi
Foto di
Mostapha Elhamlili
Da Cook_inc N. 40
Chef senza confini
20 minuti

“Per favore”, imploro un funzionario dell’ambasciata del Ghana a Madrid, ma lui non batte ciglio. “È Natale. Voglio solo sedermi su un tappetino con Fatmata Binta e mangiare cibo Fulani con le mani”. Incontrare uno chef nomade non è facile. E, come si può intuire dai barconi di migranti disperati, nemmeno attraversare le frontiere lo è. Sono cresciuta negli Stati Uniti senza documenti e ora vivo nel mio sesto paese, la Spagna. Per questo motivo, sono particolarmente sensibile ai problemi dell’immigrazione. Inoltre, viaggio ovunque per mangiare. Il funzionario consolare mi rivolge soltanto un’occhiata torva e mi mette i bastoni tra le ruote. Per settimane ho cercato di ottenere un visto per il Ghana, compilando moduli, fornendo estratti conto bancari, facendo il vaccino contro la febbre gialla e sottoponendomi a un controllo di polizia. È stato tutto inutile: alla fine il visto non arriva in tempo per prenotare la cena nel villaggio Fulani.


Se l’ente del turismo del Ghana dovesse mai interessarsi a incrementare il numero di visitatori nel Paese, dovrebbe iniziare a rivedere il processo di rilascio dei visti. Stremata da una situazione dantesca, che solo un sacrilego ménage à trois di burocrazie — ghanese, spagnola e quelle derivanti dalla Brexit — avrebbe potuto generare, quasi rinuncio a incontrare la chef Fatmata Binta, vincitrice nel 2022 del prestigioso Basque Culinary World Prize per aver rappresentato le tradizioni culinarie delle donne tribali Fulani dell’Africa occidentale. Disperata, prendo per un attimo in considerazione l’idea di salire su una barca di contrabbandieri che sta tornando in Africa. Poi ci ripenso e mi dico: “Forse potremmo parlare su Zoom?”. La chef Binta si presenta con un ritardo di oltre un’ora alla nostra videochiamata, spiegando che è stata trattenuta dall’ambasciata marocchina per ottenere il visto.

Nata in Sierra Leone da genitori Fulani originari della regione di Fouta Djallon in Guinea, la chef Binta vive attualmente in Ghana ed è membro del più grande gruppo etnico nomade del mondo. I Fulani sono oltre 25 milioni in tutta l’Africa occidentale e centrale. A causa di una violenta guerra civile, di un’epidemia di Ebola e della ricerca di un’istruzione idonea, anche Fatmata Binta ha vissuto la propria esperienza di migrazione, che include un periodo di insegnamento dell’inglese a Madrid e la frequenza a una scuola di cucina a Nairobi. Per i Fulani pastorali, attraversare le frontiere è uno stile di vita. Per la chef Binta è diventata una missione culinaria.

Sebbene la stessa chef Binta sia una Fulani che si è stabilita (il che significa che, come un altro 30% della popolazione Fulani, vive in una casa che rimane sulle sue fondamenta), non ha un ristorante fisso. Come la cucina pastorale Fulani che la ispira, la sua cucina è perennemente in movimento sotto forma di un pop-up itinerante chiamato Dine on a Mat. Nominata Ambasciatrice delle Nazioni Unite per il Turismo Responsabile nel 2023, il suo obiettivo è abbattere le barriere culturali, facendo sedere i commensali su tappetini di tessuto colorati e servendo loro piatti moderni, ispirati alle tradizioni tramandate dalle donne Fulani delle zone rurali dell’Africa occidentale. Il ristorante mobile permette a Binta di diffondere la storia dell’identità culinaria Fulani a un numero sempre maggiore di persone. I suoi ospiti sono turisti, expat o gruppi di studenti desiderosi di conoscere più da vicino questa cultura.

A volte viaggia per organizzare eventi Dine on a Mat all’estero, portando un assaggio della tribù africana Fulani nel resto del mondo. Ogni piatto del menu racconta una storia collettiva di un’e sperienza Fulani. Inoltre, da vera nomade, adatta ogni piatto alle condizioni locali. In altre occasioni le sue cene sono organizzate per risolvere i conflitti inevitabili tra i pastori nomadi Fulani e gli agricoltori locali, spesso indignati per il bestiame Fulani che pascola liberamente sulle loro terre. I nomadi tradizionali, spiega Binta, hanno poca considerazione dei confini geopolitici, un’opinione condivisa anche dai miei genitori (e da milioni di altri migranti da Cristoforo Colombo in poi) quando sono emigrati senza visto in America. Per i pastori Fulani, il mondo appartiene solo a Dio. Seguono il bestiame e la volontà divina. I confini sono solo linee arbitrarie che qualcuno ha scarabocchiato su una mappa, rilevanti per il mondo reale quanto il disegno di un bambino. I confini sono anche il terreno dello scontro culturale e del conflitto, ed è per questo che molte di queste zone sono militarizzate. La stessa chef Binta cerca di dimenticare i ricordi traumatici dell’infanzia, quando attraversava i posti di blocco sorvegliati da militanti che indossavano orecchie e dita umane come trofei di guerra. I problemi del mondo possono davvero essere risolti cenando insieme seduti su un tappetino? “Il cibo è potente. È uno strumento di cambiamento”, insiste Binta, quando finalmente si collega alla videochiamata su Zoom dal retro di un Uber che si fa largo tra le strade di Accra. La ricezione è pessima, ma la potenza della sua voce carismatica arriva forte e chiara.

“Sedersi su un tappetino fa abbassare la guardia alle persone. Condividere il cibo da un piatto comune e mangiare con le mani rende le persone naturalmente più intime. Permette di vedere l’umanità dell’altro. La vera sfida è convincere le persone a sedersi insieme sul tappetino”.

Sto facendo del mio meglio per trovare la strada che mi porti a quel tappetino, ma mentre il tempo scorre, le scadenze delle riviste non aspettano. Voglio ancora andare a trovare la chef in Ghana, dove sta costruendo un Fulani Cultural Heritage Village, un centro educativo per far conoscere le tradizioni e le tecniche culinarie Fulani. Voglio incontrare i cuochi Fulani delle zone rurali e assaggiare i loro piatti. Voglio vedere come la Fulani Kitchen Foundation di Binta li sostiene e impara da loro. Voglio vedere il fonio, l’antico cereale che Binta ha promosso in collaborazione con la FAO, raccolto da mani Fulani. Fino ad ora l’ho visto soltanto online, venduto in pacchetti da 250 g con istruzioni per il microonde da un’azienda italiana chiamata Obà Foods. Un giorno, mi riprometto, ci andrò, non appena l’ambasciata del Ghana mi concederà un visto. Nel frattempo, un’intervista con una qualità di Zoom piuttosto bassa non è sufficiente. Anche nel nostro mondo iperconnesso e post-pandemico di nomadi digitali, è ancora impossibile cenare con qualcuno a distanza. Afferro il passaporto per incontrare la chef Binta nella sua prossima destinazione pop-up, il Mandarin Oriental di Marrakech. Almeno, non ho bisogno di un visto per visitare il Marocco. Alleluia.

Incontri culturali: Il Nordafrica e l’Africa occidentale

Il Ghana e il Marocco si trovano nello stesso continente, ma sono mondi completamente diversi. Cenare nell’adorabile terrazza del ristorante Shirvan del Mandarin Oriental Marrakech non assomiglia affatto all’esperienza rustica di Dine on a Mat che avevo inizialmente programmato. Mi immaginavo accovacciata a terra a condividere del cibo con intimi sconosciuti da qualche parte nella savana africana, con una scorta di gel igienizzante per le mani e antibiotici nascosti nella borsa. Ilristorante di questo hotel è situato in un’oasi di 20 ettari di terreno ben curato e i piatti che vengono normalmente serviti richiamano i sapori della Via della Seta, in un’ambientazione da Mille e una notte. Per i prossimi giorni, invece, a essere servita sarà l’Africa di Fatmata Binta. Sono ancora delusa per il Ghana, ma le mie ginocchia scricchiolanti provano sollievo. Amo Marrakech e anche la chef Binta ne è innamorata. Dopo un’ora di procedura all’immigrazione marocchina – che richiede meno di due minuti – incontro nella medina lei e l’Executive Chef di Shirvan, Yassine Ouali Eddine. “Questa città scatena tutti i sensi: l’olfatto, l’udito, la vista. Ti risveglia l’appetito”, dice felice mentre ci aggiriamo in un mercato vicino, pieno di spezie inebrianti e polli vivi. Incuriosita dalle conserve di limone marocchine, la chef Binta ne compra subito un po’, per incorporarle nella salsa di agrumi e senape che utilizza nella sua portata Chicken Yassa, un popolare piatto senegalese di pollo brasato con molte cipolle e influenze francesi. La combinazione improvvisata è un atto naturale per una chef nomade.

“I Fulani cambiano il loro cibo a seconda di dove si ferma la carovana, così adatto i miei piatti in base al luogo in cui cucino. È un concetto alla base del nomadismo”. 

Compra così tanti ingredienti che lo chef Yassine si allarma, soprattutto quando sente i prezzi proposti dai venditori. C’è un acuto scambio di battute in arabo e assistiamo a una breve dimostrazione dell’arte di contrattare marocchina. Sebbene i nomadi Fulani allevino bestiame, la chef Binta spiega che la maggior parte della loro dieta è a base di vegetali, in gran parte essiccati. Scambiano la carne con le verdure e poi le conservano. Binta ha portato dal Ghana la sua dispensa da viaggio, che include polvere di baobab e moringa, acciughe essiccate al sole, gamberetti macinati e cipolle essiccate. Anche il suya, una miscela di spezie a base di arachidi e peperoncino usata per marinare gli spiedini di carne alla griglia nelle bancarelle notturne di tutta la Nigeria, è un elemento fondamentale del suo arsenale. Purtroppo, o forse per fortuna, tra le sue scorte non vedo la dawadawa, la famigerata carruba fermentata. Ho sentito dire che l’odore, che è stato paragonato a quello delle feci o del formaggio in decomposizione, è tanto polarizzante il durian, il frutto del sud-est asiatico che puzza di cadavere. Credo che per ora rimarrà un sapore che riserverò per il futuro. Tuttavia, è meglio che mi sbrighi, perché ultimamente il dawadawa sta perdendo terreno a favore dei cubi per il brodo Maggi, la “droga che porta alla perdizione”.

Gli chef marocchini conoscono bene la moringa, che cresce persino nell’hotel. (“Ha il sapore di matcha” come la descrive un* pastry chef). È una fortuna, perché Binta non ne ha portata abbastanza. Dice che i semi di moringa schiacciati possono purificare l’acqua torbida, un trucco di campagna utile da sapere. Tuttavia, nessuno di noi aveva mai sentito parlare di mangiare le foglie, i frutti e la corteccia dell’albero di baobab. A quanto pare, dobbiamo frequentare più spesso le corsie dei negozi di alimenti salutari. Il baobab in polvere si presenta in una busta metallizzata dall’aspetto sorprendentemente trendy, di quelle che si trovano nella sezione dei superfoods. Mi rendo conto, non per la prima volta, che i poveri e i ricchi salutisti sono sorprendentemente allineati nelle loro abitudini alimentari. Il baobab è ricco di vitamina C e produce un gelato meraviglio samente unto e saporito che appare nel dessert La mia Africa della chef Binta. I giganteschi baobab servono anche per conservare l’acqua e come luoghi di sepoltura per i capi tribù, come avviene in Senegal. Binta apprezza così tanto il baobab che lo pianta ovunque ha la possibilità di farlo. “Un modo per celebrare i cibi dimenticati non è solo parlarne, ma piantarli”. Poco prima del servizio della prima cena, Binta e lo chef Yassine si dirigono nel grande orto del Mandarin Oriental per trovare un posto dove piantare i semi di baobab che Binta ha portato con sé. Il momento diventa un solenne patto di amicizia tra due chef di tribù molto diverse. Speriamo che qualcuno si ricorderà di annaffiarli e di avvertire il capo giardiniere che alcuni enormi alberi di baobab presto sconvolgeranno il giardino.

Cenare da soli, non su un tappetino

Se l’obiettivo della chef Binta è quello di portare i clienti del Mandarin Oriental fuori dalla loro zona di comfort, non sta funzionando. Io sono più che comoda. Il mio tavolo da sola allo Shirvan è la massima espressione dell’individualismo decadente postcoloniale e tardo capitalista, e in più ho una sedia e delle posate. Il sole tramonta magnificamente su un’enorme piscina abilmente mascherata da laguna con palme. Sulla sinistra, una tenda tentacolare dovrebbe evocare i nomadi berberi del deserto, ma è una lounge chill-out che serve cocktail al tramonto e il menu di street food dell’Africa occidentale di Binta, a ospiti che pagano più di 2.000 euro a notte. L’alcol è facilmente disponibile anche in un Paese a maggioranza musulmana, con uno chef ospite musulmano Fulani. Non riesco a vedere nessun altro commensale, figuriamoci condividere ciò che stiamo mangiando. Il lusso è la privacy e i coperti individuali.

Ma mangiare da soli un menu di 980MAD (94¤) è totalmente scollegato dal progetto di Binta che punta su un pasto comunitario per sensibilizzare l’opinione pubblica. Cercando di richiamare lo spirito di Dine on a Mat, cerco di mangiare l’insalata di fonio della chef Binta – un bouquet di verdure, frutta, noci e fiori splendidamente composto e cosparso di un cucchiaio scarso di fonio – con le dita. Riesco solo a cospargermi la coscia di minuscoli granelli di fonio, oltre a qualche cubetto di cetriolo e mango ricoperti di miele. Un cameriere preoccupato si avvicina rapidamente e mi porge un cucchiaio.

Come quando a un bambino ben nutrito si dice di mangiare le verdure per ricordargli dei bambini che muoiono di fame in Africa, mi sento in colpa per i preziosi chicchi di fonio che ho lasciato cadere. Binta parla molto del fonio, a volte chiamato “riso della fame” e a volte “chicco della vita”. È un piccolo cereale simile al miglio, coltivato dai Fulani in tempi difficili e in condizioni di crescita ancora più difficili. Cereale ricco di nutrienti che cresce in appena 6-8 settimane in terreni poco fertili e con poca acqua, il fonio offre ai Fulani – e forse al resto del mondo – un modo per sostenere se stessi e l’ambiente. Anche se non mi fosse caduto nulla, non ce ne sarebbe stato comunque abbastanza per farmi un’idea del sapore del fonio. Servire una porzione più sostanziosa, che metta il fonio al centro del piatto invece di usarlo come una semplice decorazione, potrebbe davvero stimolare una maggiore domanda di mercato e contribuire a sostenere quei bambini affamati in Africa. Ma forse la chef non vuole creare disagio facendo provare a tutti l’esperienza di un boccone di “riso della fame”. O forse, semplicemente, non c’è abbastanza fonio per tutti.

La lavorazione del fonio è un processo laborioso. Tradizionalmente la trebbiatura è manuale e i semi vengono poi miscelati a sabbia e pestati in un mortaio, un’operazione che richiede circa un’ora di lavoro a una donna e 15 litri d’acqua per produrre 2 chilogrammi di fonio pronto per la cottura, ma con un notevole residuo di sabbia. Con parte dei fondi vinti grazie al Basque Culinary Prize, la chef Binta ha acquistato per le donne dei villaggi Fulani delle trebbiatrici, che decorticano il fonio in una frazione di tempo, migliorando sensibilmente l’efficienza del processo. Quando un boccone di cibo richiede così tante risorse per essere prodotto, sprecarlo è un peccato terribile. Quando arriva la portata successiva, che consiste in una Rana pescatrice dal sapore deciso, delicatamente cotta al vapore in foglie di waakye e accompagnata da un tè al pesce dal sapore pungente di agrumi, apro la confezione fumante con le dita, ma mangio il pesce con la forchetta.

Una donna Fulani chef in una cucina professionale

Anche in quest’epoca di celebrity chef che volano da un aero porto all’altro con le valigie piene di catering “di contrabbando” per soddisfare una clientela altrettanto benestante, la moderna cucina nomade della chef Binta si distingue per la personalità ben definita. Lei stessa è l’ingrediente segreto. Il suo cibo non ha il sapore di nulla che abbia mai mangiato prima in un hotel. La personalità magnetica di Binta e la sua identità Fulani sono così dominanti nel piatto che Escoffier non c’entra assolutamente niente. All’inizio della sua carriera professionale, la chef Binta ha deciso che non aveva senso cucinare cibi che lei stessa non aveva mangiato da piccola. Così ha lasciato il suo lavoro convenzionale in hotel e si è imbarcata alla ricerca della propria identità culinaria. L’ha trovata dando voce agli altri della sua tribù.

A differenza degli chef solitamente bianchi, maschi e di origine europea che si sono fatti notare parlando dei “cibi perduti” dei popoli nativi e delle Prime Nazioni delle loro varie terre di adozione, la chef Binta racconta le storie della sua gente. Chiede alle donne Fulani le loro ricette e le nozioni nella lingua madre comune. Tornata temporaneamente in una vivace cucina professionale d’albergo a Shirvan, il foulard dai colori vivaci di Fatmata Binta spicca su una foresta di alte toques bianche da chef. Sembra a suo agio, sicura del suo menu e della sua visione, dirige con efficienza la brigata tenendo d’occhio il suo Riso jollof al cocco. Ma nonostante l’apparente sicurezza, non è completamente nel suo elemento. Anche il suo fidato ma piuttosto imbronciato sous chef ghanese, Yussif Luqman, è stato scherzosamente incoronato con una toque bianca da un allegro chef de partie marocchino di nome Badr El Hachtouki. Luqman tollera la toque per qualche ora prima di toglierla e rimettere il suo berretto nero rovinato.

Tra le toques bianche, ci sono un paio di foulard neri. Uno appartiene alla sous chef Hind Nabgine, che ha iniziato a lavorare in una cucina professionale all’età di 14 anni e lavora a Shirvan da 10 anni. Le sue dita abili legano rapidamente i filetti di rana pescatrice di Binta in foglie di waakye, che la chef decide di impiattare su piatti con scritte berbere. Mentre lavorano fianco a fianco, le due chef parlano anche di un altro legame che le unisce: l’abitudine delle loro culture di farsi tatuare il viso. Vederle insieme mi trasmette speranza e fa credere che le donne possono trovare la loro strada nella cucina professionale.

Nei villaggi Fulani, chef Binta si fa strada grazie alle sue capacità linguistiche, invece qui a volte si trova costretta a lottare con le barriere della lingua e della cultura. La brigata di Shirvan fa del suo meglio per seguire le sue istruzioni, non appena le comprende. Quando chiede allo chef Badr di arrostire dei peperoni direttamente sul fuoco, lui sembra momentaneamente confuso. Lei ripete l’istruzione, gesticolando con un brillante peperone rosso in mano. “Come per l’insalata marocchina?”. Il volto dello chef Badr si illumina di sollievo. “Sì, come per l’insalata marocchina”.

Lo chef esecutivo di Shirvan, Yassine Eddine, è un padrone di casa eccezionalmente cortese. Si assicura che la sua ospite abbia tutto ciò di cui necessita, compreso il supporto morale. Quando ha bisogno di olio di cocco, un ingrediente fondamentale per il suo jollof, lo chef Yassine attinge alla sua dispensa personale per fornirle un buon olio ghanese portato da suo padre. Alle 18:00 i direttori del comparto food and beverage dell’hotel arrivano per assaggiare il menu di cinque portate della chef Binta. Sono molto positivi e incuriositi dai piatti, ma conoscendo bene le aspettative degli ospiti internazionali dell’hotel, suggeriscono di ridimensionare i condimenti audaci e di ridurre le generose porzioni a favore di porzioni più da alta cucina. Lo chef Yassine difende l’approccio di Binta, affermando che il suo cibo deve essere autenticamente suo. Binta riconosce il sostegno di Shirvan e non lo dà per scontato. Sa che altrove spesso le capita di non essere accettata come una “vera” professionista, nonostante la sua laurea in cucina e la vittoria del Rising Star Best Chef Award 2021.

“In cucina non mi stresso per dimostrare qualcosa. Mi mantengo sul semplice”.

Il messaggio di Binta riflette la sua Africa, non le ostentazioni tecniche da chef. Pratica una cucina intuitiva, senza pesare né misurare e sicuramente senza pinzette. Il metodo Fulani consiste nel condire con il sale finché non si sente lo Spirito sussurrare: “Basta così, figlia mia”. Gli Spiriti la sostengono sicuramente. Il condimento dei suoi piatti è impeccabile: audace, ma equilibrato, nonostante filtri le miscele con le dita invece di usare un colino. Il suo Bofrot, pasta fritta ripieno di succosa coda d’agnello, è pazzesco. Potrei mangiarne un milione. “A volte si chiedono se sono davvero una chef” dice mentre sbatte a mani nude la polvere di moringa amara nel latte per un’altra base di gelato. ”È qui che entrano in gioco le tecniche apprese dalle cuoche di strada. Non ho bisogno di una frusta. Ci limitiamo sempre a fare le cose con le mani. Quello che vedete su Netflix non è quello che facciamo noi”. Purtroppo, non ci sono abbastanza contenitori Pacojet per congelare tutti i suoi semifreddi alla moringa e al baobab, quindi deve improvvisare di nuovo.

Mangiare con le mani

L’ultimo giorno a Marrakech, lo chef Yassine ci invita a pranzare in un ristorante del posto. Ci vuole quasi un’ora per arrivarci, attraversando la città. Durante il tragitto, chiede alla chef Binta se sogna di ottenere una stella Michelin un giorno. “No”, risponde lei senza esitazione. “Ci sono altre cose che desidero di più”. “Altre cose? Ad esempio?” Lo chef Yassine fatica visibilmente a immaginare cosa possa essere più desiderabile di una stella Michelin. Io invece fatico a immaginare che la Michelin dia una stella a un pop-up nomade. “Voglio tre cose”, dice Binta, con la sua ormai familiare concentrazione totale sui suoi obiettivi. “Innanzitutto, voglio un libro di cucina di successo, un’eredità di lavoro per insegnare alla gente il cibo Fulani”. “E?”, chiede lo chef Yassine.“Poi, voglio estendere la mia Fulani Kitchen Foundation oltre il Ghana, nel resto dell’Africa. Voglio emancipare più donne e più comunità”. Tutto qui? “Infine, voglio davvero essere protagonista di un episodio di The Chef’s Table”. Direttori della programmazione di Netflix, mi ascoltate? Fatmata Binta è pronta per il prime time!

Lo chef Yassine si accosta a un chiosco lungo la strada, 10 minuti prima dell’apertura. Non ditelo a nessuno, ma si chiama Ayachi Chwa, situato sull’autostrada che porta a nord-ovest della città. Ci sono alcuni tavoli e sedie di plastica rossa, ma non ci sono posate in vista. Spinge con forza la porta arrugginita che dà sul retro. “Questo è il segreto dell’agnello marocchino”. Ci sono quattro forni a pozzo in terracotta, con colonne di fumo che fuoriescono dai coperchi, come il cratere di un vulcano attivo. Rompendo il sigillo del primo forno si scopre una fossa senza fondo, riempita da file su file di agnelli interi lungo le pareti. Stanno arrostendo da tre ore. Cerco di sbirciare all’interno, ma c’è così tanto fumo e grasso scivoloso che ho paura di caderci dentro. Il capo dei forni riesce in qualche modo a tirare fuori un agnello intero e fumante, del peso di almeno 20-25 kg, che viene portato al bancone che si affaccia sulla strada di fronte. Come i gabbiani sulla spiaggia, un’orda famelica scende immediatamente dal nulla, portando via la carne non appena viene tagliata e pesata su delle bilance giganti. In meno di cinque minuti, l’agnello è completamente distrutto e sparito. Sicuramente consumano centinaia di agnelli al giorno. Lo chef Yassine riesce a farsi strada a gomitate. Ne esce trionfante con un piatto fumante, pieno di agnello succulento e quattro pagnotte di pane fresco e rotondo.

Finalmente ceniamo insieme da un piatto comune, mangiando con le mani e scottandoci le dita su grandi pezzi di glorioso arrosto di carne. Non ci sono tovaglioli, ma non importa. È meraviglioso condividere il cibo con tanta gioia. Tuttavia, sono in netto svantaggio e mi riprometto di esercitarmi a mangiare con le dita prima del prossimo turno Dine on a Mat. Una donna mendicante si avvicina al nostro tavolo e tende la mano. Lo chef Yassine riempie mezza pagnotta con una generosa porzione di agnello e gliela dà. La donna continua a tendere la mano, volendo un po’ della pelle saporita. Chi non lo farebbe? Yassine sospira, un po’ esasperato ma divertito, e gliela dà. Il banchetto sarà anche stato marocchino e non Fulani, ma abbiamo comunque imparato a mangiare su un tappetino: dita unte e compassione per gli stranieri affamati tra noi.


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