Reportage
Impolpettabile
Milano spara…Roma risponde
“Dissing” di polpette tra la città della moda e la Capitale
testo di
Lorenzo Sandano
Foto Milano di
Alberto Blasetti
Foto Roma di
Andrea Di Lorenzo
Da Cook_inc N. 25
Milano spara…Roma risponde
34 minuti

“Se scrivo sedici barre vi chiudo in sedici sbarre
due scimitarre: una alle palle l’altra sopra le spalle
Da MI alla Capitale come il vizio la pena
il tizio fa scena io gli cambio il colore del sangue in vena… Milano trema e la pula vuole giustizia

la camera a fuoco fittizia l’identità del dogo
Primo: se Roma chiama rispondo
Secondo: se voi rimate per mangiare io solo per incassare il conto Finti gangsta ditemi chi è che spara
Impara, la mia lirica è dura dillo alla fibbia della mia cintura
Bene, ora ti espongo i miei punti ma di sutura
il tuo rap è come lycra, si ricicla perché è spazzatura
se dici che chiami gli amici vai in questura
per questo ho il dito sul micro e levo la sicura, Frà“

MILANO ROMA
Cor Veleno & Club Dogo


Aria di modernità, che sfreccia tra cemento, gentrificazione e polvere da sparo. È una Milano sempre più veloce, acuta e internazionale quella che si affaccia al 2020. Libera dai fantasmi della città da bere; degli apericena e dello stacanovismo di facciata. Pronta ad aprirsi al mondo, incarnando in Italia forse il più concreto esempio di metropoli europea. Per questo, ci piace fare un controverso salto nel tempo. E immaginarla avvolta dalle nuances in bianco e nero di un noir poliziesco anni 70. In quell’atmosfera urbana, tesa e rarefatta, che ancora è ben palpabile nei vapori che si elevano dall’asfalto incandescente. Ambientazione in cui il parterre ristorativo – indubbio beneficiario dell’attuale prosperità meneghina – torna violento in strada, capace di imporsi con indole dinamica e a sangue freddo. Attraverso il braccio armato di gang di cuochi, che rivendicano la propria personalità con raffiche esplosive di polpette. D’altronde, con la sua forma alimentare sferica e presente in ogni cultura, la polpetta ritrae perfettamente la portata globale dell’odierna cucina milanese. Compattando – tra passato e presente – il vissuto, l’anima e il carattere in evoluzione di questi cucinieri. Abbiamo scelto 4 profili, salendo in scala cromatica dalla tradizione alla contemporaneità. E per ognuno di loro, la polpetta sarà l’arma del delitto. In una cronaca identitaria a colpi fiammanti di impasti, carni triturate e macchie sanguinolente di salse e condimenti.

Carneficina alla trattoria Trippa. Il Manico implacabile di Diego Rossi.

Il fumo della pipa straccia la penombra del seminterrato, mentre il cuoco si concede il meritato bicchiere della staffa a fine servizio. Dopo aver fatto strage di papille gustative in fibrillazione, polverizzando frattaglie e interiora a bruciapelo. In molti continuano a chiedersi di come Diego Rossi – chef bucaniere dallo spirito bohémien, di origini venete – sia riuscito a trionfare sulla mala cittadina. Istituendo un giro d’affari di tale successo tra gli agguerriti clan meneghini. Oltre alla fama (mai del tutto verificata) del marinaio sciupa femmine, di lui si vocifera che in passato disertò la Repubblica marinara di Venezia, per arruolarsi in pirateria. Saccheggiando baffe di stocco e latte di alici nelle cambuse di ogni nave, per poi trovare rifugio e formazione in numerose cucine pluristellate del Nord Italia. In cerca di nuovi stimoli peccaminosi, decide di aprire una trattoria nell’hinterland milanese in tempi non sospetti (ormai 4 anni or sono). Forte della società con un pezzo grosso dell’accoglienza come Pietro Caroli. Detto “il pugliese“, per i suoi arcinoti traffici di ordigni illegali (vedi bombette pugliesi). In una fiammata al tritolo, il loro Trippa (insegna che ben descrive gli appetiti viscerali del nostro cuoco filibustiere), si è guadagnato gloria e rispetto assoluto nella scena di Milano. Sedimentando il prototipo più autentico, efficace e solido di trattoria moderna all’italiana. Dando modo a Diego di portare avanti il suo contrabbando di occhiali vintage e di bizzarre creature, che tiene appese a maturare in cella frigo.

Sì, perché il vero talento di questo virgulto cuciniere dal sottile spirito macabro, risiede in un’interpretazione a dir poco unica della materia prima. Che somma tecniche d’alta gamma a un istinto pirotecnico di esecuzione.

Il tutto trasposto in una veste fatalmente godibile e popolare. Riuscendo a estrarre, con gesto plastico, le tonalità più ostiche e remote di ogni prodotto che maneggia nelle retrovie. Cimentandosi virtuosamente con il margine di sapore estremo di ogni categoria alimentare. A frequenza di aggiornamento e ricerca stagionale pressoché illimitata: in particolare quinto quarto, ma spaziando senza paura tra ortaggi desueti, ingredienti dimenticati e rarità ittiche o carnivore.

le sue polpette celebrano gli umori e i sussulti primitivi dei tagli meno nobili

In questa logica dal sottofondo splatter, ma incredibilmente fine al tempo stesso, le sue polpette celebrano gli umori e i sussulti primitivi dei tagli meno nobili. Del recupero di corpi dilaniati, ricette antiche e manualità vecchia scuola. Rimpastate con tracce contaminate che solcano verso il futuro senza alcun limite espressivo. L’elegantissima e materica Polpetta di cuore di manzo – scioglievole al morso e magistralmente fritta in superficie – trova twist aromatico nella miscela segreta di spezie dalla narrazione arcaica quale il tamaro. Blend d’estrazione veneta, tramandato di famiglia in famiglia, che instaura un esaltante dialogo con la salsa aioli dai rimandi ispanici. Le scoppiettanti Polpette in umido (cotte in padella con impasto a crudo) di trippa e tastasàl (salsiccia cruda, originaria del veronese) raggiungono una formidabile armonia di callosità e morbidezza lipidica, rinvigorite da una salsa di pomodoro dallo spessore denso e struggente. Ancora, in omaggio al classico senza tempo, Diego rispolvera la Crépinette francofila di capretto. Bardata con atavica retina di maiale e potenziata con il quid del fegato di agnello nella matassa succulenta di questa iperbolica polpetta-non-polpetta. Una mattanza di salivazione e goduria senza pietà, che risponde in automatico a quesiti sopra espressi (da gangsters scettici o semplicemente invidiosi) sul perché Diego Rossi e Pietro Caroli, con il loro Trippa, abbiano raggiunto una posizione così alta e ambita nell’olimpo della ristorazione milanese.

Traditions never die. Federico sisti: il karateka romagnolo e la tavola (da surf) che non perdona

Da qualche anno i cuochi milanesi che praticavano smercio sovversivo di ristoro tradizionale, sono stati costretti a guardarsi le spalle. Uno spavaldo gringo romagnolo, col capello sbarazzino e il pallino per il surf, si è insediato nel perimetro urbano della città. Sbaragliando la concorrenza con una cucina dirompente: come un’onda di 6 metri pronta a infrangersi sulla facciata del Duomo. Il suo nome è Federico Sisti e proviene da una gavetta feroce ai fornelli, sin dall’età di 13 anni. Figlio della vida loca delle discoteche di Riccione, pare si sia fatto un nome nel giro spacciando sardoni allo spiedo e mondeghili in salsa ponzu fuori dal Cocoricò. Per infoltire il suo background da pusher di prelibatezze, lo troviamo in successione: alla corte di Gaetano Trovato all’Arnolfo a Colle Val d’Elsa, al Bauer di Venezia (dove farà combriccola galeotta con il pirata/amico fraterno Diego Rossi) e poi a Milano da Aimo e Nadia. Approdato in lande meneghine principalmente per amore di una fanciulla, dice lui. Nel mezzo, uno spirito nomade da spericolato surfer, che rifiuta di esser il sottoposto di qualsiasi capobanda. Girovago insaziabile di esperienze sul campo: in viaggio tra ristoranti e pasticcerie di Barcellona; una parentesi australiana al ritmo di padelle roventi e cavalloni salmastri; e non ultimo il tanto amato Giappone. Che diverrà parte stilistica integrante del suo spumeggiante approccio contaminato.

Perché la cucina di Sisti ha sì un legame fortemente italiano, che affonda le radici nella tradizione più vera. Ma è anche propensa a surfare con stile libero, in brillante equilibrio tra frammenti del suo vissuto itinerante e vorticose influenze esotiche

Saldate tra loro – come in una polpetta – dal rigore tecnico ai fuochi di un vero maestro karateka. Cintura nera del pass.

Con questa identità eclettica e senza freni, il nostro cuoco si è ritagliato un covo di prestigio nell’Antica Osteria Il Ronchettino, ex-cascina del ‘600 posta nel degrado urbano della periferia di Rozzano. In pochissimo tramutata in affollato luogo di culto, grazie al suo pronto intervento nella linea del locale. Ora che il carattere insaziabile di Sisti lo porta già alla ricerca di una nuova esperienza e di nuove onde da domare, vuole concedere comunque un omaggio a questo excursus professionale. Tramite una polpetta che sintetizza la ferrea tradizione meneghina, in tellurico match/assemblaggio con le sue origini romagnole e la sua innata affinità nipponica. Polpette cubiche di cotoletta alla milanese (di filetto di vitello, panate nel panko e fritte in burro chiarificato), sormontate da acciughe adriatiche, fiocchi fumé di katsuobushi giapponese, jus di vitello comme il faut e brio agrumato (da scaltro sborone) di setosa maionese al limone. Un viaggio inebriante e godereccio, tra le coste di Riccione, il marchio classico/insindacabile di Milano e uno sguardo da sognatore, rivolto al Sol Levante.

Tradizioni, in movimento, che grazie al suo tocco non muoiono mai.

Guerrilla meatballs. Tecnica di un omicidio al contraste: la nonna muore sotto il torchio di Perdomo

L’assassino ci riceve nella sua tana, ancora con le mani insanguinate, coperto dal fumo che borbotta dal suo sigaro consumato. Il caotico bilocale – affollato di merendine, giocattoli infantili, salumi intaccati e bottiglie usurate sul tavolo – riassume l’animo più crudo e no filter del nostro uomo. Nonostante il ruolo del famigerato killer oriundo infatti, Matias Perdomo è amorevole padre di una splendida bambina. Ma anche individuo dall’umanità accecante e dall’animo generoso. Rivoluzionario d’altri tempi, con la dialettica e le fattezze di un moderno Che Guevara, che pratica delitti mirati in virtù di nobili scopi. Mai per sadico piacere, subordinato al crimine organizzato. Un essere prezioso, amante del senso più sacro e puro di convivio e condivisione. Non poteva esser diversamente: figlio di guerriglieri comunisti, costretto a rimbalzare in esilio fin da bambino tra Argentina, Danimarca e Uruguay. Assaporando fino in fondo il disagio della povertà, per poi rivendicare se stesso nella faida metropolitana della ristorazione meneghina. Una guerriglia identitaria dettata da una necessità, insomma. Che è quel che ha sempre fatto, sulla traccia rivoltosa di tecnica, prodotto e memoria, sin dai primi moti combattenti del battaglione Al Pont de Ferr. Locale leggendario, che ha messo a ferro e fuoco per anni i Navigli milanesi. Raggiunte nuove consapevolezze – dopo aver demolito e riplasmato tanti capisaldi della tradizione italiana, sotto piogge incessanti di Molotov sperimentali – Perdomo si è lanciato alla rincorsa di nuovi obiettivi. Il suo inedito gruppo di rivoluzionari autonomi, lo ha sviluppato al Contraste, sempre a Milano: ristorante d’assalto, in società con lo storico braccio destro Simon Press e l’istrionico maître/sommelier Thomas Piras. In questo tumultuoso laboratorio di menti progressiste, i tre hanno scelto di riappropriarsi della verità indagando nei meandri della memoria gustativa. In un processo di sottrazione graduale, che trae linfa espressiva dalla creatività, ma che non vuole assolutamente rimanere legato al significato più effimero e vincolante di quest’ultima.

Evadendo dai pregressi di tecnica fine a se stessa. Una cucina che attualmente continua a viaggiare sulle rotte della provocazione figurativa, del gusto tradizionale slacciato dalla riconoscibilità apparente e tradotto in una forma fuorviante, spiazzante anche. Ma che in futuro, mira a spostarsi dal figurativo all’astratto. Switchando il campo di battaglia sul ridefinire la memoria del gusto, andando a togliere riferimenti materici o strutturali da qualsiasi piatto. Cercando un ulteriore contrasto con la tradizione italiana, nell’epoca moderna e fagocitante dell’industria alimentare: sulla metrica di un’insurrezione culinaria a favore di piccoli artigiani e produttori locali. Ma anche cercando di rintracciare sapori e contenitori gastronomici che scandiscano le diverse emozioni umane. Perché per un guerrigliero instancabile come Perdomo, la ricerca di nuovi stimoli è imprescindibile per conoscere se stessi nella vita e nel lavoro. Ogni rivoluzione però, si sa, porta una serie di vittime nel corso del suo svolgimento. E come manifesto di questo passaggio d’intersezione – tra l’attuale Contraste e quello che sarà tra qualche anno – la polpetta diviene l’omicidio inevitabile di una figura cardine dell’immaginario tradizionale: la nonna.


Nonostante le sue origini Sud Americane trovino riferimento nelle albondigas ispaniche (polpette radicate nelle influenze arabe delle albonâdiq), Matias ha scelto come scena del delitto il terreno minato della polpetta in umido all’italiana. Perché, come sostiene fermamente:

“La cucina italiana è una cucina del mondo e chiunque si ritrova nel rito della tavola, delle emozioni e del convivio all’italiana. Che diventa di diritto un bene internazionale”.

Come fondamenta del misfatto, si parte quindi dalla base storica/etimologica della polpetta, che derivando dal termine polpa, non viene realizzata con carne macinata, ma con un pezzo unico di carne. Tagliato e impastato tradizionalmente con parmigiano, pane bagnato, aglio, uovo e aromi. Avete capito bene, il piatto di partenza per l’uccisione della nonna è un classicissimo piatto di polpette al sugo, confezionato con tutti i crismi. Perché “per uccidere la nonna, prima bisogna amarla. Altrimenti rimarrà un peso sulle spalle da portare in eterno” afferma il nostro killer oratore. Da qui, scatta la tecnica dell’omicidio: il sugo ristretto ai sentori casalinghi e conturbanti di affettività, viene ridotto, filtrato, abbattuto e tramutato in pellicola/lamina di pomodoro. Poi fustellato per ricavarne un centrino di condimento. Ovvero il pizzo ricamato dalla nonna come sue ultime memorie, nonché i 21 grammi d’anima rimasti nel piatto (tributo al celebre film di Alejandro González Iñárritu). La parte materica delle polpette, viene invece maciullata in stato agonizzante, sotto il peso violento di un torchio. “Non usiamo una presse alla francese, fighetta, che sa di anatra” rimarca Perdomo. “Ma una pressa sarda, che serve a schiacciare le olive. Perché per ferire la tradizione italiana bisogna usare un’arma popolare italiana”. Da questo cruento passaggio manuale, rimarrà solo il sangue della nonna AKA l’essenza della polpetta condita. Gelificata e plasmata in forma udibile di proiettile: il bossolo che mise fine alla povera vecchietta. Per negare ogni possibilità di resurrezione, lasciandole esalare l’ultimo respiro, lo chef prepara un impasto per polpette di carne in umido, non lo cuoce nel sugo e lo mette in abbattitore. Infine gratta questa polpetta cruda ghiacciata come fosse formaggio direttamente sulle spoglie gelide del cadavere, ossia il piatto finito. Per un evocativo/geniale effetto palatale all’assaggio: le polpette avanzate e fredde, ormai testamento di una tradizione deceduta, vengono divorate con appetito e indifferenza. Arraffate a mani nude in hangover, direttamente dal frigo. Come spesso Matias (ma anche un po’ tutti noi) ha fatto nella ruvidezza vissuta del suo bilocale. Dove i fasci di luce che mitragliano le finestre, vanno a scolpire la personalità raggiante di questo cuoco/assassino dal cuore d’oro e dall’estro inesauribile.

E venne il giorno del burro nocciola. Eugenio Boer: il sicario olandese dallo sguardo di ghiaccio.

Il trench d’antan a collo alto, pare indossato a tratteggiare il carattere teutonico e una compostezza inflessibile. Mentre dal vetro lucido degli occhiali, lo sguardo attento non lascia passare alcuna emozione superflua. Poco loquace, ascolta e scruta meditativo, Eugenio Boer. Col piglio ferreo di chi potrebbe lasciarti esanime all’istante. Con un colpo ben assestato, partorito dall’armeria letale che detiene in cucina. Per via delle sue origini olandesi, c’è chi dice sia un sicario fiammingo dal profilo glaciale. Per noi che lo conosciamo bene, sappiamo che il rigore intransigente espresso da questo cuoco si limita allo spadellamento dei piatti. Perché oltre quella scorza granitica, vi è un animo tenero, ricco e avvolgente. Come il burro che definisce – con presenza stabile ed elegante – tante preparazioni della sua linea culinaria.

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Figlio ramingo di padre olandese e madre ligure-siciliana, trascorre parte dell’infanzia in Olanda, ma diviene prestissimo cadetto ai fornelli (appena tredicenne) instradato emotivamente all’arte bellica della cucina tradizionale, grazie all’imprinting determinante della nonna. Prima di assumere il ruolo attuale del tiratore scelto, si riconcilierà con i suoi tratti mediterranei, facendo pratica da Alberto Rizzo a Palermo all’Osteria dei Vespri e svilupperà la classe dell’artificiere dal maestro Gaetano Trovato all’Arnolfo in Toscana. Poi, la chiamata nord europea, da filoinfiltrato DDR al Vau di Kolja Kleeberg a Berlino. Per approdare infine a Milano, come un terminator dell’alta cucina, temprato dai trascorsi dolomitici di Norbert Niederkofler in Val Badia. Un percorso altisonante, che gli ha dato modo di formulare un codice quasi militaresco.

Ma che Boer non ha immagazzinato passivamente, come un automa capace solo a eseguire. Ne ha fatto al contrario un arsenale di esperienze da rimodulare a sua immagine, non tradendosi mai.

Una cucina tagliente, tecnicamente impeccabile e complessa come la sua personalità. Ma anche morbida, intensa e corroborante. Vicina agli appetiti più schietti e calorosi, in amabile contrasto con il timbro glaciale della sua estetica appartenente.

Certo, nel corso della sua vita professionale, qualche guerra fredda di patimenti l’ha dovuta fronteggiare con la baionetta tra i denti: in quel passaggio che dal trionfo neo-stellato del suo ex-ristorante Essenza, lo ha rivisto sfoderare coraggio in prima linea. Per rimettersi in gioco da zero con il suo progetto individuale, il ristorante Bu:r. Una sfida che siamo sicuri, porterà alla vittoria.

Perché la ricchezza di questo chef, risiede proprio nel tendere al perfezionismo tecnico, solleticando al tempo stesso corde emotive ancestrali. Come la sua Polpetta, in omaggio al papà: “L’unico piatto che sapeva cucinare. E che per questo ha un valore inestimabile” ricorda. Classicissimo impasto di carne bovina e suina, pane bagnato nel latte, pochi aromi. Per una semplicità casalinga e incisiva. A irrobustirne il nerbo, doppia panatura in uovo e pangrattato e un bagno caldo e ricostituente in burro chiarificato. Arrivando a cottura con candidi ciuffi di burro freddo. A laccare il boccone finale, in minimalismo quasi spirituale, una salsa super lucida e vellutata di pomodoro, tirata al burro anch’essa. La poetica del less is more, che si verticalizza fino a toccare altitudini contemporanee. Come quel famoso colpo dritto al bersaglio, che non lascia scampo. Al godimento primordiale.

Roma risponde

“Noi ci chiamiamo come? Primo più Squarta col volume a ciavatta
quelli mezzi Roma Zoo, mezzi Robba Coatta se non ti va schiatta c’ho motivi di fuoco sui tuoi motivi di carta

c’ho la posta in gioco alta
Qua fuori è l’inferno che se mi fermo…
c’è chi si aspetta che io riparta
Metto sull’attenti voi zero-zero
tu sul mio treno sei solo un passeggero
Più su col suono che ti fa prigioniero
Lo stereo co’ robba giusta te lo bussa primero Dai, quando passo prendo ostaggi, pugni e calci bello tu con il rap non sai che farci“

Milano Roma
Cor Veleno & Club Dogo

È lo scenario dai colori desaturati di una Roma al piombo settantasettino, quello che accoglie il duello a distanza con Milano. Una città che trasuda amore e odio: in perenne conflitto tra la sua eterna bellezza – dove antico e moderno si fondono in prospettive ineguagliabili – e la sua controparte violentata dal degrado. Corrosa, come sampietrini, da disordine e corruzione. Una schizofrenia che però non basta a placare l’impeto delle rivoltelle. Perché l’orgoglio della ristorazione romana non rimane indifferente ai bombardamenti di polpette milanesi. Anzi, rivendica il suo status di Capitale con una banda di giovani cuochi e di vecchie leve dal grilletto facile. Pronte a riarmarsi, tra rioni e quartieri, per riprendere possesso del suolo urbano. Del proprio ruolo di metropoli culinaria, dove la polpetta detiene storicamente un ruolo di spessore insindacabile. Andiamo a condire 6 vigorosi profili impolpettabili: dall’impasto tradizionale a quello contemporaneo. In un romanzo gastro-criminale sospeso nel tempo.

Delitto in rosa da SantoPalato. La furia abbruzzese di Sarah Cicolini.

Capelli rossi fiammanti e sguardo agguerrito, fungono da preambolo visivo per le scintille caratteriali che divampano nella piccola cucina. È qui che Sarah Cicolini, cuoca dall’indole feroce e ostinata, consuma ogni sera il suo delitto perfetto: trafiggere il ventre della tradizione capitolina, riuscendo a conquistare il cuore del popolo romano. Molti malviventi del giro ancora mal digeriscono il successo di questa ragazzaccia “tutta cacio e pepe“ di origini abruzzesi (self made in Guardiagrele). Sarà perché si è fatta largo – sferrando mazzate di carbonare e coratella – fino a conquistare il quartiere di San Giovanni. Dove ora sorge la sua Trattoria SantoPalato. Donna combattente, in un mondo di uomini senza scrupoli e malavita di settore. Scottature, zuffe e rese dei conti, l’hanno vista guadagnarsi il meritato rispetto, anche presso insegne stellate della Capitale. Arrivando ad aprire un covo tutto suo: fedele al gusto tradizionale della città ospitante, ma soprattutto alle sue idee e al suo spirito focoso da cuoca di strada. Strappata a una laurea in medicina, dunque secchiona nella ricerca dei prodotti agricoli, dei lembi di carne etici e delle frattaglie pulsanti che maneggia con destrezza in cucina.

Uno stile acuminato e futurista – a mo’ dei tratti estetici che disegnano il locale – che contamina la tradizione con beat furioso, veloce e mai statico

Sarà perché la chef è anche una runner nel suo tempo libero. A sostenerla nelle risse gastronomiche lungo i marciapiedi, c’è il suo braccio destro Mattia Bazzurri. Detto “er ceffone d’avvertimento“: perché in grado di stenderti con una salsa ben tirata, ma lasciandoti cosciente per apprezzare il piatto fino alla scarpetta.

Le polpette scagliate da Sarah, come arma di rivendicazione urbana, ne riassumono storia e vissuto. Dal passato al presente. Le origini abruzzesi irrompono come una manata in faccia, in forma di braciole d’asino: impasto di carne, prezzemolo, erbette, peperoncino e tanto tanto aglio. Sia nella versione volutamente asciutta da arcaico prototipo di street food (consumato dai contadini dopo il lavoro per tamponare l’alcol, nelle antiche osterie/stazioni di posta); sia nella versione più morbida e casalinga, che le vede twerkare in padella, su un corroborante dancefloor di olio, aromi e aglio in abbondanza. Letali.

Poi, l’omaggio a Roma e alla regina del quinto quarto: la Polpetta di coda alla vaccinara.

Poi, l’omaggio a Roma e alla regina del quinto quarto: la Polpetta di coda alla vaccinara. Sigillata in padella e non stremata dalla canonica lessatura (per conservarne umori e turgore), ultimata in forno e spolpata brutalmente a mani nude. Condita con i succhi della sua salsa di cottura ridotta e con il twist di soia e colatura di alici (garum futurista de noantri). Fritta a puntino, trova il KO tecnico con la salsa esotica di arachidi e levistico dai rimandi thai. A evidenziare la visione libera e itinerante, di questa trattoria proiettata al futuro.

La fratellanza magnaforte a Garbatella. Trecca e i briganti del quinto quarto.

Quasi come un paese/quartiere, arroccato dentro la città, Garbatella intona il suo stornello ribelle tra case popolari, mercati e graffiti di vita. In questo selvaggio ecosistema cittadino, i temibili fratelli Trecca hanno instaurato il loro territorio a suon di razzie e brigantaggio culinario. Autori di una resistenza gastro-politica. Quella della tradizione casalinga più verace e fondamentalista: la cucina de’ nonna. Il primo nucleo sovversivo dei Trecca Brothers nasce dietro le barricate del Bar di papà Max. Già intento a complottare qualità e manicaretti, mentre i suoi non curanti avventori lo sfidavano ordinando tagliate di pollo e insalatone tonno e pomodoro. Ma è con il passaggio del testimone al primogenito della famiglia, quella testa calda di Manuel Trecastelli, che s’innalza il vento di rivolta tra i fornelli del locale. Autodidatta – ma forgiato da scontri in piazza e scazzottate – il Trecca dà il via alle sue scorribande tra mercati rionali, piccoli produttori, allevatori e contadini dalla verve sostenibile. Inizia a farsi il callo sulle nocche, partendo dallo studio approfondito della materia prima. Per poi lasciar scoppiare qualche ordigno dietro ai fuochi, cimentandosi con le ricette ereditate dall’unica e sola boss del suo clan: nonna Alma.

Al grido di “magnoforte“ – con questo nuovo assetto di munizioni – Manuel sceglie di rimettersi in discussione e non cercare un assalto contemporaneo al sistema culinario romano. Bensì di tornare indietro ai gesti, ai sapori e alle preparazioni di un tempo. Rimaneggiate con qualche efficace gomitata di leggerezza e con una micidiale attenzione rivolta al prodotto. Come armamentario da rivolta, sceglie il comparto cruento, ruvido e remoto del quinto quarto: contemplato e lavorato in ogni taglio anatomico possibile. Seguendo una logica old school, esclusivamente con il benestare di nonna. Arruola in brigata anche suo fratello minore, l’ex pugile Nicolò: il più riflessivo e strategico dei due, che sale in agilità sul ring piazzando destri e montanti, tra la gestione di sala/cantina e la produzione dei dolci per la pasticceria del locale.

Le loro polpette condensano il moto primordiale di frattaglie, interiora e piatti antichi di risulta. In abiti pop, senza mai tradire il verbo tradizionale. L’esplosivo Picchiabomba, recupera il classico lesso rifatto alla picchiapò con sugo e cipolla: avvolgendo le fibre umide e succulente del bollito in una panatura grezza di pane ai grani antichi, fritta a mestiere e corredata da un nettare di salsa al pomodoro biologico. BOOM. Le antologiche Polpette in umido alla romana, riabilitano l’impasto perduto a base di rigaglie, creste di pollo, durelli e rognoncini (di vari animali da cortile), unite al macinato di manzo e lasciate addensare poeticamente in un sugo da rissa famelica. Infine, l’iconica lingua in salsa verde, trova nuova funzione balistica: sparata con violenza e gusto iperbolico in veste di polpetta, con copertura extra-crispy di rosetta tritata (e il suo consueto bagnetto acetico al prezzemolo). Brigata genuina quella dei Trecca.

Trattoria ribelle, nel puro atto di mantener viva la fiaccola della tradizione domestica. Dove la resistenza più ferrea, si pratica con le zampe sotto al tavolo e con le mandibole salivanti felicità.

L’azzardo dei fratelli Palucci. Barred: i ragazzi della testaccio violenta.

Gli schiamazzi dei bambini, che giocano a pallone nell’ex-mercato di Testaccio, camuffano le pratiche illecite dei gangsters. Intenti a ritirare la merce dal loro macellaio di fiducia. Carne fresca di mattatoio: luogo di culto per questo pittoresco quartiere di Roma, dove i due fuorilegge sono nati e cresciuti. Sui trascorsi dei fratelli Palucci – Mirko e Tiziano – pochi osano proferir parola. Leggende rionali, narrano che ogni loro tatuaggio corrisponda all’omicidio di chi ha cantato troppo. E i due ragazzi sono coperti di inchiostro dalla testa ai piedi. Di vero, sul loro conto, si vocifera che Tiziano sia sempre stato “affamato di sangue e violenza“ sin dalla tenera età. Ma anche di sostanziosi piatti casalinghi. Ragion per cui, la nonna lo mise all’ingrasso con i suoi piatti tradizionali. Cofane di ricette testaccine al rientro da scuola, nel tentativo di sedare questo brutale appetito. Un training a tavola che gli costò un’infanzia in sovrappeso, ma che gli diede modo di sviluppare un palato mentale ancor più fine e spietato. Persi tutti i chili in eccesso come cuoco, sudando sangue e zaccagnate in numerose cucine della Capitale (anche nelle retrovie criminali di Marzapane), ha deciso di mettersi in affari con suo fratello maggiore, Mirko. Scavezzacollo dalla mano e mente lesta, che ha affinato le sue skills da bartender/sommelier gestendo un contrabbando di vini naturali e super alcolici nelle più malfamate bische clandestine della città.

Questo minaccioso duo, col vizio del gioco d’azzardo, ha poi scelto di fare all-in inaugurando un locale fuori dalla loro zona di dominio.

Una terra di nessuno, nei pressi di Re di Roma, invasa dal caos di qualsiasi banda rivale. Mossa rischiosa, che però li ha visti imporre la propria identità culinaria tra bottiglie spaccate e revolverate di tapas all’italiana. Si, perché la linea del loro Barred, somma brillantemente il formato ispanico di piccoli assaggi rituali, con una tecnica curatissima di esecuzione e un’estetica che ammicca cordialmente al Nord Europa. Per gli assetati, non manca una selezione di etichette underground, che ruotano continuamente. Passioni enogastronomiche trasmesse e tradotte da entrambi. Ma dietro ai fornelli, comanda quel buongustaio giramondo (e chef talentuoso) di Tiziano: implacabile nel comporre piatti minimali – strabordanti sapori netti e accesi – assemblati con sorprendente eleganza e levità.

Non è un caso che la sua idea di polpetta scaturisca dal ricordo di scorpacciate luculliane preparategli dalla nonna. L’evoluzione stilistica di quelle badilate di Polpette alla cacciatora, che ora le vede riproposte da crude: per sprigionare il morso carnivoro e setoso di una tartare, arricchito dal marchio godereccio di una salsa classica senza paragoni. L’impasto di vitellone al coltello è quindi condito con tutti gli aromi/ingredienti a crudo della canonica polpetta. Nappata in chiusura da una pornografica salsa tiepida di fondo ristretto alla cacciatora. Affondi perforanti di contrasti – tra texture e temperature sinuose – che manco un coltello a serramanico sfoderato in una lotta di strada. Per un fatale boccone neo-tradizionale, che ci ricorda quanto l’azzardo dei due fratelli sia andato a buon fine.

Il colpaccio di Marzapane. Francesco Capuzzo Dolcetta: il bandito chirurgo dal fendente inesorabile.

La fama funesta della banda di Marzapane è da ricondursi a uno scaltro ex-trafficante di cannoli e cassate di nome Mario Sansone. Detto “il catanese”, per le sue radici sicule, ha saputo ritagliarsi un ruolo di spicco nella scena capitolina: investendo i suoi loschi introiti glicemici nello studio maniacale dell’accoglienza e del convivio. Mirando ad aprire un’insegna nel circondario di Piazza FiumeMarzapane, appunto – per dar libero sfogo alla sua gang di delinquenti del gusto. Con sguardo pionieristico e coraggioso, ha cosparso di benzina e dato fuoco ai cadaveri di una ristorazione velleitaria e impostata. Riappropriandosi del significato più puro, veritiero e incontaminato di ristoro. Al motto identitario di “conoscenza, ospitalità e materia”. Per consolidare il suo colpaccio criminale, ha poi reclutato un famigerato bandito ramingo, disperso da straniero in lande francesi: Francesco Capuzzo Dolcetta. Killer provetto, che negli anni ha occultato i suoi istinti omicidi sotto la divisa del cuoco. Intento a gravitare in alcune delle più autorevoli cucine d’Oltralpe ( Marco Viganò – Aux Anges, Troisgros, Caffè Sillon) per potenziare il suo tocco chirurgico, brandendo coltellacci, mannaie e strumenti mortali. Una facciata innocente da ragazzo quieto e composto, che nasconde una manualità fulgida e inesorabile dietro alle stufe. Perverso, quasi impassibile, nel dilaniare carni, stratificare pâté en croûte e insaccare budelli col piglio di un maestro di charcuterie. Per completare il suo profilo psycho-culinario, si è scapicollato anche in un viaggio formativo nella terra del Sol Levante. Incrementando il suo rigore tecnico, sotto il segno dello Yakuza, e maturando anche una perversa passione da piromane per le cotture nipponiche alla griglia. In un momento di decadenza per la ristorazione di Roma, Sansone lo ha messo a capo del suo squadrone assassino (insieme ai temibili cuochi Alessio Benedetti e Andrian Ciobanu): riuscendo a ribaltare la visione piatta e affaticata della cucina fine dining capitolina. Stanziando un locale di cui si sentiva il dannato bisogno: dal carattere immediato, materico e altamente godibile. Vincente nel riuscire a trasmettere in chiave non ostentata, il folto bagaglio di esperienze e di abilità esecutive che la mente folle di Francesco riversa in ogni esercizio. Spaziando dal sabotare le celle frigorifere del guru-macellaio Roberto Liberati (per la sua macabra collezione di interiora etiche), al confezionare salumi, salsicce e spiedini carnivori da coccolare sulla fiamma aromatica della brace.

Partendo sempre dalla materia prima e dal valore irremovibile del gusto.

Un’eclettica e minimalista trasposizione della cucina italiana, che assorbe influenze da tutto il mondo, sul modello bistronomico dell’interpretazione stagionale. Partendo sempre dalla materia prima e dal valore irremovibile del gusto.

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Lo confermano le sue polpette: ognuna a sancire un passaggio di crescita culinaria, nella vita e nel lavoro. L’andouillette francese (celebre insaccato a base di trippa) viene impolpettata minuziosamente nella retina di maiale, per poi assumere il tono nipponico di uno yakitori: cotta allo spiedo sul kamado (tradizionale bbq giapponese) e irrorata da una coltre candida e sontuosa di salsa a base di panna, jus e senape all’antica. Comme il faut. Sulla stessa traccia francofila, l’opulento paté di fegati e interiora di pollastra homemade, viene compattato in forma sferica e panato da crudo con panko già fritto. Lasciando il cuore della sfera freddo, per uno spiazzante quanto risolutivo contrasto chaud-froid & cotto-non-cotto al palato. Fenomenale. L’amore per il Giappone rientra prepotente con una polpetta di stampo ittico, che si appella alla tecnica del kushikatsu: frittura a immersione su stecco (tipica di Osaka) che prevede una speciale panatura in panko e pastella. Nella versione di Francesco, questa ricetta si integra con un clamoroso impasto a base di canocchie crude e bisque di canocchie, montate con un roux che evoca la scioglievolezza delle crocchette di jamon spagnole. A terminare la parata di polpette, non manca l’omaggio alla sicilianità di Mario e alla nuova esperienza di Marzapane. Con la Polpetta di maiale nero dei Nebrodi 100% e fichi d’india, Capuzzo si erge a moderno Robert Dale Segee (celebre killer piromane) e ridefinisce il senso di umami mediterraneo: nessun aroma o condimento, se non un lavoro millimetrico applicato al taglio e al grasso naturale della carne (altro tratto distintivo di questa cucina). Lasciando che sia il fuoco modulato del barbecue e la laccatura con succhi ristretti del suino a estrarre tonalità speziate e gustative inverosimili. Pazzi veri i banditi di Marzapane. Forse riusciranno davvero a riprendersi Roma.

Marco Martini e i teppisti di Viale Aventino. Ossa rotte e spuntature all’ombra della piramide.

Velatamente nascosta da sguardi indiscreti – slanciata, sopra i tetti di Roma – l’arena del crimine di Marco Martini si erge in posizione strategica: a metà strada tra i resti gloriosi del Circo Massimo e la geometria pagana della Piramide Cestia. Viale Aventino: playground simbolicamente perfetto per un gladiatore teppista come lui. Uno Spartaco 3.0 del fine dining, che ha spezzato le catene della legge ristorativa romana, per ritagliarsi un sistema (malfamato) di successo autosostenibile. Rompendo e calcificandosi l’ossatura del picchiatore a suon di mischie e placcaggi sui campi da rugby (nel suo passato da agonista sportivo). Lanciando sempre più alta e lontana quella palla ovale, alla stessa velocità della sua carriera gastro-criminale. Una forma/figura evocativa che, perché no, ci fa pensare già a una polpetta aerodinamica. Immaginando quella palla da gioco che trapassa il cielo a tutto sprint. Così Martini, le sfere più alte le ha falcate tutte, fin da teppistello sbarbato: prima pupillo del mega-boss romano Antonello Colonna (dalla porta rossa di Labico in volata al Palazzo delle Esposizioni); poi un passaggio da spietato mercenario nella giungla metropolitana londinese (Heinz Beck) e infine la prima conquista individuale della Stazione di Posta alla Città dell’Altra Economia. Dove ha sgraffignato giovanissimo la sua prima stella, tra i relitti urbani dell’Ex Mattatoio Testaccino e quelli tossici dell’Ex Villaggio Globale.

Concluso il suo circuito di spaccio (di tortelli al negativo di carbonara); ha proseguito la scalata nel delittuoso mondo ristorativo: rilevando con il suo crew di insaziabili teppisti (a partire dal possente braccio destro Dino Felici) il fortino abbandonato dell’Hotel Ristorante The Corner. Scatenando un silenzioso sistema criminale non avvezzo a marchette o sbandieramenti malavitosi. Concentrandosi sulle proprie forze: dal dinamico cocktail bar (con somministrazione illegale di alcolici e drink della perdizione, abbinati ai piatti della cucina) a una dialettica culinaria da Roma violenta. Tenace, massiccia, prorompente e libera da provincialismi. Pregna di romanità gustativa, ma sferrata verso contaminazioni sagaci e sentite. Con la veemenza di un destro capace di frantumarti il setto.

Così, la sua polpetta, ritrae la veracità di un pasto romano da rugbista affamato – classicheggiante polenta & spuntature – in un match a due tempi, che scatta rapido sulla fascia. In scioltezza, dalla tradizione alla modernità.

Le sontuose ribs di maiale ripassate in padella con impeto “vecchia scuola scheggia denti”, si colorano di contemporaneità con una salsa tiratissima e sweet & sour di pomodoro ridotto, crema di pecorino, polvere di pomodoro arrosto, fondo di carne ed erbe aromatiche. Come side dish, la polenta spianata e asciugata in foggia extra-croccante, diviene un puntuale accompagnamento dal look di peccaminose chips, divorate in curva allo stadio. Ma il piatto non è finito, perché la trasformazione in polpetta trova significato nel veritiero atto del recupero secondo Marco: l’estetica gourmet viene letteralmente distrutta e spolpata dalle ossa della spuntatura; rimpastata con i succhi della carne e panata nelle briciole delle patatine di polenta ridotte in scaglie. Frittura a immersione e un aitante dip di pomodoro e pecorino (anch’esso recuperato dall’esercizio originale). Per un match manesco e avvincente, vinto con larghissimo distacco su qualsiasi avversario.

Andata e ritorno: strage e follia al Tordomatto. L’impero (romano) del terrore di Adriano Baldassarre.


Sereno e gioviale, corroso dal potere acquisito, Adriano Baldassarre esorcizza l’ennesima strage di clienti nella sua nuova tana: il ritrovo popolare e nefasto della Trattoria L’Avvolgibile nel quartiere Appio-Latino. Colto da consueta follia omicida, sbrana polpette alla romana dal timbro ricco e casalingo. Trascinandole nella scia di sugo tirato a mestiere, come i cadaveri mutilati dei suoi nemici. Istantanea coerente con il profilo di questo cuoco dal tocco netto e impietoso: legato con affettività nostalgica ai sentori culinari di nonna e agli aneddoti folcloristici di una Roma sparita, ma pervaso da un animo assassino che sfocia ben oltre i confini della sua città. In eterno moto progressivo, dalle colline abruzzesi delle sue radici parentali, passando per le glorie londinesi (Zafferano by Giorgio Locatelli), le campagne del Lazio, fino alle sponde mistiche dell’Asia. Per poi imporre il suo dominio del terrore, rientrato nella Capitale. Non è un caso forse che il suo nome coincida con quello di un leader massimo dell’Antica Roma e con il suo nickname di battaglia: l’Imperatore. Rampollo diseredato di una casata criminale tra le più temute. Che gli valse la reputazione del manigoldo sin da quando si impadronì della sua prima stella Michelin in gioventù: pioniere ai tempi dell’originale Tordomatto di Zagarolo, dove venne tradito impunemente dal suo stesso clan. Ma come araba fenice dalle ceneri, il nostro ha trovato modo di ardere ancora e reiterare i suoi piani criminosi. In principio nel corrotto spazio del boss Antonello Colonna a Labico, nel corso di una fiammata durata troppo poco. Poi stratificando un mercato nero di cucina contaminata nel ventre dell’India, presso il ristorante Vetro di Mumbai. Racimolati sacchi di spezie proibite, nuove energie e stimoli barbarici, ha mosso il suo rientro trionfale nella Città Eterna. Edificando un nuovo impero, proprio nel quartiere Trionfale, sotto l’insegna ristabilita del Tordomatto. Uno stile imposto con sparatorie e voglia agguerrita di rinascita. Definito da tratti sempre più conficcati nel cuore storico e tradizionale della cucina romana, ma riletta con la nuova identità progressiva acquisita da pellegrinaggi internazionali e influenze asiatiche. Adriano riagguanta la stella e sedimenta le due idee da malfattore nel parterre ristorativo in un rush senza esclusione di colpi.


Ma come ora non riesce a resistere dinnanzi a un piatto di polpette al sugo, così non ha saputo mai sottrarsi alle costanti culinarie del suo percorso: che, guarda caso, trovano forma ancestrale proprio nella polpetta. Quella emblematica di coda alla vaccinara, nata nel lontano 2004 per assecondare il gesto spontaneo e legittimo di assaporare questo piatto classico con le mani. Ma riscrivendolo in dialetto gourmet, per evitare che le dita impiastricciate da grasso e salsa, debbano esser “buttate via” (cit Baldassarre). Così la polpa di coda, sfilacciata in boccone archetipico, si appallottola in cubi croccanti, poggiati sulla salsa al sugo di coda ristretta e sormontati da una funzionale julienne di sedano a donare freschezza. Assaggio vittima di molteplici plagi, che conserva una bontà immortale nella versione autentica del Tordo. A seguire l’evoluzione storica e cronologica del suo itinere da cuoco, c’è anche la polpetta del riscatto dopo la perdita del primo locale di Zagarolo. Pensata per il ritorno vittorioso a Festa a Vico dopo un primo riavvicinamento alla Capitale. Sempre legata ad aneddoti eruttanti romanità e folclore: la Polpetta di coda di scampo e testa di maiale, in omaggio alla poesia di Trilussa La Carriera del Porco. Un fritto impeccabile, dal sapore guascone e colto, che trasmette piacevolezza immediata accostando grassezze di mondi animali e ittici agli antipodi. In un festoso binomio di nobiltà e miseria che definisce un po’ il carattere combattuto di Roma. Ma anche la sua lettura in progressione e senza confini, perpetuata con carisma da Adriano e dal suo rinnovato team imperiale.

Il
numero
sulle
polpette
Cover N. 25 – Di Polpetta in polpetta


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