Reportage
dal prodotto al pensiero
Rivalta alla ribalta sulla cresta del Falco
Un’officina culturale ai piedi del maestoso Castello di Rivalta
Da Cook_inc N. 34
Rivalta alla ribalta sulla cresta del Falco
18 minuti

Nome: Pietro Carlo
Cognome: Pezzati
Nato a: Milano
Il: 21 Settembre 1995
Segno zodiacale: Vergine (cuspide tra Vergine e Bilancia)
Carta astrale: ascendente Scorpione, ma più con la calma della Bilancia
Se non fosse diventato cuoco: avrei fatto il batterista Jazz
Quando ti sei detto “è in cucina che voglio andare”: a 15 anni, prima da mia nonna che aveva una panetteria poi, dopo la scuola alberghiera, dalla Betty al Caffè Grande di Rivergaro (PC).
Musica da ascoltare su un’isola deserta: Bobby McFerrin, Frank Zappa (il periodo di mezzo, quello di Hot Rats, Waka/Jawaka, The Grand Wazoo), Kendrick Lamar, Jazzmatazz, Ezra Collective, Six Organs of Admittance e il Concerto di Colonia di Keith Jarrett.
Libro da portare su un’isola deserta: non leggo tanto ma ho un libro di colori molto bello del giapponese Sanzo Wanda, che all’inizio del ‘900 ha fatto un’opera sulla monocromia. È come un dizionario dei colori tutto da guardare, che inizia abbinando un colore a un altro, poi a tre, e diventano sei, poi anche dodici. E ti rendi conto quanto sia possibile giocare con le sfumature. Un libro da lettura sensoriale, meditativa, immersiva. 
Un film: senza dubbio Amores Perros di Alejandro González Iñárritu (2000) con Gael García Bernal di gran lunga superiore, anche se a me piace tanto, come a te, 21 Grams con Sean Penn, Benicio del Toro e Naomi Watts.

Pausa. Noi a questo punto avremmo spento volentieri il registratore. Richiusa l’elettronica applicazione per gli appunti. E quando mai ci capitò d’incappare prima in un cuoco ventisettenne con tanta maturità, la parlantina sciolta, umile e mai saccente? Forse un precedente c’è. Magari era, ma senza osare imparagonabili paragoni né tantomeno profili culinari divergenti, quando ci imbattemmo, nel maggio del 2004, in un debuttante ventitreenne, poco dopo l‘apertura del suo ristorante, allora disertato dai più, in uno sfavorito quartiere di Copenaghen. Stessa tensione, stessa dialettica ponderata. Nei due casi, nessun merito investigativo da parte nostra. Ma solo il frutto del puro caso. Diamo a Niklas Ekstedt quel che gli spetta. Fu lui ad annunciarci first thing first appena giunti alla porta del suo ristorante nel sud della Svezia per un reportage televisivo: “Fatevi al volo una doccia in hotel che fra un’ora e mezza, appena finito il servizio, torniamo in macchina a Copenaghen. Dove vi porto a mangiare in un ristorante cento volte meglio del mio”.

Più o meno il medesimo incipit, diciotto anni più tardi, il mercoledì 22 giugno 2022 quando, messo in valigia l’ultimo ciak d’una trilogia documentaria sulla Food Valley emiliana con Victoria Blamey, Mauro Colagreco e Isaac McHale, Isa Mazzocchi, saggia donna, di sua spontanea iniziativa, dalla Palta ci consigliò: “Se cercate un posto dove festeggiare la fine delle riprese, andate a cena alla Locanda del Falco a Rivalta. È un posto con un giovane cuoco che vale. Vi piacerà”.

Fu così, che in una afosa serata di inizio estate, lasciata la macchina a pié di pagina del medievale villaggetto, arrancammo di bella lena per l’irta salitina fra le antiche mura di Rivalta, grilli e lucciole della campagna piacentina a spianarci la strada. Scoprendo live un idilliaco eremo, fiorita natura morta da cartolina postale non fosse stato per il vociare, le conversazioni in sordina, le risate sulle intonazioni vellutate, il tintinnare dei calici, delle forchette e dei coltelli. Sprazzo di luce su pietre e sanpietrini, animazione effusiva che dalla terrazza animata ci accoglie indicandoci l’entrata. Dove lì, spinta la porta, appena sulla sinistra, all’occhio dà il benvenuto una bottega artigianale con tutti i bengodi dell’immaginaria pizzicheria regionale messa in scena in un set teatrale. E le stanze, i saloni, l’illuminante rivelazione del terrestre giardino dove, sotto l’alberata corte, nel balsamico chiaroscuro notturno, tutti i gatti non sono grigi. E ancora meno bigi. Come riuscì tale edenico riparo dall’assordante brusio del mondo a restare celato ai più, frequentato solo dagli happy few? Eppure, era da tempo sotto il pubblico sguardo. 

Basta chiederlo a Sabrina Piazza, ancella ereditaria sempre in piazza, più che mera proprietaria del luogo. Lei prima parla dei ragazzi. Dei suoi giovani. Del collettivo. Poi di Pietro Carlo (Pezzati). E, en passant, pure di lei. Della sua storia che ricopre tutta quella della Locanda. Since 1975: ovvero da quando la sua famiglia, piacentini macellai di alta qualità da generazioni, incalzata dalla concorrenziale deregulation degli allora primi supermercati, si ricentrò nella ristorazione. Investendo a Rivalta nell’araldica ambasciata della tradizione locale, da allora sempre ligia, senza mai deviare dalla chiara idea di un atelier del gusto vero. Mica fu cosa facile per tutto un cinquantennio, con tutti i cambiamenti antropologici dell’Italia allo sbaraglio – grosso modo: dalla morte di Pasolini all’avvento della Meloni – all’ombra dei moralismi, del consumismo, della superficialità e dell’omologazione culturale dappertutto imperante. “Per esatti dieci anni, in cucina da noi, lui ai fornelli e la sua lei in pasticceria, ci furono due giapponesi innamorati dell’Italia. Vi lascio pensare a quanto sospetto destammo all’inizio nella nostra clientela decidendo di lasciare – e credetemi, fu percepita come una vera provocazione – le chiavi della cucina a un nipponico ma fedelissimo interprete della tradizione. Poi, quando la coppia scoppiò, Tomohide, Tomo come lo chiamavamo noi, decise di rientrare in Giappone. Ma poco tempo prima, una sera da noi c’era un animato tavolo di giovani. E tra loro un ragazzo, che mi colpì molto par la sua inquieta maturità quando discussi con lui a fine pasto. Era Pietro”.

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