Reportage
destination restauran
Nicolas Darnauguilhem il valsanto amico di Cerniat
La Pinte des Mossettes, un destination restaurant fuori dal mondo tra i pascoli alpini della regione Gruyere
Testo di
Andrea Petrini
Foto di
Olivia De Quatrebarbes
Da Cook_inc N. 30
Nicolas Darnauguilhem il valsanto amico di Cerniat
18 minuti

Spicciati che passa il 290!

Che ci sia sole, piova o tiri vento, c’è la pensilina per i non motorizzati dove aspettare il bus, bel modello del servizio pubblico elvetico. Quello che da valle s’inerpica per colli e alture sempre più su, bye bye cittadina di Charmey per la strada del luogo detto Cerniat si parte. Sballottati tra due curve sulla linea 290 che placida arranca per scoscesi verdi prati da cartolina “affettuosi saluti dalla regione di Gruyère”. Davvero uno dei posti più belli e singolari, fuori dal mondo. Asserzione senza retro-pensieri, neanche fossimo al soldo della Pro Loco comunale che, la nostra direttrice Anna Morelli prontamente confermerà, pezze di appoggio sulla bilancia, non partecipò né da vicino ma neanche da lontano alla produzione di questo memorial dell’inviato al fronte. Che con i tempi che corrono, in cerca equilibrio interiore, sarebbe pure sceso un paio di fermate prima del capolinea. Benedetto 290, last stop in coppa alla santità, di fronte al convento di La Valsainte, dove da secoli, oramai sola una mera ventina di monaci di clausura chissà come – tra canti gregoriani e autoflagellazioni spirituali – occupa le giornate dedicate alla gloria del Signore. Oltre a recusare qualsiasi forma di lucrosa offerta per trasformare la religiosa cittadella (grande come il palazzo tentacolare della trilogia di Titus of Gormenghast (Mervyn Peake, 1946) o l’umbro centro storico d’una mini-Gubbio) in un villaggio residenziale Airbnb, con la cauzione del lusso del soggiorno dal frate proprio lì abitante. Senza polemizzare sulla carenza dei posti letto o le poco stanziate case popolari, noi lasciamo il 290 e La Valsainte alle nostre spalle proseguendo l’ascesa per più sommi e verdi alpeggi.

Mancano solo i corni di Wagner a far le veci di quelli degli alpini e passato l’ultimo curvone, lei appare. Non col fiatone, semmai col magone, con la lacrimuccia prensile pronta a scoccare, torniamo a mirare la fragile silhouette della baita un tempo tanto agognata. C’è chi lasciò il suo cuore a San Francisco, chi vuole essere sempre sepolto a Wounded Knee. Noi invece è sotto un abete proprio qui che aspetteremmo la fine dei tempi, all’ombra di questo chalet, rimasto nel suo jus tale e quale l’ultima volta, una quindicina d’anni fa, quando chiedemmo ospitalità ai suoi occupanti. O tempora, o mores. Viandanti e pellegrini, compresi Bob Noto, Stefano Bonilli e pure Fulvio Pierangelini, ottenevano garbata udienza alla Corte dei Miracoli di Judith Baumann, fata dei fornelli dalla divina silvestre ispirazione, talmente in anticipo sui tempi e su tutto il resto  (sulle erbe spontanee, sulla naturalità, sulla cucina come autofiction) che, quando il successo l’afferrò per la manica della iacchettella, scioccata dai Mercanti del Tempio (i congressi, la pubblicistica, i professionisti dei soldoni) chiuse la porta al distopico nuovo mondo che si annunciava di già. Un mondo di pura forma senza fondo, di materialismo senza spiritualità, di pura superficialità. E, nota bene, all’epoca i 50 Best non se li cagava ancora nessuno, la peste d’Instagram non aveva ancora infettato le nostre vite. Dopo 21 anni di panteismo culinario, meglio pure di Terrence Malick nei suoi film, lei mollò tutto, vendette e scomparve dalla circolazione. Eppure, il suo spirito aleggia sempre nel circondario.

Nel 2021 “la gente che spinge la porta de La Pinte des Mossettes, magari un tavolo su tre quando passo a salutare, mi fa: ah che piacere tornare qui, in questo posto magico che conoscevo dai tempi di Judith Baumann e del suo socio Jean-Bernard”. La voce narrante in off è quella di Nicolas Darnauguilhem, nuovo residente dei luoghi. Viene da lontano, da un passato tessuto sempre di prima mano. Dal Belgio, dove nella capitale tenne in pugno l’albero maestro di Neptune, la bistronomie incarnata della Vallonia. Anni di fermento, di eterna complice rivalità con i fiamminghi cugini, per congiuntamente affrancarsi dallo storico dispotismo francese che dettava legge. “C’era fermento a Bruxelles e in tutto il Belgio. Tanta voglia di fare, dei giovani che si rimboccavano le maniche, dei luoghi ispirati, unici. Come l’In de Wulf di Kobe Desramaults che fu il ponte prendente la tangente, via dalla francese egemonia per imbroccare le prime inesplorate culinarie terre del nord”. 

Ma Winter was coming. La fine dell’innocenza pure. E non fu più a Bruxelles ma a Ginevra che ritrovammo le gesta di Nicolas Darnauguilhem, alla testa del Neptune nella sua elvetica versione. Un ristorante cittadino, artigianale, all’avanguardia perché fin troppo tradizionale, dai pochi coperti, con una cucina poco tesa alle grandi astrazioni ma alla logica delle stagioni, al buon senso del prodotto sublimato sempre con ponderata emozione. Una cucina naturale, ma non solo nature, la maestria dell’intuizione punteggiata da solide basi. Ma in un’epoca ahinoi meno portata sui sussurri che sulle grida, cosa avrebbe dovuto fare Nicolas? Alzare il tono e il volume per accontentare i sordi, far concessioni e darci di brutto con lo show? Sposato e con prole, Nicolas è persona pacata, riservata. Se gli pizzica e lo rosica, se gli rode l’ansia della creazione, lui se lo tiene dentro, al massimo traspira una soave intranquillità.

Forza placida però mica tanto, visto che quel che lui dava per innato, per tanti erano passi da giganti e salti in avanti calzati gli stivali delle sette leghe.

“Neptune nella sua versione ginevrina ebbe subito il suo successo, di stima e di pubblico. Ma c’erano tanti fattori da considerare. La carta con vini naturali a spada tratta forse prese tanti o troppi di sorpresa, la cucina non corrispondeva totalmente all’immagine che la clientela ginevrina si faceva d’un ristorante assai fine dining seppur rilassato. Il polo d’attrazione della Francia d’un tempo, delle liste e delle guide, delle meritocratiche corporazioni è ancora d’attualità da queste parti. L’attenzione al vegetale, ai produttori locali avrebbe dovuto accompagnarsi d’una enfasi che non era la mia. Eppoi, tanti piccoli dettagli. In una capitale internazionale come Ginevra proporre un doppio servizio, per noi indispensabile per far quadrare il bilancio, sembrò ai più una cosa inaccettabile, una mancanza di garbo imperdonabile”. Nicolas Darnauguilhem ce lo diceva già una serata del marzo 2018. Sulla strada d’uno spettacolo di Romeo Castellucci al Théâtre Vidy-Lausanne, c’eravamo fermati a Ginevra da lui. Lo trovammo in grande forma – cucina d’una bisturica precisione – e in ottima compagnia. Quella di Marc Balzan uno dei più ispirati, e ben poco intervenzionista, vignaioli delle elvetiche confederazioni, per una serata di ori liquidi (ancora una volta, ci toccò pasteggiare quasi di solo bianco) d’alto e altissimo rango. Un bel connubio, simbiosi e complicità a ogni piatto. Mentre dopo cena Nicolas evocava già altri progetti rimasti nel cassetto. In primis, il restauro prossimo venturo d’una casa contadina, nel Bugey francese appena oltre la frontiera, dove avere anche delle stanze e costruire from scratch una comunità di clienti e di produttori uniti dal comune intento di vivere la gastronomia, e quel che la sottende, altrimenti. 

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