Reportage
Cinese X Francese
The Vea way
Vicky Cheng a Hong Kong
Testo di
Andrea Petrini
Foto di
Michael Jepsen
Da Cook_inc N. 26
The Vea way
16 minuti

Vicky Cheng? Un bravo ragazzo. Uno come tanti. Ma non uno tra i tanti. A Hong Kong spicca per il suo dinamismo, per l’entusiasmo straripante. Alcuni direbbero: per il protagonismo che lo vede impazzare su tutti i fronti. Nei suoi due ristoranti, per pop ups e quattro mani – hands up! – ma anche per qualsiasi tipo di evento speciale. È normale, Hong Kong essendo l’insonne città che si sa, con una concorrenza che a dir spietata si ricorrerebbe a una pleonastica scorciatoia, l’intraprendente trentenne sa quanto deve darsi da fare. Sul catalogo dei fine dining ristoranti, non son quelli d’alto rango che mancano all’appello. Anzi, ve ne son fin troppi. Lo sanno tutti. Ma prima ancora che il Coronavirus venisse a cortocircuitare le regole del gioco della domanda e dell’offerta, l’agile silhouette di Vicky Cheng si stagliava già, pimpante come poche, tra la ricca schiera dei nuovi migranti in città. Che è il porto di mare di cui scrissero poeti, navigatori e avventurieri. Nota Bene: anche quelli che ci son nati, si portano appresso un labile effetto di transitorietà.

Tutto è connesso, tutto è illuminato per dirla con Jonathan Safran Foer (Everything is illuminated – Houghton Mifflin, 2002) sotto gli spotlights iridescenti della notorietà. Vicky Cheng lo dice senza perifrasi. La sua forza è di essere nato in una famiglia che come tante, nel 1997, momento fatidico della retrocessione di HK e passaggio d’armi dall’impero britannico all’imperialismo cinese, fece bauli e bagagli lasciando il passato dietro di sé.

Sarebbe cosa saggia e giusta se la nostra editrice Anna Morelli pubblicasse un libro collettivo sui trascorsi comuni di quella stessa generazione – quella di Vicky Cheng, della May Chow o di Richie Lin a Taipei o, per altri versi, dello stesso Jeremy Chan il nostro londinese beniamino – che visse l’infanzia sotto il segno dell’esilio. In America, in Canada, l’approccio di una cultura altra. L’adattamento, l’integrazione, prima del grande rientro. E la doccia fredda. Il clash delle culture. La fusione dei due orizzonti. Sarebbe un libro unico, di portata internazionale. La diaspora del ritorno dolori gioie delle suture alla luce delle tante frammentate due culture. O per dirla in altri termini, e qui Vicky Cheng sarebbe infinitamente molto più esplicito, di quanto il viaggio a ritroso si avveri essere un viaggio interiore. Mai compiuto, come un’analisi mai finita. Lo si sa, il paziente non guarisce mai.

Eppure, la prima cosa che Vicky Cheng fa, due giorni dopo la nostra cena da VEA, è darti appuntamento sotto casa. In pieno centro, in un quartiere in pieno sviluppo. In un coffee shop adiacente, da Omotesanto, per ottemperare all’hipsterizzazione degli spiriti, poi una chiacchierata nella library room della palazzina dove abita, sorta di club privato, tanto pratico par dar appuntamenti. Mentre racconta le tappe salienti della vita, splendori e turbolenze dell’adolescenza, scalpita come pochi. La scarpetta da ginnastica grigio-bianca Y-3 by Yohji Yamamoto batte, tambureggia sul marmoreo suolo. Vicky è pronto a schizzare, ha voglia di darsi da fare. Investendo con noi al suo fianco il mercatino locale, il Wan Chai Market, razziando quel che di più fresco e di meglio c’è nell’ittica bancarella di sua preferenza (“è qui che vengono pure tutti gli chef di Hong Kong”), gamberi, seppie e calamari, teste di pesce, coriandolo ed erbette a volontà. E in men che ci voglia per terminare la frase, Vicky ha già requisito due padelle, una scodella, un fornelletto da campeggio per cucinare per strada, per lui, per noi, un lunch totalmente improvvisato. 

Ed eccoci allora, seduti su delle cassette di sbieco tutto intorno a lui, ginocchia chine o in bilico sul marciapiede, mentre il grande chef stellato (questo giro per strada con i jeans, di certo non col gessato per fare il fico) occupa lo spazio pubblico – tra bancarelle affastellate – per un pop up a uso eminentemente privato. C’è gente che passa, gruppi che si formano. È riconosciuto, fotografato, celebrità additata. Passa pure, tiè guarda un po’ chi c’è, Nick Addams, il caporedattore di Word of Mouth (“è la rivista capitanata da Sara, la morosa di May Chow”). Lo raggiunge di straforo pure un nostro vecchio, e laudato collaboratore, l’artista-fotografo Dennis Soap. E si pasteggia con le dita – alla faccia del finger food – sotto il sole che batte a picco tra cannette di birra ghiacciate e sorrisi di satolla goduria – senza proferire parola. Come per sfatare, o per tacitamente confermare quel che pocanzi il più compìto Vicky Cheng ci aveva confidato: “Per me cucinare è vitale.

Naturale come pensare. Una giornata lontano dai fornelli per me è peggio della privazione della libertà, peggio di essere in gabbia” fa lui senza lesinare sui dettagli.

“Vengo qui ogni mattina dopo lo sport. Corro, gioco a basketball, una volta ero capitano d’una squadra di rugby e, detta fra di noi, me la cavavo anche niente male con la lotta libera. Ma ho tanto meno tempo adesso. Però ogni mattina, dopo lo sport e il mercato di Wan Chai, torno a casa da mia moglie per prepararle un pranzetto.  Cucino solo cinese, ogni dì una cosa diversa, secondo quel che trovo di buono al mercato. La sera idem. Dopo il servizio al ristorante, quando rientro, a mezzanotte o l’una o l’’ora che sia, mi rimetto sui fornelli. È una nostra routine privata, l’intimo rituale del cenare insieme a notte tarda. Un modo per ritrovarci dopo le rispettive giornate, a tu per tu quando fuori tutto tace”. O quasi.

Non che il silenzio (gli) sia dovuto. Intanto Vicky non è di quelli che cianciano a vanvera. Dice quel che ha da dire. Anzi, lo scrive pure, nero su bianco, nella nota d’intenti che apre, patti chiari amicizia lunga (lunga quanto il tasting in dodici stazioni e se sei una faccia riconosciuta, tanto peggio per te, di sicuro anche più) che vi attende. «Dall’inizio alla fine del vostro menu compreso l’ultimissimo bocconcino, presenteremo una collezioni di piatti condividenti tutti tra di loro un forte legame con la cultura hongkonghese. E questo che si tratti d’un ingrediente cinese autoctono poco avvezzo alle tecniche culinarie occidentali, di prodotti prettamente locali o d’un sapore legato ai ricordi d’infanzia”. Se avete letto il testo di cui qui sopra, è che siete nel posto giusto. Uscendo dall’ascensore, non vi siete fermati (come noi e tanti altri scimuniti) al pian di sotto. Nella scomplessata bistrottiera tavola d’impostazione famigliare, dove il family style regna, e dove avevamo ritrovato l’antivigilia il vecchio Richie Lin, in modo after hours, di ritorno nottetempo da una collettiva zingarata di street food insieme a “sua sorella May Chow”.

Due piani, due livelli, uno stesso pensiero – è in alto, da VEA che Vicky Cheng si mette a nudo. E racconta, nei fatti – nei piatti – senza appesantirsi sui precedenti la sua visione del mondo. Ovvero il reboot d’un cuoco, che, di ritorno sul suolo natio, ha dovuto riapprendere il lessico quotidiano. Facendo certo sincratica sintesi delle sue precedenti esistenze ma confessando che l’intuizione e l’illuminazione van a braccetto, che tutto è collegato. E la strada disseminata d’incidenti. O di percorsi frastagliati.

Comincia scherzando, ridendo tra le righe, lasciandoti servire da una sommelliera tuttofare che ha compreso subito come metterti dalla sua: con degli snacks atti a risvegliare pure l’attenzione dei morti. Ovvero tutti quei decerebrati che sempre si vantano d’aver già visto tutto e di tutto. Ma sicuramente non questi preliminari, piatti miniature senza l’effetto gioiellino tarato solo per alti carati, né l’indole del killer, psicotico spietato che non ti lascia neanche il tempo di respirare. Ostriche fritte con la loro quenelle di caviale e acidule erbette, del moscio, del resistente e del croccante sotto i denti, prima di fare un boccone e mezzo dello Spring roll alla speziatissima tartare di melanzane. “Ce senti Cerqua?” si diceva il secolo scorso nei più distinti circoli letterari viterbesi. E come loro, accusiamo il colpo di reni – aka Cercua, la fallica quercia – la botta giusta, la trovata e l’effetto che vanno al fondo del pensiero tale e quale un dato di fatto. Quando la cucina frenchy – per estrazione, per originale vocazione – si rigenera sulle sue autobiografiche asiatiche sponde, tirando fuori dal magico cilindro delle false Uova di quaglia affumicate, come del tofu scolpito next level – questo è Vicky Cheng ai massimi livelli.

Di che destare le orecchie, per illico sintonizzare le aspettative sul successivo magistrale colpo di scena: Dandan noodles, piccanti spaghetti freddi secondo le regole dell’arte dalle parti di Chengdu, capitale della regione di Sichuan, con un campionissimo gamberone crudo – i succhi della  crostacea testa ovviamente pressati sotto gli occhi dei clienti, per arrotondare  e complessificare, con  la collaborazione artistica dell’inevitabile   composizione florale, l’olio di prezzemolo rivalizzante a sua volta in freschezza con  quello  spicy spicy a base di  peperoncino rosso. Un boccone, poi un altro o ahinoi solo quel poco che resta del primo, sigillati in un abbraccio lungo e senza fine come un primigenio addio. Miglior staccato non si poteva trovare per suggellare, tra gli applausi di tutta la sala, l’entrata in scena di Vicky (“sorry for being late”), appena di ritorno al ristorante dalla sua giornata di street food in goliardica compagnia: “Ti saluta May Chow, ma dice che tanto vi vedete la settimana prossima appena lei rientra da Bangkok, no?” È bello acchittato nella sua immacolata/attillata giacca da cuoco. Ben differente da quando infila i due pezzi del completino o quando – d’accordo fuori pioveva – si concede il lusso di posare per strada, in stile Savile Row, con un ombrello. Tanto per riaffermare en passant la sua solidarietà al movimento di contestazione giovanile che aveva fatto degli ombrelli il proprio simbolo.

“Lasciai Hong Kong da piccino all’epoca della retrocessione, ce la facevamo tutti sotto paventando l’arrivo del Grande Fratello cinese. Seguii quindi mia mamma negli States, dapprima a Brooklyn dove dei parenti gestivano un negozietto d’alimentari, poi a San Francisco dove, per motivi di lavoro, lei fu trasferita. E fu lì, che incominciai a cucinare. Stanco dei surgelati che mi lasciava in frigo quando partiva in trasferta. Stabilitici poi a Toronto qualche anno più tardi, guardavo Jamie Oliver alla televisione, cucinavo spesso per la mamma che rientrava tardi. Tutti in famiglia volevano che diventassi dottore, fare il cuoco sarebbe stato tradire l’onore famigliare, per i miei i cuochi erano gente sporca, inferiore, senza cultura né onore, che tradivano le mogli, giocavano a carte, bevevano come spugne, ma m’impuntai. Mia madre lavorava nell’editoria, la sua società stampava di tutto, comprese delle carte da visita di alto livello. Quando un cuoco cinese localmente celebre all’epoca bussò per rifare le sue, mia madre, la sfacciata, gli chiese se per caso aveva bisogno di un aiuto in cucina. Mi ritrovai così nel sottosuolo d’un ristorante italiano di lusso a far sushi concepiti per andar d’accordo con la carta dei cocktail. Fu un bell’apprendistato” racconta Vicky anticipando immediatamente quel che sarebbe stato di lì a poco l’incontro cerniera che una volta per tutte diede una sterzata definitiva alla sua vita. Quando alla fine dell’anno scolastico nel suo college canadese, grazie in parte ai buoni risultati e alle referenze entusiaste dei datori di lavoro, si ritagliò un angolino tutto suo nel miglior ristorante dell’epoca: l’Auberge du Pommier. Un fine dining come non se ne fanno più, in puro stile french, un mondo a parte. “Vi rimasi sei anni e mezzo. Oltre alle tecniche in uso, Jean-Pierre lo chef m’iniziò al pensiero che sottende la gestione del ristorante. In tempi non sospetti, fu il primo a parlarmi di sostenibilità, di tracciabilità. Concetti che ritrovai più tardi da Canoe, il solo ristorante in tutto il Canada che, nella sua fascia bella alta, non servisse ne tartufi né caviale».

Più che avanguardia applicata, un vero manuale d’anticipazione. Potremmo sbizzarrirci ricorrendo all’ucronia, immaginando il futuro che è oggi il nostro presente se il passato fosse stato altrimenti. Se Vicky Cheng, senza porre al suo entourage la fatidica domanda – “Ora cosa devo fare?” ergo la risposta plateale: “Vai dove hai più da imparare” – non fosse partito a NY da Daniel Boulud, d’ora in poi il suo ufficiale mentore. Alla scuola della vita, alla dura: “C’erano cinquanta persone in cucina, facevamo 300 coperti al giorno, prendevamo le comande dei menu degustazione sino alle undici e passa di sera. Le giornate mosce, sfamavamo non meno di 200 persone”. Da VEA, Vicky ne fa almeno sette volte di meno.

Al bancone, meglio che in platea, lo spettacolo continua. I sapori incalzano, adottano dei tempi stretti, dal proscenio non si avvertono gli stridori dei macchinari né lo sforzo collettivo della troupe celata dietro il sipario. Hai voglia tu a calzare i patrizi binocolini, cherchez la femme ma non c’è verso di trovar lo screzio, la facile fanfaronata per strappar l’applauso. La drammaturgia è ben più complessa, tocca corde altrimenti più profonde. “Sono rientrato a Hong Kong all’età di 24 anni. Non volevo fare della cucina francese e neanche asiatizzarla solo per renderla più coerente col contesto. Se mi accontentavo di ciò sarei potuto restare dall’altra parte dell’Atlantico, magari riprendere la scia dei lavori di Susur Lee che, sino a una decina d’anni fa, era il massimo rappresentante in Canada della vogue franco-cinese. No, rientrare a Hong Kong implicava tutt’altro. Rimettersi a fondo nella cultura cinese, riscoprire giorno dopo giorno la specificità della sua cucina. Senza possibilità alcuna d’inganno”. Condizione numero uno: la sincerità. Poi la modestia. E la voglia di rimboccarsi le maniche, tornando sui banchi di scuola. I libri di testo furono i manuali del convivere sociale, del riapprendere ad aprir gli occhi, a ritrovar la confidenza del gesto e in ogni sapore locale, in ogni tecnica incontrata per strada o cammin facendo. Persino a casa della suocera:

“Mi faceva tornar in mente tanti ricordi d’infanzia, il pesce cotto nella salsa al pomodoro, le rape in conserva, il gusto per l’affumicato. Lei è di origine thai, viene da Chiang Mai. Mi ha concesso di capire che, se volevo cucinare davvero cinese, dovevo confrontarmi con dei prodotti emblematici della nostra tradizione”.

Se chiedete a Vicky quali sono i piatti che non potrà mai tirar via dalla carta, vedrete che lui risponderà evocando tre prodotti faro – gli abalone, il fish maw, il cocomero marino – con i quali ha condiviso notti insonni alla ricerca della porta d’entrata. Tre prodotti portanti seco tutta la filosofia del pesce essiccato. Come coniugarla con le basi francesi della sua cucina? Congegnando, ad esempio, un Pithivier di abalone. Più semplice a dire che a fare (o a mangiare). Come per il fish maw bisognava dapprima studiare, comprenderne anche le proprietà medicinali. Perché esistono degli abalone che costano tremila dollari il kilo, quali sono i migliori, quelli che vengono dalla Cina, dal Giappone o dal continente africano? Domanda da cento punti: come ottenere da un abalone essiccato quella consistenza un po’ gommosa, ma mai flaccida, per rimpiazzare la tradizionale carne in un Pithivier d’impostazione marina? “Esistono tre tipologie d’abalone essiccati, ho scelto il più soft. Un abalone quando lo tagli, deve quasi incollare al coltello, scoprendone un aspetto quasi caramelloso, gommoso tale un mochi giapponese”. Dalla capitale individuazione del prodotto ideale, il passo fu più corto se non della gamba o della zampa e quasi quasi dello zampone: “Una salsa di abalone alla cinese, fatta anche con pollo, maiale e tanti piedi di porco fu la cosa che più mi avvicinò all’essenza dei jus di cottura tradizionalmente utilizzati in Francia con i Pithiviers”.

Il suo di Pithivier, Vicky se lo porterà appresso pure nella tomba. E confidiamo nell’azzeccato pronostico quando affermiamo il capolavoresco statuto del suo Cocomero di mare, disidratato ergo poi reidratato e infine grigliato al BBQ, ittica spugnola XXL farcita di carne di granchio. Che va come un guanto con la salsa dello stesso granchio, cremoso ai massimi livelli, di che sostenere il confronto ravvicinato con un Vin Giallo cinese, affinato per più di venti anni in bottiglia, ma servito ghiacciato e non caldo come si suole generalmente da quelle parti. Così come soccombiamo al Ma Yau, aka la locale Coda di rospo ben fermentata ai fagioli neri, così unici da meritare a loro volta un trattamento speciale: torrefatti e poi macinati servono per “condimentare”, con delle scorze di mandarini invecchiate più di trenta anni, la dirimpettaia salsa della patata farcita con i collagenosi resti del Ma Yau. E visto che la gola comunica con la testa (sin dai tempi pre-Slow Food circa 1982-1989 della rivista dell’indimenticabile Gianni Sassi) noi sbrocchiamo di brutto per il fish maw, alias delle vesciche di pescioni belli e grossi, metti lo storione, ovviamente essiccate e poi reidratate, tradizionalmente osannate per le loro virtù energetiche e ricostituenti. Se, schizzinosi, non amate il collagene, peggio per voi: la doppia razione sarà per noi! Servite con una salsa di caviale e di quinoa appena appena sbocciata, e una julienne di lemon kaffir per un intervento subliminale di agrumica leggerezza, compongono un piatto da bis e da tris, di pura metonimia – di panza e di testa, di golosa sinofila cerebralità.

Della patria (NB: Hong Kong), Vicky è il Profeta. Ma con uno spirito d’insottomessa, democratica apertura, di dialogo tra le culture. Da pari a pari. E che importa se rischia di riscrivere la storia.

Non per far del revisionismo da quattro soldi, ma per dare una seconda chance pure a Hollywood.

Dovessimo girare un seguito a Along came Polly, la commedia romantica che John Hamburg diresse nel 2004, al posto di Jennifer Aniston e di Ben Stiller, metteremmo volentieri Vicky Cheng nei panni di lui e la sua Polly nei panni di lei. “È mia moglie, Polly, che assaggia con me e da sempre, non solo i piatti del menu, ma anche le loro, tante versioni, dalle fasi di prova al format finale”. Meglio delle Confessioni di Sant’Agostino, meglio delle Memorie d’Adriano (rassicuratevi, come l’imperatore del libro di Marguerite Yourcenar, Vicky non è vegano), che sarebbe la cucina di Cheng senza la sua Polly? Non la commiseriamo, anzi la invidiamo! Chissà quante preliminari versioni si è pappata lei (al ristorante, a mezzodì e per le cenette di mezzanotte) degli incredibili E-FU NOODLES. Non badate alla E- col trattino, non FU un piatto di spaghetti elettronici. Bensì un’elettrizzante versione di pasta cantonese di grano duro, giallastra (si direbbero dei tagliolini) e spugnosa (si direbbero quasi dei vegetali), battuta con acqua frizzante. D’accordo, è servita con dell’astice e del cheddar fuso come si suole, ma la particolarità sta nel procedimento. La pasta è dapprima fritta e poi rapidamente sbollentata. Una cottura in due tempi permettente di creare nell’impasto delle microbollicine d’aria, e la straniante leggerezza che le va a pennello, conservando al contempo una aldentesca, e pure tanto, consistenza. Dei Tagliolini meglio dei Tajarin? Er Mejor d’Alba fosse che fosse a Hong Kong? E se, alla faccia di Marco Polo, la pasta fosse cinese e l’avessero invero inventata loro? Agli storici, ai filologi delle revisionistiche maccaronate l’ardua sentenza. Una cosa è sicura: appena passa sto Coronavirus, che ne ha ammazzati più lui delle repressioni di Xi Jinping, e ce ne vuole, precipitatevi a Hong Kong. Sarà una tantum più facile offrirsi un ambito posticino da Vicky Cheng da VEA. Per dirla altrimenti: THE VEA WAY – la cucina cinese che verrà, passa già per di là.

Posto
VEA

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