“Non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d’essere scelti. C’è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d’attrarlo, con una sostenutezza o granulosità un po’ altezzosa, o al contrario sciogliendosi in un arrendevole abbandono.
Un’ombra di complicità viziosa aleggia intorno: la raffinatezza gustativa e soprattutto olfattiva conosce i suoi momenti di rilassatezza, d’incanagliamento, in cui i formaggi sui loro vassoi sembrano offrirsi come sui divani d’un bordello.


La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbe memorizzare tutti i nomi, tentare una classificazione a seconda delle forme – a saponetta, a cilindro, a cupola, a palla –, a seconda della consistenza – secco, burroso, cremoso, venoso, compatto –, a seconda dei materiali estranei coinvolti nella crosta o nella pasta – uva passa, pepe, noci, sesamo, erbe, muffe –, ma questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza, che sta nell’esperienza dei sapori, fatta di memoria e d’immaginazione insieme, e in base a essa soltanto potrebbe stabilire una scala di gusti e preferenze e curiosità ed esclusioni. Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo.
Ci sono diversi armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli.
Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma”.
“Il Museo dei Formaggi“ tratto da Palomar – Italo Calvino
Entrare nel negozio di Degust a Varna (piccolo borgo a 700 metri di altitudine in Alto Adige) è come catapultarsi nei panni del Signor Palomar tra le righe del racconto di Calvino. In principio è il profumo. Che inebria l’olfatto stimolando l’appetito con un bouquet dalle interminabili sfumature. Pungente, arboreo, pannoso, muffato, speziato, tannico, fumé. E c’è anche chi osa chiamarla beceramente puzza. Segue la vista, che si incanta rapita tra pareti di latte marmoree e granitiche. Pannelli giallo ambra, insenature erborinate, manti stagionati e protuberanze perlacee. Il tatto svela il mistero, affondando le dita vogliose tra paste compatte, cremosità seducenti, croste ruvide e polverose. O incavi mollicci lacrimanti bontà. Al palato è cedevole, gessoso, vellutato, candido. Pastoso o succulento, mutevole, erbaceo, grasso, piccante. Poi ancora altro. Molto altro, quasi senza fine. Degustare un formaggio – di qualsiasi foggia o entità – è uno straordinario atto d’amore che coinvolge tutti i sensi.
In principio è il profumo.
Lo sa bene Hansi Baumgartner, cuore, mente e braccio del progetto Degust. Un uomo che ama – o meglio venera – a tal punto questo prodotto caseario da aver scelto di dedicargli una vita. Non producendolo, bensì praticando il gesto più rispettoso, devoto e affine alla sua essenza materica. Hansi infatti è un affinatore per vocazione – anche un po’ predestinato, ci piace pensare – che ha preferito caricarsi l’onere di tutelare ed esaltare un alimento a lui così caro, riscoprendo e perfezionando una delle tecniche più antiche di conservazione del formaggio stesso. L’affinamento appunto. Se molte leggende e fonti storiche suggeriscono che il formaggio sia nato da un errore durante il trasporto del latte (che lasciato al caldo e al moto di enzimi innescò una coagulazione originando un rudimento naturale di cagliata), è altrettanto noto che le prime forme di affinatura derivino dalla necessità di conservarlo e proteggerlo dall’impatto del tempo e dagli agenti esterni. Conciandolo con erbe, cospargendolo di cenere o bardandolo con foglie di noci, viti e altri ingredienti naturali. Da un ipotetico problema, questa pratica è divenuta un valore aggiunto. Tecnica che Hansi ha studiato, interiorizzato e portato a un livello superiore. Per comprendere meglio il suo approccio unico al lavoro – quello dell’affineur – è necessario però scavare nella sua storia. Nel suo profilo esperienziale, che si presenta oggi ai nostri occhi nelle fattezze di un ometto dal carattere zen, appassionato e riflessivo.


Nascita dell‘oltre-affineur: il cuoco affinatore
Figlio di commercianti di legna. Cresciuto al fianco di ben sette fratelli, giocando tra boschi, prati e montagne del pulsante terroir altoatesino. L’incipit familiare già delucida la poetica ancestrale legata ai battiti della sua terra. “I miei erano all’antica e non ti regalavano nulla più di un affetto illimitato” ricorda Baumgartner. “Il resto dovevi guadagnartelo da te rimboccandoti le maniche. Così ho iniziato a procacciarmi i primi lavoretti nei ristoranti quando ero solo un adolescente. Anche i miei fratelli maggiori, Karl e Siegfried, avevano cominciato a darsi da fare in sala o come semplici lavapiatti in alcuni locali di zona. La passione è giunta spontanea dopo aver lavorato in una baita di un vecchio pensionato dell’Enel, che era un grande cultore della gastronomia. Lui ci ha allevati e introdotti alla bellezza di questo mondo. Dopo qualche anno, trovato uno stabile in affitto a Rio di Pusteria, abbiamo deciso di lanciarci tutti e tre nella pazza apertura di un ristorante”. Inaugurato negli anni ’80, il ristorante Pichler dei fratelli Baumgartner, rappresenta un pezzo di storia importante nell’alta ristorazione di questi lidi. Non solo perché agguantò in pochi anni la stella Michelin, ma perché fece da incubatrice involontaria per due realtà di prestigio che ne derivarono in futuro: Degust e il ristorante stellato Schöneck di Falzes. Ne parleremo meglio più avanti, per ora questo passaggio è cruciale per capire come la mente di un cuoco (quale era al tempo Hansi) abbia maturato attrazione e affinità di affinamento per l’universo dei formaggi.
“La prima volta che ebbi la scintilla emotiva per il formaggio fu davanti al carrello del ristorante Andrea di Merano” racconta il nostro affineur. “Alla vista di quella montagna casearia a più piani, con le forme disposte in ordine ammaliante, pensai quanto fosse bello dedicare un momento del pasto alla celebrazione di questo prodotto. Così ho cominciato a lavorarci nel mio ristorante, ma non limitandomi a ricercare tipologie per il carrello. Coltivavo da sempre la passione per la raccolta di erbe spontanee, per fare conserve e stagionare ingredienti in cantina. Di conseguenza è sorta spontanea la possibilità di sperimentare qualche lavorazione sui formaggi che selezionavo dai produttori locali. Per poi inserirli nel carrello o proporli nelle portate del mio menu”. Questa la svolta, che già nel ’94 (in parallelo alla gestione del ristorante) conduce alla nascita del progetto Degust. Hansi si scopre rapito e affascinato nel profondo dalla tecnica dell’affinamento, riuscendo a riportare il suo prezioso bagaglio di competenze gastronomiche nella genesi di ogni passaggio. Scegliendo con cura le vinacce, i cru di cacao, le alghe, i lieviti, i cereali, le erbe e i frutti che meglio potevano valorizzare una produzione casearia di nicchia e la sua maturazione. Un vero quid di sensibilità e palato che – sommato ad alcuni dissapori con gli affittuari del ristorante – lo portano nel 2002 a chiudere Pichler per dedicarsi interamente all’attività di affinatore.


Forme & cultura, all’ombra di un bunker militare
Il tempo – variabile fondamentale nella maturazione corretta del formaggio – scorre rapido come il vento che taglia le vette dolomitiche. Così negli anni Degust è cresciuta, ritagliandosi sempre più spazi idonei a rinforzarne l’ossatura. Assumendo il ruolo di vera istituzione nel mondo dell’affinamento italiano e non solo. Hansi, supportato da sua moglie Edith, è partito dall’origine del prodotto per trasmettere coerenza in ogni fascia del suo operato. “All’epoca, mi sono sempre chiesto il perché in una terra dove si produce tanto latte come l’Alto Adige ci fosse una così scarsa cultura del formaggio” spiega. “Così, il mio primo passo è stato quello di andare a cercare e stimolare i piccoli produttori di zona. Che lavorassero seriamente, producendo formaggi a latte crudo proveniente da pascoli controllati. Una ricerca monumentale e costante, che continua in parte anche oggi. Ma che agli inizi mi prendeva a tempo pieno, molto più del lavoro in laboratorio. Era necessario mettere le mani su materie prime di livello, che descrivessero la nostra terra. Perché il formaggio racconta prima di tutto un territorio. E se annusi i paesaggi circostanti percepisci la flora incontaminata che dovrebbero mangiare gli animali. Di conseguenza il latte deve essere straordinario. Non è stato facile agli inizi. Ma ancora mi ricordo vivida l’emozione delle prime forme di alpeggio. Che emanavano al taglio profumi corroboranti del pascolo a 2000 metri. Il primissimo formaggio di capra altoatesino a latte crudo sul quale ho potuto cimentarmi. Ora è tutto molto più organizzato e rodato, ma ancora mi levo i miei sfizi creativi. Andando a raccogliere erbe aromatiche e spontanee ad esempio. O sperimentando nuove tecniche su forme insolite. Perché con i formaggi non si finisce mai di imparare”.
Non scherza Hansi. Ascoltarlo parlare di spezie, piante ed erbe officinali di montagna appaga la mente più di un’enciclopedia. Merito della collaborazione che ha consolidato negli anni con alcuni centri biologici di botanica locale, nonché il rapporto con una scuola agraria all’avanguardia come la Salern. Qui, non solo gli studenti hanno la possibilità di produrre formaggi basic (avvalendosi anche di qualche dritta di Baumgartner), ma sono immersi nel verde, tra pascoli di vacche Pezzata Rossa, Bruna e Grigio Alpina allo stato semi-brado. Senza contare una meravigliosa serra a ciclo chiuso, da cui il nostro affinatore attinge alcune delle erbette per le sue elaborazioni casearie. Per arrivare a questo però, Hansi ha stretto un rapporto di scambio sinergico con i produttori di zona, fungendo in qualche modo da consulente e divulgatore anche da un punto di vista commerciale. Donando la possibilità a tante piccole realtà di ritagliarsi un mercato valido e di ampliare le loro produzioni/dimensioni. Come è successo a lui d’altronde. Che in poco più di una decade si è trovato a mettere in piedi a Varna: un negozio per la vendita, un laboratorio sperimentale, una fantasmagorica sala degustazione e non ultima un’insolita cella di stagionatura a più livelli ricavata da un ex bunker della seconda guerra mondiale. Un antro pazzesco e austero da visitare, che espone autentiche reliquie lattiche in evoluzione. Inoltre è bello, da un punto di vista metaforico e romantico, pensare che dove prima venivano custodite delle armi, ora sorgono vere e proprie fortezze di formaggi corazzati a stagionare.
“Quasi tutto nella mia vita, intima e professionale, nasce da una necessità” approfondisce Hansi.
“Le quantità di lavoro e di prodotto aumentavano vertiginosamente e dovevo trovare degli spazi nuovi e più grandi dove conservare i formaggi. In particolare quelli d’alpeggio. Ho sempre saputo che qui in Val Pusteria si trovano diverse strutture abbandonate, risalenti alla guerra. Che ora sono rimaste in mano a qualche contadino che le ha ereditate insieme ai suoi appezzamenti di terra. Così nel 2005 ho scovato un bunker immerso dei boschi poco sopra Varna e mi è sembrato d’istinto un luogo funzionale per il mio obiettivo. Ho fatto un sopralluogo con degli specialisti che hanno attuato controlli sulle condizioni interne. Misurato il grado di umidità e temperatura ho scoperto che erano quelle idonee e ottimali. Oggi il bunker si è trasformato in una gigantesca cella di stagionatura, dove ogni stanza, da quella più asciutta a quella più umida, viene riempita o svuotata di forme in base al tipo di formaggio. Che a sua volta muta e ruota con le stagioni e con il grado di maturazione che acquisisce di giorno in giorno. Un’operazione fondamentale che svolgo insieme al mio assistente Joseph con estrema rigidità. Perché la stagionatura deve essere seguita con particolare cura. In quanto i formaggi artigianali a latte crudo possiedono un ricca flora batterica, necessaria allo sviluppo di profumi e aromi che, però, richiede continua attenzione per impedire fermentazioni indesiderate”.

Anatomie lattiche – Affinamento sperimentale step by step
Se il formaggio è un’opera d’artigianato già finita, per l’affinatore diviene una tela bianco latte, da celebrare con pennellate di esperienza e sfumature cromatiche che ne arricchiscano profumi, complessità e sentori palatali. Senza mai snaturarne l’anima agricola. In questo, Hansi è senza dubbio un’artista. Nel suo laboratorio – con il fido assistente Pepi – assaggia, registra, analizza, sperimenta e corregge con scrupolosità scientifica ogni prodotto. Per dare nuova forma e vita a forme già plasmate. Secondo insindacabili dettami, quali: rispetto, esaltazione, tutela. “Quando illustro il mio lavoro, tengo a precisare quanto un formaggio affinato non sia migliore di uno che non lo è” spiega mentre tagliuzza i canditi per il suo fantasmagorico Citrusblu. “Si tratta semplicemente di due prodotti differenti. Inoltre, la qualità del risultato finale risiede esclusivamente nella storia del formaggio stesso. La tipologia di allevamento, i metodi di trasformazione, la stagionatura e infine il mio tocco personale. L’affinatore ha dei compiti fondamentali, quali la selezione e la conoscenza approfondita della materia prima. La maturazione che deve rispettare al massimo le caratteristiche del prodotto. E la scelta di tecniche e ingredienti mirati, che durante il processo di affinamento entrino in sintonia, in simbiosi con il formaggio, valorizzando, scambiando e trasmettendo caratteristiche armoniche compatibili con la lavorazione base e con la varietà di latte utilizzato. È importantissima la supervisione sul campo dei fornitori e degli alpeggi; verificarne la produzione, la provenienza e la razza degli animali. Io, quando possibile, preferisco rivolgermi ad aziende che producano latte e lo trasformino direttamente. Acquisto sia prodotti molto freschi che sottoposti a media o lunga stagionatura, prestando grande attenzione alla stagionalità degli stessi. Non solo dall’Italia, ma anche importando qualcosa di nicchia da Francia, Svizzera, Germania e Austria. Tendo a prediligere formaggi a pasta dura, erborinati oppure a crosta fiorita o lavata. Quasi solo a latte crudo e provenienti da realtà strettamente artigianali. Alcuni formaggi richiedono tecniche poco invasive che ne accentuino piccoli dettagli olfattivi e gustativi. Con altri, invece, posso osare molto dal punto di vista organolettico e aromatico per esaltare in libertà le note intrinseche della materia. Sono della filosofia che, come in cucina, esistano due approcci da riportare sugli ingredienti. Quello rivolto ai formaggi puri, in cui deve essere gestita solo la stagionatura per regalare integrità all’assaggio senza contaminazione. E quello gastronomico che origina vere e proprie ricette con interventi elaborati. Un esempio sono tutti i formaggi freschi che trasformo con inserti a strati, collocati nel cuore della pasta. Un’idea che ho preso in prestito dal mio periodo al ristorante, pensando a quando per ore e ore confezionavo terrine di vitello”.
Da questa ispirazione, fioriscono creazioni insolite e fenomenali.


Come il Chocobert: camembert inframezzato da un disco di cioccolato 75% che evoca l’infantile e rincuorante sapore di stracciatella, nobilitato con un gioco incredibile di consistenze, strutture, acidità e spessori. O ancora il muffato a pasta molle con inserto di zigolo dolce: chiamato dai contadini mandorla di terra, rinfresca le note pannose con un musicale e vorticoso crunch vegetale al palato. Ma il lavoro di Hansi è pressoché illimitato, muovendosi in equilibrio perpetuo tra istinto razionale, sensibilità e stipulazione di nuovi abbinamenti. Avanzati per richiamo, per rottura o per criticità. Come nel gestire muffe troppo evolute o maturazioni spinte al limite.
“Bisogna padroneggiare, in veste globale, ogni piano dell’universo gastronomico. Tante tecniche derivano da mondi diversi e da tradizioni lontane. È fondamentale conoscere le erbe e le spezie, il comparto del vino, dei distillati, dei cereali, della frutta e della birra. Un quadrante tecnico-sensoriale che va aggiornato costantemente”.
Caso evidente, in combo appurata tra formaggio e vino, è quello del formaggio Luce: nato per suggellare il rapporto con l’omonimo vino della Cantina Frescobaldi – Tenuta Luce di Vite. In questo caso Hansi è andato a recuperare un formaggio molto sapido dal Nord della Germania. Che con il suo gusto minerale e umami, con note penetranti di arachidi tostate, potesse affiancare la controparte enologica. Un prodotto che si è rivelato anche una sfida personale, perché oltre alla concia di carbone vegetale, olio di vinaccioli e alghe, è riuscito ad applicare delle foglie di oro edibili che maturano insieme al formaggio stesso. Senza separarsi al taglio. Una procedura mai portata a buon fine né in alta cucina né in pasticceria. Dal vino alla birra, in volata, non manca l’esempio della caciotta di alpeggio – Humulus – massaggiata amorevolmente nella birra e cosparsa di fiocchi di luppolo. Il sopra citato Citrusblu emerge invece come un concentrato di opulenza estetica, che riserva un gusto sorprendentemente fine, ondeggiante e leggiadro. Una ”torta” di erborinato dolce, panato ai lati con fave di cacao (per sottolineare le note aromatiche di cioccolato che naturalmente sviluppa durante maturazione) e ricoperto da sontuosi e turgidi canditi di cedro, limone e arancio (presi da Corrado Assenza del Caffè Sicilia di Noto), foglie di cannella, pistacchi di Bronte e chiodi di garofano.
Ma non mancano gli omaggi ai gesti tradizionali, trasposti con eleganza in chiave moderna.


Vedi il Noagnlailich (letteralmente fazzoletto): formaggio di capra a latte crudo e prodotto con caglio vegetale, avvolto nel fieno di alta montagna e racchiuso in un fazzoletto detto “del contadino”. Il nome deriva dal metodo usato dai contadini per trasportare il fieno in alpeggio durante la transumanza, proteggendo al contempo i formaggi durante il trasporto. Invece dell’antico fazzoletto, Degust predilige maturare le forme con il fieno in possenti barrique per un mese. O ancora due sensazionali varianti del localissimo Graukäse: detto formaggio grigio, a coagulazione lattica senza l’aggiunta di caglio. Realizzato con il latte vaccino di recupero, derivante dalla lavorazione del burro, è paradossalmente adatto a chi tiene alla linea. Perché presenta una ridicola percentuale di parte grassa, che lo definisce come uno dei formaggi più magri di sempre. Noi per non rischiare di sembrare a dieta, lo proviamo su cialda di pane croccante ai semi di finocchio e uno strato abbondante di burro da panna fresca. Una pungente versione affinata con aglio e pepe. E un’altra fumé, che deriva da un suo studio di ben 3 anni ingaggiato da Hansi sulle tecniche di affumicatura naturale. Un clamoroso timbro di fumo gentile, pieno e sofisticato (da legno di faggio) va a impreziosire l’acidità della crosta, alterandone il pH e conferendo tonalità succulente e ataviche. Per un formaggio cardine della cultura altoatesina, tradotto in veste innovativa e antica al tempo stesso.
Schöneck & il valore del formaggio a tavola
Vi ricordate di Karl e Siegfried? I due fratelli che inaugurarono il ristorante Pichler agli esordi della carriera di Hansi. Mentre quest’ultimo scelse il sentiero dell’affinatore, loro (ormai lanciatissimi e accreditati) rilevarono un suggestivo spazio di un’antica stube in quel di Molini vicino a Issengo (Falzes). Spianando la strada alla nascita del Ristorante Schöneck: gloriosa insegna che dal 1986 incarna un baluardo dell’alta ristorazione altoatesina. Con la formazione vincente di Karl in cucina, sua moglie Mary e il fratello Siegi in sala, questo indirizzo custodisce con costanza la stella Michelin da oltre 20 anni di onorata carriera. Un locale che trasuda storia vissuta, attraverso un ambiente caloroso e sospeso nel tempo. Che tra il tepore del legno e l’ampio bancone dinnanzi al camino, incita al convivio familiare. E per onorare proprio il valore della famiglia, gli facciamo visita in compagnia di Hansi. Che seduto con noi a tavola ci descrive il suo punto di vista sul formaggio nel settore della ristorazione. Mentre suo fratello Karl – quasi in un botta e risposta culinario – sfodera piatti dove i prodotti caseari sono più che semplici ingredienti. Il suo – più che in altri casi velleitari – è uno stile di cucina fondato su territorio e prodotto. Che non disdegna tecniche spinte e assemblaggi architettonici, ma riporta sempre l’attenzione al fulcro primigenio dei sapori. Lo dimostra con uno scioglievole e avvolgente Plin alla farina di carrube ripieno di fonduta di formaggio d’alpeggio (con fattura della pasta da manuale). In cui il terzetto di contrasti, completato dalla salsa di fave, rilancia con esplosività le nuances vegetali, terrose e tostate della farcia lattica.
“Penso che la ristorazione dovrebbe prestare maggior attenzione ai formaggi presentandoli in tutto il loro valore” evidenzia Hansi, leccandosi i baffi che non ha, dopo questo primo assaggio.


“Integrato a dovere in cucina, nelle giuste quantità, può donare maggiore leggerezza, volume e digeribilità ai piatti. Non solo andando a rimpiazzare ulteriori grassi come olio e burro, ma apportando un bilanciamento nutrizionale più adeguato insieme a legumi e verdure. Per provare a ridurre sempre più, anche nel caso delle portate principali, l’uso eccessivo della carne o del pesce nei menu dei grandi chef. Basta scegliere con attenzione la tipologia che si presta al risultato da ottenere. Oltre ad arricchire un piatto di riso o di pasta a livello organolettico e aromatico, il formaggio giusto può rivelarsi un’alternativa sana e funzionale per corredare antipasti o secondi piatti”. E Karl non perde l’assist, proponendoci la sua conturbante variazione di Frattaglie di capretto locale (fegato, cuore, rognone, animelle) con scaglie di Graukäse, purea di sedano rapa, asparagi verdi e fondo acidulato agli agrumi. Di sicuro qui non è arginato il lato carnivoro come suggerito dal fratello. Ma il playground del quinto quarto recita un capitolo a sé. E noi godiamo senza indugi delle callosità fondenti e nerborute delle interiora cotte a mestiere. Rinvigorite dall’acuto vegetale e dal marchio inconfondibile del formaggio grigio.
“Adoro i formaggi apprezzati in purezza, ma a mio parere non si può ridurre tanto lavoro artigiano solo all’esperienza del carrello” reclama Hansi, tra serietà e sfottò alcolico.
“Bisogna investire in maggiore cultura rispetto alle attività casearie. Indirizzando meglio i consumatori a conoscere la differenza tra i prodotti artigianali e quelli industriali. Una responsabilità che passa anche attraverso il ruolo dei cuochi e di come presentano il formaggio nei loro ristoranti”.
Approda al tavolo un profumatissimo e tonificante dessert a base di Ravioli di mela e ricotta fresca (in cui il frutto funge da sfoglia), con un gelato al fiordilatte e pepe rosa di colossale bontà. Un dolcissimo stratagemma per placare gli animi, prima della risposta finale della cucina al dibattito su formaggi e ristorazione impostato da Hansi. Il prode Siegfried, armato di polso e levità, irrompe con un maestoso carrello di caci. Che – guarda caso – espone in bella vista tante delle creazioni griffate Degust. Schioccano risate a pioggia e ululati di goduria, mentre la notte si spegne tra bicchieri di porto abbinati a corpulenti erborinati da latte di bufala. Ma la storia non finisce qui, perché rientrando a Varna, ci accolgono due delle tre splendide figlie del nostro amato affineur: Antonia e Marlies. Entrambe giovanissime giramondo con carisma da vendere, che da pochi scambi di battute già ben promettono un futuro ricco di sorprese e novità. Chi dal lato creativo (la maggiore ha studiato arte all’accademia) e chi da quello gastronomico e accoglienza (la più piccola si prodiga con successo nella scuola alberghiera).
Perché se, citando Hansi, con il formaggio non si smette mai di imparare. È più che mai necessario allevare nuove leve che tramandino le conoscenze al futuro. Acquisendone sempre nuove, da questo inestimabile atelier caseario dall’animo familiare