La fine del 2018 (e l’esordio del 2019) ha coinciso con avvenimenti importanti per il movimento underground di Roma: sono usciti in sequenza i due attesi album di Colle der Fomento e Cor Veleno. Poi, Mazzo ha chiuso. O meglio, chiude momentaneamente l’entità fisica del locale. In quel micro-spazio delle meraviglie nel quartiere periferico di Centocelle. Artefice di un nuovo sound culinario nella scena della ristorazione capitolina. Probabilmente Francesca – una delle due anime del progetto – mi mazzolerebbe verbalmente per questo parallelismo hip-hop. Perché, citandola “È vero che proveniamo anche dalla sottocultura rap, ma siamo cuochi prima di tutto”. Io però non riesco a troncare un link romantico con questa coincidenza di eventi. E allora parto da qui: da una fine che non è una fine, ma che in realtà si riaggancia a un viaggio di andata & ritorno. Un nuovo inizio, a incastro perfetto con le rime del rapper Danno, riportate qui sopra.
Né osteria, né bistrot, né ristorante pettinato. Uno spazio nostro per un’identità intima, che a volte può ancora disorientare
Step back. Marco Baccanelli e Francesca Barreca – in arte The Fooders – sono stati autentici propulsori di una nuova categoria di ristorazione. Non solo a Roma. Un fenomeno, che molti hanno osservato e contemplato da distanze diverse. Tentando di registrarlo o etichettarlo a modo proprio. Ma che in fondo, un’etichetta vera non l’ha mai avuta. Giusto, giustissimo mettere in riga le barre dunque. Ribadendo che questi due ragazzacci hanno investito, in moto identitario e rivoluzionario, oltre 15 anni tra pentole, scottature e fornelli in questo mondo. Facendosi il “mazzo”, appunto. Tra le esperienze racimolate – cedendo a un pizzico di logica mainstream – troviamo: la gavetta formativa al Gambero Rosso, il trascorso presso l’istituzione della Capanna di Eraclio a Codigoro, ancora Igles Corelli e un passaggio agli esordi del Ristorante Giuda Ballerino. Ma soprattutto, una moltitudine di progetti pionieristici connessi in forma collaterale al mondo del food. Capaci di mixare con guizzo virtuoso: arte, musica, grafica ed eventi contaminati. In origine sotto il nickname di The Gastronauts Italian Project, poi The Mighty Fooders. Precursori, tra tante iniziative, delle prime forme di Cene Carbonare AKA Underground Dinners. Ovvero performance culinarie a tema – in location insolite e nascoste – organizzate padroneggiando temi culturali no limits. Questa forse è un’altra storia. Anzi no, è un pezzo intoccabile di storia che descrive perfettamente l’approccio che ha condotto i Fooders ad aprire (e ora chiudere) Mazzo circa 6 anni fa. In quel guazzabuglio gastro-urbano che all’epoca poteva essere Centocelle. Teniamo a sottolineare come le personalità di Marco e Francesca siano più che mai eclettiche. Scandite da caratteri tanto distanti quanto complementari tra loro. Di conseguenza anche la loro vita esprime tratti distinti: tra il dress code ingaggiato in cucina e quello vissuto nell’intimo quotidiano. Proviamo quindi a raccontare che cosa è stato e che cosa (forse) sarà Mazzo in ottica no labels. (N.d.R. Ne abbiamo parlato su Cook_inc. 14 nel Foto-romanzo di Gabriele Stabile “Con quelli di Mazzo non si scherza”). Scrutando dentro la sua microscopica metratura, per poi gironzolare all’esterno verso il futuro. In brainstorming urbano, a zonzo con i Fooders in un luogo molto caro ai due: il quartiere multi-etnico di Piazza Vittorio.

Mazzo Begins: come nasce un movimento
“Quando agli inizi realizzavamo catering o eventi, la necessità era la forza motrice. Insieme a un concetto di DIY istintivo” ricorda Francesca “davamo il tutto per tutto, attingendo in maniera trasversale dal nostro background. Rimanendo anche spesso vittime dei nostri errori. Il cambiamento è nato proprio dalla volontà di non esserne più succubi. Impostando la vita e il lavoro diversamente. Lo slancio dettato da una capacità di adattamento produttivo è rimasto. È cambiato solo il modo di destreggiarci al suo interno. Per arrivare al primo Mazzo l’itinere è stato inverso a quello comune. Abbiamo trovato e rilevato un posto che ci era piaciuto, in una zona al tempo deserta a livello di attrattive. Quando ci siamo resi conto, per motivi burocratici, che non potevamo realizzare il laboratorio che avevamo in mente, ci siamo posti un nuovo quesito. Ovvero cosa poter fare con quello che avevamo”.


Prima il contenitore e poi il contenuto. Lo spazio era critico per una visione canonica di ristorazione. Stretto, compresso, in un quartiere difficile e con una cucina molto più grande della sala effettiva. Eppure lo spunto attitudinale dei due è riuscito a ricavarne qualcosa di prezioso e unico nella sua eccentricità. “Il tavolo sociale è stato una scelta quanto un’esigenza. Mettere tanti tavolini avrebbe reso buffo e confusionario quel buco quadrato” rimarca Francesca. “Il nostro compito invece era quello di dare logica e carattere a ogni dettaglio. Abbiamo sempre creduto nell’importanza delle figure di sala, nonostante potesse apparire disorientante in quel contesto. Se io e Marco eravamo fissi in cucina, era necessario trovare profili nel servizio sui quali riversare una fiducia incondizionata. Sempre dai potenziali limiti della location e della posizione abbiamo estratto l’idea di dover forgiare una situazione unica e personale. Da cui si è fortuitamente originato un fenomeno. Una sorta di istinto di sopravvivenza, che non doveva però cedere a compromessi o sottostare a una standardizzazione. Ci siamo subito imposti di non avere in carta piatti come amatriciana o cacio e pepe. Perché pur vivendo intensamente le persone del quartiere, non potevamo sottometterci a una richiesta che ci avrebbe appiattito. Creare qualcosa che non esisteva sembrava un’impresa impossibile mentre la vivevamo, ma in realtà non ce lo siamo mai chiesto davvero. Non era nostra preoccupazione attribuirgli un’etichetta o un format predefinito. È difficile da spiegare, ma non abbiamo scelto di inventarci dei personaggi. Eravamo il risultato di quello che avevamo fatto negli anni precedenti. Perché nel bene e nel male siamo individui con difficoltà a separare gli ambiti nei quali orbitiamo. Passioni, professioni, lavoro, vissuto quotidiano; abbiamo messo tutto dentro. Inizialmente risultava caotico, ma autentico. E la gente lo ha sentito. C’eravamo noi. Niente di artefatto o costruito. Niente di recitato. Dalle grafiche, all’ambiente, alla cucina. L’esigenza sommata alla creatività ha creato un unicum che è piaciuto. Sorprendendo in primis noi stessi”. Inconsapevole, ma gagliardo e coraggioso: since 2013, Mazzo andava a colmare un gap mai contemplato dal gergo della ristorazione romana. Enunciando con fierezza il proprio stile indipendente, nonostante l’offerta audace per i tempi e per la periferia di Centocelle. Una cucina tecnica e rigorosa (maniacalmente devota alla ricerca delle materie prime), ma al tempo stesso scandita dal ritmo hardcore della tradizione romanesca. Spalleggiata da una visione ampia del gusto italiano e da vibranti digressioni melting pot. Non tralasciando l’attenzione per sala, vini e distillati, con oltre 20 gin differenti in carta. Fantomatica realtà, con il dialetto di una sottocultura e un flow colto e autorevole.


Mazzo Records: un’etichetta che non c’è
“Il rischio di disperdere il messaggio lo percepivamo. Tanto anche – racconta Marco – un verbo che all’inizio è ignoto e così diversificato può penalizzare, perché le persone sono abituate a leggere le notizie in chiave flash. Se ragioni su una metrica così veloce e io ti do così tanti input tutti insieme, c’è il pericolo che non recepirai abbastanza. O magari non nel modo migliore. Noi abbiamo sempre perseguito l’idea di andare in profondità e non in superficie. Mentre a volte questo settore costruisce i locali – e la comunicazione – su etichette o format, ancora prima di aver fatto qualcosa di effettivo. Questo può facilitarti nell’immediato, ma non ci appartiene. Quando abbiamo iniziato c’erano tante categorie dove inserirci. Ma attribuirti un’etichetta da solo significa anche avere un’alta concezione di te. Essere un po’ presuntuosi. Un aspetto che non ci riguarda. Mazzo era non codificabile, perché abbiamo creduto nell’identità prima di fantasticare su chissà quale titolo. Da amante viscerale della musica, mi sono sempre ispirato al motto di un collettivo artistico di Los Angeles, i Mochila Records. Il loro stemma, lo zaino, rappresenta la capacità di fare tutto quello che puoi al tuo meglio, con ciò che ti porti in spalla dentro un simbolico zainetto. Un significato enorme, su cui riflettere anche nell’ambito della ristorazione. A volte, più in passato che ora, le guide e gli addetti al settore non sapevano dove incasellarci. Siamo finiti sotto le etichette più disparate. Piombava un lieve malumore al pensiero di non poter emergere senza una catalogazione. Un sistema molto presente in questo mondo. Forse il messaggio era troppo ampio per essere costretto all’intero di un recinto istituzionale, ma non essere riconosciuti da professionisti e critici agli inizi ci ha portato a interrogarci su noi stessi”.
“Dove si colloca Mazzo? Difficile. La definizione di neo-trattoria era ed è riduttiva. Nonostante siamo stati felici che ci abbiano definito in questo modo, riconducendo il target a premi e consensi. Non ci interessava l’etichetta in quanto tale, piuttosto capire che la direzione era giusta e riconoscibile. Ci rendiamo conto solo ora di aver marcato una dimensione inedita: né osteria, né bistrot, né ristorante pettinato. Uno spazio nostro per un’identità intima, che a volte può ancora disorientare. Vedevi adesivi di gruppi hip-hop sulla porta dell’ingresso, poi entrando venivi risucchiato in una proposta che metteva la cura dell’ospite sopra a tutto. In ogni passaggio, partendo dalle basi. I piatti ad esempio li abbiamo sempre provati a oltranza finche non ci convincevano. Se hai 9 piatti devono essere 9 score diretti. Ogni piatto è un centro. Magari ne cambiamo pochi alla volta, ma hanno un senso chiuso e definito. Nel motore di una macchina non esiste un pezzo che ha una funzione. Così per noi ogni cosa, ogni piatto deve essere una bomba”.
Figli di questa dialettica, innumerevoli assaggi che hanno sancito la storia di Mazzo divenendo dei veri e propri cult. Nella loro cucina con finestrella a vista li potevi ammirare saltellare tra i fuochi come nel pogo di un concerto. Sul tavolo sociale, piombava con metrica decisa una jam di sapori tanto confortevole, quanto audace e graffiante. Che beat! Zero esercizi di stile, niente effetti speciali o tonalità alterate con l’auto-tune. Sostanza, calibrata con polso, mentalità e ritmo. Rallegrata con agili influenze esotiche, prese in prestito da esperienze personali e sottoculture affini. Un groove firmato Mazzo.


Un groove firmato Mazzo
La Lingua di manzo piemontese, salsa verde, uovo barzotto e cipolla, è un’accelerazione evo lutiva dalla tradizionale lingua al verde, verso picchi imprevedibili. La texture fondente e sontuosa della carne, si intreccia con l’acidità della salsa e la voluttuosità del tuorlo in un fraseggio palatale esaltante.
La Trippa fritta – dalla formosa struttura cristallizzata – elogia il quinto quarto romano, con l’acuto funky del pomodoro agrodolce rinfrescato dalla menta. Un nuovo classico, centrato in pieno.
Formidabili le Ruote pazze alla genovese di pannicolo: il formato di pasta ribelle – dalla masticazione carnivora – trova brillante scambio di battute con la dolcezza confortevole del sugo campano, irrobustito dal quid del diaframma di manzo. Sapori domestici, rassicuranti, proiettati al futuro.
Le strofe non cedono un colpo, neanche confrontandosi con un caposaldo dello slang capitolino. La Carbonara trasuda romanità irruente, con la turbo-cremosità di un lavoro di manico che non teme rivali. Poche pugnette e sofisticazioni: solo raro equilibrio nella gestione del guanciale crispy e della pioggia di pecorino e pepe, che dialogano in sincro perfetta con tuorli e rigatoni. Un colosso sacro, vestito in tiro.
E che dire di un apparentemente banale Pollo fritto: panatura dalla croccantezza inverosimile, che preserva umidità, umori e tenerezza in ogni boccone. Da intingere in assuefacente maionese homemade, aromatizzata al blue cheese. Il comfort food, che sposa gesto e finezza.
La Pork belly con cavolo nero e salsa agropiccante è un sunto gioioso della passione dei Fooders per la cucina cinese: cottura e glassatura millimetriche, in un concentrato di succulenza e callosità seducenti. Verbo meticcio e cosmopolita, pronunciato in coerenza e consapevolezza.
Mazzo Invaders: L’inizio nella fine
La scena è pregna di folclore e surrealismo metropolitano: in perlustrazione notturna, lungo le strade della Chinatown capitolina di Piazza Vittorio. Affollata dalle luci psichedeliche di negozi e ristoranti etnici. Un tessuto suburbano che sollecita alcune corde importanti del vissuto di Marco e Francesca. Perfetto per discorrere in libertà sul significato della chiusura momentanea di Mazzo. E sulla forma che il locale potrebbe assumere in divenire. Ma per onorare al meglio questo tema, ci accomodiamo a un tavolo imbandito di piattini e stoviglie di un ristorante del cuore dei Fooders: Hang Zhou, per molti noto come “Da Sonia”, in omaggio al nome dell’istrionica titolare. Swag e sollazzo, in rito conviviale. Pescando quasi tutte le voci del menu – tra assaggi di manzo al cumino, gnocchi di riso, ravioli al vapore, anatra alle spezie e maiale con cetrioli amari – prendono sfogo riflessioni a incastro sulle direzioni di Mazzo nel tempo.

“La cosa più difficile che abbiamo fatto è stata creare una nostra strada e una filosofia di cucina molto coerente e in qualche modo inattaccabile” spiega Francesca. “Un tratto che si completa con un’attitudine costante. L’ultima versione di Mazzo rappresentava in questo un compimento, anche nel modo di raccontarlo e di rapportarci con i clienti. Si era creato un rapporto speciale, perché il contatto con la gente per noi è indispensabile. Ora questo è un discorso che andava declinato in una maniera più completa. Entrambi sappiamo di avere delle mancanze, ma creiamo collettività e ci crediamo. Mazzo è sempre stata un’istallazione reale, temporanea e variabile al tempo stesso. Mai statica. Non c’è nessun motivo negativo sulla chiusura temporanea. Vogliamo mettere in chiaro alcune cose, a partire da uno studio introspettivo di noi stessi, ma non potremmo farlo stando fermi in questo posto. Qui avevamo creato un filone importante. E l’idea di chiuderlo in questo contenitore è anche un modo per lasciare un segno di riferimento e un ricordo giusto a chi lo ha vissuto con noi. Nonostante tutto, rispondiamo anche a logiche commerciali, che ci hanno portato a spostare di nuovo l’attenzione. Lo spazio originale cominciava a essere limitante per il grado di affluenza sempre maggiore della clientela. Questa scelta molto forte è stata un insieme di pensieri, motivazioni pratiche, spirituali, ma anche un diverso grado di maturità raggiunta. Per questo scegliamo di chiudere nel momento di massimo sprint mediatico. È facile cambiare o mettere il punto quando stai andando male. Ma cambiare quando stai facendo bene e ci sono le energie giuste per dare una svolta, beh per noi è un altro paio di maniche. Paragonandolo al lavoro di un artista, Mazzo è stato il nostro primo album e ora vorremmo partorire il secondo”.




Il party di chiusura – settato tra tsunami di hype, il giorno della scorsa Epifania – ha ritratto con vibrazioni adeguate l’attaccamento affettivo e il senso di crew derivato da questo microscopico indirizzo. Il clima di festa, tra le persone coinvolte nella storia del ristorante, ha lasciato intendere come la fine apparente è in realtà un rilancio verso mete progressive, che non faranno evaporare l’essenza caratteriale di Mazzo. “Sarà un’evoluzione. Perché quel che abbiamo fatto è solo un primo punto di arrivo”, approfondisce Marco in chiusura, mentre confeziona piccoli origami con i biglietti dei biscotti della fortuna. “La cura che abbiamo riversato in ogni sfumatura di Mazzo non svanirà mai e questo per me vale più di qualsiasi altra cosa. Questo progetto ci ha fatto capire quanto è importante ascoltare chiunque, ponendo interesse illimitato su tutto ciò che riguarda le persone e l’animo che circoscrive il locale, ben oltre il piatto. Cercando sempre di sistemare, modificare, aggiustare il tiro. Eravamo e saremo custom a livello maniacale, perché fa parte del nostro approccio essere sartoriali ed esprimere cura in tutto ciò che facciamo. Saremmo stati così, anche se avessimo aperto un negozio di fiori. Se non hai cura per gli altri o per te stesso non potrai mai funzionare. Con questi presupposti andiamo a riempire di nuovo un contenitore che è stato svuotato di contenuti ancora in attivo, ma che ha bisogno di nuove esperienze e nuovi stimoli. Ci lanceremo in un tour di tappe itineranti – come in una sorta di tournée musicale – cucinando in successione in Italia, Europa e poi spingendoci oltre Oceano. Riprenderemo in mano anche il nostro format amarcord delle Underground Dinners, proiettate come rave-culinari in spazi inconsueti e segreti. Senza smettere mai di metterci alla prova, di sperimentare nuove metriche. Per infondere coerenza e continuità a quello che sarà il prossimo Mazzo”.
Che Mazzo sarà?
Continua Marco: “Non lavoriamo con un concept predefinito, dunque nulla è ancora scritto. Sicuramente il vecchio locale rimarrà vivo e probabilmente prenderà una forma inedita, preservando il nostro stile. Ci piace distruggere e ricostruire, partendo da un’intenzione diretta, che però contempla sempre una variabile. Come nelle ricette, le variabili possono essere gli ingredienti che usi, così in un ristorante le variabili le fanno le persone. L’unica certezza rivolta al futuro, è che non apriremo mai in un non-quartiere di Roma, che per noi è senza identità. Vogliamo vivere in un posto che ci emoziona perché il ristorante alla fine diventa come casa nostra. Certo, ci piacerebbe anche pensare di raggiungere un assetto lavorativo differente e un’organizzazione connessa a uno spazio più grande. Ma non ci poniamo paletti ora, come non lo abbiamo fatto all’inizio di questa avventura. Mi viene da chiudere con questo pensiero, come per chiudere una rima rap, citando le parole di un rapper come Deda: Strani equilibri sono andati compromessi / punti sospesi, ombre cinesi perché fossero compresi / i dogmi necessari per l’ascesi, dovemmo perderci per ritrovarci / e poi fidarci perché c’era la stessa luce ad aspettarci / stessi segni sulla pelle ci resero anime gemelle / e quindi uscimmo a riveder le stelle”.