Quando leggerete questo incipit il dibattito che scuote ancora oggi 16 giugno 2018 la redazione avrà trovato l’esito d’un fragile punto d’equilibrio. La prima immagine di Nicolai Nørregaard, nella sua più adamitica verità, novello Nettuno emerso dalle schiume marine? Quella incorniciata in copertina nell’odierno numero top collector di Cook_inc. che tenete in mano. O la state ancora cercando, pagina dopo pagina, nel centerfold dal verticale formato? O sarà stata censurata da un comitato di sensitivity readers, nuova professione vegliante all’interno delle case d’edizione americane al bene della lucchese morale comune? La forza del verbo, lo shock delle immagini? Al di là dell’ironia, del colpo di stivale negli stinchi del buon pensiero culinario, l’idea di posare nel suo più semplice apparato – proposta oralmente alla fine di gennaio e ufficialmente validata nella nottata tra il 15 e il 16 marzo a Lyon durante la “Cantine de Minuit” del Café Sillon, maratonesca performance del festival ATTABLE – sin dall’inizio mirava ben più in alto della semplice trovata d’incoronare Nicolai primo cover boy dei nordici fornelli. Lunghe contrattazioni, tante esitazioni. Per concretizzarsi, all’ora dell’estivo crepuscolo, venerdì 25 maggio, in una fotografica seduta a équipe pudicamente ridotta (Nicolai, Michael il fotografo, e Björn il suo creative assistant) sulle rive dell’isola di Bornholm. Venus o Poseidon immortalato nelle natali acque, il brutale rituale dell’emersione – la gelida brezza, la subacquica temperatura a 12 gradi – nutriva un grande valore di rivendicazione. Un amniotico bagno di prossimità, senza artifici, NUDO E CRUDO, di totale identificazione con se stesso (“malgrado i dieci kg in più accumulati durante l’inverno”), là dove tutto cominciò 38 anni fa. Sull’isola di Bornholm.
È la storia d’un ragazzo scapestrato, ora papà esemplare e marito appagato, che ne ha fatte di cotte e di crude. Alimentando con un sorriso disarmante, anche quando imberbe metteva già sulla bilancia della circospetta modestia la palese doppia dose d’ambizione. È anche la storia d’un adolescente che, alla separazione dei suoi genitori, con una mamma membra dell’isolana comunità vegana post-hippy, tappezzava le mura della sua stanzetta con i poster dei suoi gruppi preferiti. Le foto dell’epoca lo ritraggono dietro le corde dell’inevitabile chitarra, la zazzera sugli occhi incapace d’offuscare il sorriso del ragazzotto bello e buono come il pane anche durante le proverbiali fasi punky-grungy. Da grande voleva far il musicista. Col senno di poi avrebbe fatto meglio a rigarla dritta. “Ma a 17 anni, quando sbarchi dall’isola a Copenaghen con la valigia in mano per seguire i corsi d’una scuola di musica, fai un po’ il cazzone. Festeggi sino a notte tarda e il mattino, non è che fai sega a scuola, ma incapacitato resti incollato al letto.” Ritorno al punto di partenza, all’approdo fatale d’una vita gaia ma bipolare. Ritmata dal brutale cangiare delle stagioni, esterno/estate – interno sempre notte/d’inverno. Pare di rileggere il primo dei sei tomi della biografia autofittiva del norvegese Karl Ove Knausgård Min Kam (“La Mia Lotta” in italiano e, allerta ai sensitivity readers in agguato, ovviamente Mein Kampf in tedesco), dedicata all’infanzia poi all’adolescenza. Brume di vividi ricordi, di epifanie riaffioranti nel carnet intimo dei primi appuntamenti galanti (“laggiù dietro gli alberi è la casa della mia prima morosa, eravamo goffi e maldestri, con le lentiggini e la tinta rosa degli inesperti, ma facevamo già tutto mica solo petting”), pagine d’estati senza fine di panteistica comunione con la natura: “Con la bella stagione Bornholm diventava per noi davvero il posto più bello del mondo. Il sole sempre fisso sino a notte fonda, le acque cristalline, le corse in bicicletta, poi in motoretta, a correre appresso alle ragazze, a far bisboccia con gli amici tirando all’alba” e qui la direttrice Morelli potrebbe inserire un NDLR: “I Vitelloni non sono vidimati solo a Frosinone” ma già Nicolai riparte con i ricordi: “Tanti son partiti, qualcuno non si è mai mosso di qui” fa lui un filino sentimentale idealista forse anche ma non più di tanto. Perché al rovescio della medaglia non si scappa col “buio, il freddo glaciale, la pioggia e la neve, la sensazione di essere imprigionato, la miseria sessuale dei giovani corpi palpitanti strangolati dalle coltri di vestiti pesanti, i silenzi assordanti di Bornholm l’inverno che ti martellavano in testa la voglia di scappare…”. Too young to die fast.
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Sarà che suo padre lo prendeva per la gola (“era un ottimo cuoco dilettante, ci teneva a cucinare lui ogni sera”) sarà che il mondo dell’hospitality accoglieva tutti anche i diplomati nullafacenti (“poco più che ventenne, di ritorno a Copenaghen, ho lavorato in un grande albergo di lusso. Tempi poco grami, non ho mai più sperperato così tanti soldi in vita mia, tutto lo stipendio più le tante generose mance – ma a palate – dei clienti” dice lui stendendo un velo di Pietas ellittica sui suoi probabili fasti d’acclamato Cougar Boy) ma la nascita di Kadeau, per tornare ai fatti che interessano a noi, avviene per caso.
C’era una volta una bicocca desolata, disertata dai più seppur posta in coppa alle dune della più bella spiaggia della Scandinavia presto ripopolata. All’abbandono, sembrava ai giovani occhi la Terra Promessa: che tendeva la mano ai Pellegrini in contatto radio perso con la Gerusalemme Rivelata. Ai coloni del 2007 pareva un insulto alla ragione. Un impresa d’attardati adolescenti, farla rivivere per il solo tempo dell’alta stagione, un’occupazione per prolungare lo spartiacque separante i giorni del pane e delle rose dalla vita adulta. Beata incostanza della giovinezza. Se Nicolai Nørregaard alla fine col suo socio compagno di scommessa si è lanciato nell’avventura, fu certo per occupare uno spazio vuoto ma anche per contraddire tutte le lingue isolane che aizzavano alla causa persa. Non fu facile, all’inizio, coinvolgere la popolazione o i vacanzieri che a casa loro, per i loro congedi pagati, si accontentavano d’una zuppa e d’un tocco di pane col pesce secco. Non fu un gioco da ragazzi convogliare sulle dune a orizzonte aperto gli inciabattati estivi vacanzieri che avevano altre patate da pelare. Ma seppur nella sua balbuziente semplicità, Kadeau prima versione aveva mirato giusto parametrando l’iniziale comfort food col lascito della cultura. Con l’Internet e i fasti della capitale, l’eco delle scaramucce dalla Zona d’Autonomia Permanente dichiarata dal Noma a scena aperta per la liberazione dello scandinavo immaginario, era arrivato anche a Bornholm. Più chiaro del Talmud e neanche fosse l’editto di Martin Lutero, “l’appena pubblicato manifesto della cucina nordica aveva senso per me. Cucinare con quel che si ha, guardandosi dapprima attorno, privilegiando il locale, quello a portata di braccia, scavando le nostre tradizioni, per raccontare storie talvolta dimenticate ma che ci hanno formato. Inventarci una storia, una tradizione, costruirle collegandole come i punti mancanti di una mappa” ricorda Nicolai che sa quanto sia comune la condivisione.
Nessuna idealizzazione, attenzione al passato quando tende la sua tela. Diffidare – sempre! – della nostalgia, sciabattata zoccola della memoria. La verità non è una ma sempre plurima, riflesso della realtà, delle particolarità del genere e della casta. L’identità è semmai dettata da tante sedimentazioni sfuggenti, da fasi di avanzamenti e di ripiego, di estensioni, di scoperte entrate poco a poco a tastoni nel DNA comune.
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“Bornholm è sempre stata un luogo di transito per i viaggiatori provenienti dalla Russia o dalle isole sparse per il Mar Baltico, da lì la nostra identità isolana certa ma fondata sul crogiolo d’influenze. La pesca del merluzzo, delle aringhe, faceva parte del nostro quotidiano. Erano gli ingredienti di base che si alternavano sempre, accomodati in variate forme. Con gli anni le cose son cambiate, le generazioni che son nate dopo la guerra hanno poco a poco amplificato la loro conoscenza aprendosi ad altri prodotti. Ma se lo chiedi a me, e la cosa vale ovviamente anche per i miei genitori, quali sono gli odori, i sapori che ci portiamo appresso dall’infanzia, ovviamente è il fumo del pesce che ogni famiglia metteva da parte per l’inverno. Hai visto le case con i camini alti e stretti che si stagliano contro il cielo? Sono dappertutto, più di 500 sulla sola isola di Bornholm indicano una tradizione condivisa da tutti o quasi. Sono anche un segno diciamo di distinzione sociale” racconta Nicolai preso, ogni volta che rimette piede sull’isola natale, dalla Sindrome del Forestico fortunato: “Vengono tutti a complimentarmi, a prendere notizie, non solo quelle che leggono sul giornale del cuoco bagnato dal successo a Copenaghen, ma anche i compagni di scuola, le ragazzuole con le quali ero uscito appena due volte venti anni fa. Quando torno sull’isola e incappo in mio cugino nella sua casetta un po’ malandata, tanto triste, anche se non te lo fa vedere, per essere stato costretto ad abbandonare il suo lavoro d’affumicatore in proprio per mettersi sotto padrone, mi piange davvero il cuore.”
Piangerebbe di commozione – e noi insieme a lui quando rammenta pure di fronte a un bicchiere di vino il porridge della sua infanzia. Che in altri tempi era davvero il pane quotidiano (“chiedi a qualsiasi cuoco nordico qual è il sapore o il piatto della sua infanzia, e tutti ti risponderanno il porridge”) e anche del giorno dopo: “in versione fritta, perfetta per l’ora di cena con un’aringa o una fetta spessa di lardo”. Ritornare a bagnarsi nelle natali acque va di pari passo con l’overload di emozioni. Fa da Cicerone, ti introduce nel laboratorio di Torben di Lov i Listed, ceramista d’eccezione da quando aveva 16 anni, e ora ne ha giusto cinquanta di più, che prepara le linee di piatti e ciotole utilizzate nei suoi ristoranti:
“Fa delle cose talmente straordinarie ma è solo alla produzione, tutto quel che le sue mani fanno è già prevenduto. È inutile venir qui, anche se bussi alla porta perché hai visto l’articolo che il New York Times gli ha dedicato, non cambia un accidente: da vendere non c’è niente. Devi solo aspettare quelle due o tre volte all’anno quando organizza le sue giornate porte aperte e allora c’è la coda dalle sette del mattino davanti a casa sua per due/trecento metri. Come per i saldi di fine stagione davanti a Harrods quando c’è la gente che dorme per strada col sacco a pelo.”
L’isola si stende davanti per villaggi e frazioncine, ogni stazione con la sua comunità e vita locale (“Hai visto le chiese alte e rotonde, tutte pittate di bianco calcinato? Da lontano sembrano dei fari, ma sono dei luoghi di culto dall’architettura così particolare che ne trovi solo qui. Sull’isola di Bornholm ne abbiamo cinque, il protestantesimo portato alla sua massima espressione.”
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Per non ritrovarsi catturato nelle sabbie immobili del passato, Nicolai sa di dover mettere della distanza tra sé e sé. Quando sbarca dall’aereo o se viene da Copenaghen al volante della sua vettura (“ci vogliono quattro ore da porta a porta”) passando per la riviera svedese di Skåne prima d’imbarcare la macchina sul battello, arriva oramai con l’acceleratore pigiato sul profilo dell’uomo indaffarato. Non tanto quello dell’intraprendente che apre presso le rovine del castello di Bornholm un Bobbabella, luogo museale dove si potrà da giugno in poi addentare i migliori burgers del nordico rione (Bobba è il nome d’un elfo della mitologia locale, Bella significa figlio) o quello che a Copenaghen appena tre settimane prima mette i puntini sulle “i” d’un bistrot all’interno d’un boutique hotel d’ultimo grido nella capitale danese, quanto il profilo dell’enfant du pays a cui tutto riesce.
Eppure nel 2007 lo presero tutti per matto, pronosticando alla versione iniziale di Kadeau by the beach un definitivo e spettacolare insuccesso. Eppure poco alla volta il capannone sulle dune di sabbia bianca di fronte alla tropicale spiaggia (“quando c’è il sole ci si crederebbe alle Maldive”) divenne il punto di riferimento dell’isola, piatti e creazioni basati sulla pesca e gli orti assumendo sul filo del tempo l’audacia della schiettezza e della trasparenza. Erano gli anni in cui la fama del Noma varcava gli stretti ambiti nazionali, aprendo il cammino a una congiunta lotta di liberazione nazionale. “Il successo di Kadeau a Bornholm ha spinto altri a uscire allo scoperto. Tutti i ristoranti, i bar e i tanti alberghi che son spuntati devono la loro esistenza ai nostri magari goffi primi passi; abbiamo indicato loro la via”. Ora se il Kadeau di Bornholm è la Matrice, la fonte originale, e il Kadeau di Copenaghen uno dei fiori all’occhiello della Cucina Nordica a livello mondiale (pure Michelin ci si è messo con i compli- menti, filandogli due stelle ben meritate che illuminano la fama del locale di Wildersgade nel mondo), Nicolai non cade nel tranello. I due locali sono due immagini complementari, due sguardi gettati sulla stessa sensuale regionalità. La stagionalità, differentemente rivendicata e declinata. “A Copenaghen lo spazio è più scuro, stilizzato, un po’ zen con le sue tavole laccate, il giardinetto interno e la cucina a vista sullo sfondo forse un tantino più spinta. Mentre a Bornholm, se può risultare un po’ meno radicale, è perché concorre a ricreare un’atmosfera casalinga, il piacere assoluto di essere in una summer house. C’è un qualcosa dell’atmosfera, della cultura del posto. Dei suoi ritmi, delle sue ispirazioni. Tra Copenaghen e Bornholm i prodotti sono gli stessi – arrivano ogni giorno dall’isola alla capitale freschi fre- schi – ma son trattati differentemente. Gli Asparagi son marinati con olio di foglie di cassis, la Terrine di verdure con fiori e bacche fermentate all’acqua di fiori di pomodoro e di ciliegie o il Tortino al granchio (che lascia tutti a bocca aperta, attenzione alla pasta sbriciolosa) e alle baby tomatoes dell’anno passato – il granchio dapprima fritto, poi terminato con panna e olio di alghe – tutti questi piatti e tanti tanti altri mirano verso un’eccellenza che si fa portavoce d’una eleganza urbana.
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“Da Bornholm è un altro affare. La cucina è altrettanto complessa che a Copenaghen, ma siamo su un’isola, in una summer house, con un lifestyle più rilassato, non puoi imporre un’attenzione contronatura, il cibo deve partecipare di una seduzione più generale”. Inutile gareggiare in sofisticazione tra piatti tutti d’una panteistica bellezza, c’è sempre la scorciatoia del piacere immediato, della freschezza garante del viaggio, dei prodotti che battono di duna in duna il ricensimento della flora e della fauna acquatica. Tra il selvaggio e il coltivato operano le stessi leggi dell’attrazione: il lievito arrostito si applica, con la sua acidità quasi caramellizzata, ugualmente agli asparagi bianchi, alla radice di rabarbaro e alla capasanta norvegese di Rodney (quello che pesca le sue bisteccone marine pure per Magnus e René). I Pomodori “preserved” si accontentano del minimo – cipolle e acquetta di pomodoro – ma accanto ci sono pure delle fantastiche patate, del Kombucha di mirtilli, aglio selvaggio e for- maggio Havgus, roba da urlo in pieno plenilunio. Devono ancora arrivare le Cozze al rafano e alla lavanda, con aringhe, pickles ed elmi delle sabbie e il Pollo cotto nel suo grasso alle bacche di rosa canina e petali di rosa BBQ.
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“Quando vieni qui, hai già vinto la partita” conferma Nicolai oramai attentissimo ai più infimi dettagli del make believe. Questione di equilibri, di naturalezza senza rapporti di forza ora che dal Kadeau di Bornholm si viene dall’estremo nord Baltico e da tutto il resto del mondo. “Perché è l’isola più conosciuta, la più grande, ma ce ne sono altre che fanno neanche tre chilometri di circonferenza”, fa lo chef strizzandoci l’occhio e poi aggiungendo: “Ideali senza telefono né internet per isolarsi e terminare la stesura del romanzo della tua vita”. Interrogandoti, approfittando di questa lontana prospettiva, su quanto la cucina nordica sia già cambiata e deve continuare a cambiare. Per andare oltre l’involontaria parodia dell’acidità e dell’astringente, del crudo e dell’amaro ripetuto a ogni piatto. Per ritrovare, sulla scia della sensualità di Nicolai Nørregaard il piacere del cotto, l’abbraccio del fuoco, l’orgasmo della fiamma. “Sennò la cucina nordica rischia di ricadere in quel che era dieci-quindici anni fa, un’emulazione alla reazione, un processo contro. Ma l’obbiettivo è un altro: costruire un proprio lessico, la nostra grammatica, che sia a Copenaghen, qui a Kadeau sull’isola o nel ristorante dell’hotel Nordlandet, dove abbiamo anche una formula più easy e product driven come si dice. C’è ancora tanto da imparare, tante cose da fare non appena partono gli ultimi turisti. Da Natale sino a tarda primavera le forze in campo si riuniscono a Copenaghen, i menu son scelta davvero comune.”
Anche se, spingersi sulla strada di Gudhjem, che vuol dire la Casa di Dio e di riflesso anche il Villaggio più Bello del mondo, per poi sedersi all’interno del capannone di fronte alla spiaggia bianca di Kadeau ha valore di ritiro spirituale, di voto votivo. Ma di certo non di clausura. Fermate il mondo, ma scendere non voglio. Semmai è proprio qui che si comunica senza interferenze con se stessi. Col mondo e con le galassie più lontane. Guarda che sole, guardati che mare.
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