La neo-trattoria di Dinato & Possagnolo, con le influenze cosmopolite di Stefano Vio
Testo di Lorenzo Sandano
Foto cortesia di Zanze
Bella Venezia, non ci vivrei, ma ci tornerei più spesso a mangiare ora che conosco la realtà di Zanze XVI. Mi infilo la maglia a righe e salto in gondola per guidarvi al riparo dai locali spenna-turisti che rischiano di inondare la città. L’insegna prende vita da un locale storico in Fondamenta dei Tolentini, a un giro di remo dalla stazione ferroviaria.
Qui, dove per un’incalcolabile (quasi antologica) staffetta di servizi la signora Zanze (da cui il nome) dispensava manicaretti tipici della laguna, oggi si snodano identità giovani e menti fervide atte a restaurare un’eredità così importante. Dopo qualche anno di stasi, infatti, la vecchia osteria è stata ripresa in mano ripartendo dalle sue fondamenta. Sotto il corso inedito di un progetto affidato a una doppietta di Nicola di tutto rispetto: Nicola Possagnolo, imprenditore pionieristico – nonché buongustaio – iper-affermato nel campo della comunicazione (Most Influential Under 30 secondo Forbes) e Nicola Dinato, chef stellato del FEVA di Castelfranco Veneto, con un curriculum d’alto rango maturato (tra i tantissimi grandi) alla corte di Ducasse, Michel Roux e Ferran Adrià.
Il nuovo Zanze porta in omaggio alle passate gestioni solo il nome e il richiamo stilistico, nonché fascinoso, dell’ambientazione retrò. Quel che si respira ora tra sala e fornelli è un clima sovraccarico di elettricità creativa. Di quell’informalità colta e sapiente, perché indirizzata verso il benessere integrale dell’ospite e mai lasciata al caso. Una cucina che volutamente sfida le movenze intorpidite della tradizione, per distillarne un’andatura attuale: tanto ferrata sui capisaldi classici di questo territorio galleggiante, quanto sparata a ennemila leghe verso le contaminazioni culturali e gastronomiche che da sempre caratterizzano i porti dell-ex repubblica marinara.
A monitorarne il tragitto, con abili colpi di timone alle stufe, troviamo un cuoco giramondo per definizione quale Stefano Vio. Dopo un itinere professionale tra Nuova Zelanda, Messico e Thailandia (con tappe da Gaggan e Quintonil) ha trovato il canale giusto per far confluire il suo bagaglio di influenze, adattandolo all’impronta che Dinato aveva già ben delineato nel menu del ristorante.
L’aspetto ludico è lesto, l’intrattenimento a tavola è lampante, ma dietro ogni passaggio c’è tanta, tanta tecnica. A secchiate. Un approccio che è anche stato premiato dal grande schermo, vincendo la challenge di Quattro Ristoranti by Alessandro Borghese. “Nonostante il duro colpo della pandemia, ora anche grazie al traino della tv ci siam ripresi alla grande e il locale è praticamente sempre pieno” ci racconta sorridente Possagnolo. Non ce ne voglia il buon Alessandro – e l’indotto positivo che riesce a trasmettere sulle masse – ma basta accomodarsi qui e lasciar carta bianca alla brigata per capir subito che c’è un lavoro da “diesci” perpetuato nelle retrovie.
UN’ANIMA CONTAMINATA, TRA ASIA, ORIENTE & MESSICO
Già sgranocchiando la parata di snack iniziali, che punzecchiano scaltri vari angoli del globo: Pomodorino in salsa di arachidi con buccia di pisello; Foglia al carbone con patè di fegato di cernia e Won ton fritto ripieno di gamberi e manzo su tutti. La Pinna di branzino drappeggiata con yogurt al prezzemolo e katsuobushi di cozze è un flipper palatale tra Asia e Giappone, sigillato da un morso denso, atavico e polposo.
L’Anguilla con ostrica del Gargano e cetriolo si eleva tra intingoli messicani e una laccatura d’estrazione orientale dalla profondità disarmante. Il Granchio sfilacciato con tartare di porro, maionese al miso di lenticchie homemade e curry al granchio affiora invece come una sciabolata aromatica
dalle laminature Thai, riallacciandosi magicamente all’humus lacustre del terroir veneziano. Le Fettine di lingua, intervallate da anguria marinata e salsa di lattuga sono trattate magistralmente sia nella cottura che nello scambio squillante di contrasti policromatici, intercettando il crunchy musicale dei nervetti soffiati come fossero chicharrón di 5/4. Nel mezzo di questo magnetico tour intercontinentale, il servizio amministrato da Nicola Mascarello (eggià, un bel terzetto di Nicola riuniti assieme) recapita carisma raro e coinvolgente, sia nel traghettare le portate tra l’euforia dei clienti, sia nel destreggiarsi in un wine pairing da regata con vele spiegate al vento.
Tornando ai piatti, si ricomincia a viaggiare circumnavigando il Sol Levante e sapori italici nei propulsivi Ravioli pizzicati con melanzana, salsa tosazu, fagiolini, ricotta affumicata e brodo ramen; sfociando poi nel conturbante Risotto al latte d’asina, scampi con la loro bisque, sedano e ribes ghiacciati. La rotta del capitolo salato si ricongiunge all’esordio asiatico, mobilitando un graffiante tocco minimalista: Ricciola al vapore, gamberi, rape e un iperbolico green curry che esige la più sfrontata delle scarpette con l’ottimo pane e focaccia, confezionati dal team in un micro-laboratorio.
Doppiamente talentuosi, anche per la capacità di adattamento negli esigui spazi della struttura. Si arriva poi allo sbarco conclusivo provando due dolci vibranti, fedeli alla gamma di contrappunti lasciati fluire con classe nell’intera esperienza: Cirmolo, mou, gelato al pane, fava tonka, avena (super!) e l’esotico Cocco, ananas, rabarbaro e rose. Se devo esser schietto, non penso che l’etichetta di osteria moderna o contemporanea si adegui pienamente alla personalità di Zanze XVI. Forse è già un filino troppo stretta. So per certo che il mood dell’ospitalità viene rilegato alla grande con l’anima gastronomica saldata in queste storiche mura. E che il valore aggiunto che offre, emerge con una metrica davvero potente: rimbalzare gaudenti intorno al mondo, con le suole piantate in una delle città più belle d’Italia.
Zanze XVI
Santa Croce 231
30135 Venezia (VE)
www.zanze.it