Testo di Alberto Gipponi
Foto di Alberto Blasetti per Cook_inc. 26
Cent’anni di solitudine? Gabriel Garcia Marquez. Nona Sinfonia? Ludwig van Beethoven. La danse? Henri Matisse. Passatina di ceci e gamberi? Cooosa? Passatina di ceci e gamberi. La risposta per me è una: Fulvio Pierangelini. No, ma, forse, Bergese? No! Fulvio Pierangelini. Dalla platea sento il brusio. Fossi un direttore d’orchestra picchietterei la bacchetta sul leggìo. Signori, prego, ordine. Ripeto, scandendo: Fulvio Pierangelini. E aggiungo: godiamo della passatina di ceci e gamberi, viva Fulvio Pierangelini, icona della cucina italiana. Applausi. Sipario. E barbabietola e gorgonzola? Bartolini! Ma, forse, Marchesi? No! Caspita, basta, Bartolini! Vi prego! Riconosciamo il valore dell’altro. Accettiamo che qualcuno abbia reso noto più di altri piatti e abbinamenti. Veicoliamo l’informazione affinché la cucina prenda valore grazie al lavoro di chi la disegna.
Vado a bersaglio. Il primo centro a cui miro ha lettere rosse, cubitali, leggete con me: proprietà intellettuale. Controllo sui radar. Nessuna traccia, ma sogno di vederla arrivare dentro i quadranti del nostro mondo. Credo, senza paura, che sia qualcosa che vada riconosciuta (vedi passatina di ceci e gamberi). In fondo, superato il primo groppo in gola, è bellissimo riconoscere il valore degli altri. Fidatevi! Vedrete quanto renda liberi e leggeri farlo. Quanto fatto non perde valore, anzi. Chi crea e chi copia riflette e diffonde la medesima luce. Inoltre, credo fermamente che diventi una forma di divulgazione, di informazione e, magari, un giorno di cultura, perché come mi dice Nicolò Scaglione, straordinario filosofo del cibo, singolare conoscitore di materia prima e palato di rara delicatezza e profondità, la cucina è costume non cultura. E, io aggiungo, con un po’ di speranza, almeno per ora. Non posso mettere confini al sogno e così mi figuro che i cuochi italiani si riconoscano, vedano il valore l’uno dell’altro, senza timore. Senza paura di essere messi in ombra, senza angoscia di perdere il podio, la luce delle scene, senza il graffio dell’invidia. Lo dico quasi da genitore, senza fronzoli, con verità, chi ha figli o è figlio lo sa. Sentir riconoscere il proprio valore è come innaffiare un seme. Mettere a fuoco se stessi attraverso gli occhi, le parole, il riconoscimento dell’altro è germogliare, crescere, gemmare.
Che, poi, mi auguro davvero che i cuochi siano felici se qualcuno prende spunto dal loro lavoro. In qualche modo, questo qualcuno li sta celebrando che lo dichiari (io mi auguro sempre accada) sia che non lo dichiari. Può anche succedere che nemmeno si sappia che qualcuno abbia fatto prima di noi una determinata cosa. Ho fatto molti anni fa, molto prima di fare il cuoco per lavoro, un menu legato ad Alice nel Paese delle Meraviglie e persino un piatto servito al buio con il rumore del mare e, giuro, Blumenthal non avevo idea di chi fosse e di cosa facesse. E questa cosa mi è capitata anche con piatti di cuochi italiani che non cito perché si sa mai gli venga un’ulcera sentendosi chiamati in causa. Forse, si arrabbieranno per non essere stati chiamati in causa. Esattamente, che problema c’è? Facciamo tutti fatica, questo lavoro ci mangia con amore il cuore e l’anima ed è quello che desideriamo. Ma non siamo meglio degli altri. Le salite sono salite per tutti. Impariamo ad amarci e a non aver paura del valore altrui. Un grande cuoco riconoscerà mai pubblicamente che un altro cuoco è meglio di lui in molte cose? E ancora: i cuochi riconosceranno mai il valore di chi è dentro la brigata? Di chi, a un certo punto della vita, decide di cambiare, lasciare la cucina dove è stato perché la vita lo chiama altrove? Posso svelarvi un segreto? Ogni uomo ha doti che lo rendono, a seconda della situazione migliore o peggiore di altri uomini. Semplicemente, dobbiamo sapere chi siamo e cosa vogliamo essere. E adesso passiamo di livello, puntiamo al forziere. Va aperto e fatto nostro.
Anticipazione. L’italianità come modello. Ma andiamo con ordine. Ho pensato spesso, specie nella prima fase del lockdown, all’Italia. Un po’ per quel che accadeva, un po’ per contrasto: ne sono venuti fuori tutto il patrimonio, tutta la bellezza, anche e soprattutto, per me, nella tradizione culinaria, dei grandi piatti. Quante materie prime, quanti prodotti – i migliori al mondo – ma anche opportunità di sviluppo tecnico. Da questa presa di coscienza sono partito. Guardando al nostro Paese mi si sono materializzate davanti la creatività italiana, la cultura gastronomica, diversa da casa a casa fino a una generazione e mezza fa, viviamo nel bello e abbiamo un’eterogeneità della materia prima invidiata da tutto il Mondo. Sono convinto che è su ciò che si possiede che si debba lavorare, per valorizzarlo e renderlo eccellente. Su queste basi non sarebbe bellissimo costruire un modello, unitario e condiviso, che dia valore reale a tutti noi cuochi italiani? Dico “sarebbe bello costruire” perché – diciamocelo – non esiste a oggi una condivisione codificata di tale valore.
Com’è possibile che siano esistiti un movimento della cucina francese, della cucina spagnola, di quella nordica e non italiano? Cosa hanno in comune quei movimenti? Io direi la tecnica applicata al gusto, uno stile di accoglienza e di impiattamento e una forma di comunicazione. Da qui l’aspirazione a tenere unito tutto: competenze e tradizioni, cucina e sala. Anche per l’accoglienza, quindi, vale il medesimo discorso. Dobbiamo lavorare molto più insieme, dare valore a chi è il naturale proseguimento del nostro lavoro. Chi accoglie è il nostro specchio. Se ne parla tanto, ma ancora non si riesce davvero a mettere in pratica su larga scala. Questa osmosi è necessaria e credo abbia necessità di essere riconosciuta e anch’essa ricondotta ad un modello italiano unitario. L’Italia è troppo grande perché l’azione, pur virtuosa, di singoli possa restituire le diverse sfaccettature esistenti. Sarebbe bello veder tracciata e decodificata la nostra arte, le nostre radici, in modo che ci si possa rivolgere, inequivocabilmente, ad esse. Una restituzione di modelli che possano ispirare anche i cuochi del resto del Mondo, che renda loro imprescindibile aggiungere qualcosa di italiano. Come, ad esempio, l’approccio puro alla materia prima, o il riconoscimento dei nostri vecchi e nuovi piatti monumento. Già, lo studio sulla materia. Finora si è reso italiano qualcosa che veniva da fuori, dalla Francia, ad esempio, o dalla Spagna. Che sia il tempo di rendere italiano qualcosa che viene dall’Italia?
Stiamo uniti. L’opera di lettura della cucina italiana, che già avviene da parte di alcuni, sogno che venga portata avanti insieme. Si possono trovare singolarità straordinarie, ma rimangono di uno. Un’impresa simile, a mio avviso, necessita di unità, di gruppo, di spogliatoio. Sento nell’intimo, in prima persona, l’esigenza di provare a tracciare questa via “comunitaria” che si concretizzi identificando delle tecniche da applicare al prodotto, per renderle utilizzabili da altri. Mi immagino delle linee guida comuni, raccolte in una sorta di manifesto che permetta a tutti di mantenere i propri connotati di cucina, ma simultaneamente, che conceda ai non italiani di farne esperienza e di diffonderli. Mi immagino un movimento ispirazionale e aspirazionale. Credo che il tempo sia maturo per una new, new economy: quella del dono e del servizio. Dobbiamo ricordarci che questi concetti bellissimi non dovranno essere offerti solo agli ospiti, ma anche tra noi operatori.
Da un non tempo per domani? In queste ultime settimane ho pensato che quanto descritto potesse diventare realmente una visione condivisa e attuabile, le davo, appunto, speranza perché le prime reazioni che ho raccolto sono state di entusiasmo. Ma quando si è trattato di mettere a terra la visione sono iniziate le criticità. Dopo i primi entusiasmi, c’era troppo spesso la seguente criticità: Tizio non stava simpatico a Caio, Sempronio era stato guardato male da Caligola. Marco Aurelio avrebbe voluto, poi, chissà cosa avrebbe detto Commodo. Insomma, si risvegliavano antipatie, sfiducia, difficoltà ad aprirsi all’altro. E il quadro si è disgregato. Quanto è arduo stare insieme. Torno al concetto base: come la cucina, anche la leadership deve essere condivisa. Non posso, a questo proposito, non citare Annalisa Borella, pasticcera fuori dal comune, con cui mi sono confrontato. Limpida la sua visione: “Siamo pieni di capi, ma ci vogliono leader”. Si fa fatica a non darle ragione.
Che fare dunque? Per me, per la mia sensibilità, quello che ho descritto è il cammino che voglio percorrere e sono aperto a chiunque voglia farmi compagnia. Da qui l’invito a chi sente, come me, questa voglia di cercare insieme una via italiana. Come ha fatto, ad esempio, Michele Valotti: insieme avevamo iniziato a lavorare sulla potenziale codifica di “errori”. Una ricerca che, per cause di forza maggiore (aka Covid-19) è stata messa in pausa, ma riprenderà a breve anche con l’aggiunta di questa urgenza di italianità. Oppure le preziose ricerche di pensiero, contenuto e valore che persone come Nicolò Scaglione e Luca Govoni mi permettono di affrontare.
La ricognizione è aperta. Aspetto, mi viene da dire, amici. Al di là dei grandi, che ovviamente, sarebbero ben accetti con uno spirito di unione e condivisione, chiedo a te, che senti di avere valore e voglia di ricercare e produrre contenuti. Te la senti di lavorare a testa bassa con amicalità per un obiettivo comune? Chi è un amico se non qualcuno che sostiene il tuo stesso desiderio e lo spinge più in là, sempre? Cerco e aspetto chi vuole, liberamente, in modo informale, senza briglie ideologiche o politiche, credere con me nell’italianità, nella ricerca nel gusto e nella tecnica. Cerco chi, quando ti capita di essere travolto da qualcosa di grande, la vede, la discerne con te e ti aiuta a guardarla meglio, a intenderla di più. Sono aperte le iscrizioni!