Gourmet, a San Nicolò, su in Val di Fassa
Testo e foto di Gloria Feurra
La montagna in estate è roba da boy scouts, da terza età, o da chi non è capace di abbinare i colori che indossa. Tutti tengono sui balconi gerani variopinti, con parapetti di larice inciso alla tirolese, ben smussati. È chiaro persino a un bambino piccolo che in un posto come questo, con ghiaccio e sole ad alternanza, bisogna starci dietro ogni estate, a scartavetrare e verniciare; eppure stanno là, tirati a lucido. Un bieco anticonformismo vuole farmi denunciare lo scandalo delle carinerie clamorose, empiricamente scomode, dei gioiellini, degli scorci pittoreschi e dei commentatori sempliciotti che fanno del “mozzafiato” un intercalare. Dov’è l’elogio del severo, del dicotomico, criptico, spinoso, ermetico? Vi siete bevuti il cervello o è solo poco ossigenato?!?
Poi, dentro la valle, il rigore delle posizioni si fa morbido, e il punto di vista, là, sopra i 2000 metri sul livello del mare, cambia.
Le brune alpine in alpeggio sui prati polifiti non sono fotomontaggi da manuale di agronomia o da brick del latte. Basta mezza giornata per imparare a distinguere il tarassaco dall’arnica e ogni occasione è buona per strofinare la negritella che odora come cioccolata in tazza. In breve si diventa buoni imitatori dei fischi delle marmotte sovrappeso che goffamente fuggono negli imbocchi delle gallerie, e si trotta con il naso a monte sperando di avvistare un ungulato mai pervenuto, per tornare a valle con parecchio acido lattico e i dati di Health sull’iPhone che persino Siri s’interroga sulla possibilità che il telefono sia stato rubato da qualcuno che certamente non pratica il binge watching come la proprietaria. E poi il fascino delle imprese di Tita Piaz, la birra che al rifugio finisce più in fretta, i panini con lo speck più appaganti di qualsiasi fine dining o trovare spazio in una dimensione parallela per cajoncìe, carne salada, canederli, zuppe d’orzo e Puzzone di Moena, ricordandosi del secondo stomaco per non negarsi una fetta di sacher o/e di torta al grano saraceno. Ci sono finita dentro fino al collo, e ai gerani non ho fatto più caso.
Il 6 e il 7 luglio, in Val di Fassa, ci sono stati degli eventi organizzati da “Dolomites Top of the Chefs” che hanno coinvolto chef e produttori locali con l’obiettivo di dare vita a “due giornate in cui la protagonista assoluta è la cucina di montagna: attività all’insegna della territorialità e della sostenibilità per raccontare un altro volto della cucina, capace di cambiare in meglio anche il territorio”. Quindi, come suggerivano i flyers, ho digitato il numero di telefono dell’ufficio booking di Pozza di Fassa per prenotare il picnic del sabato in Valle San Nicolò e, claudicante, ci sono andata. Che non è poi così scontato, considerando il fatto che pochi giorni prima dal cielo erano venuti giù 114 millimetri d’acqua in appena 4 ore e che più in basso, a Moena, l’Avisio non ha scongiurato l’inondazione. I fassani non sono però genti prone allo sconforto e al lassismo, popolo temprato da un ambiente maestoso che storicamente non ha mai fatto sconti. L’evento s’è fatto e quel sabato il cielo è stato provvidenzialmente clemente, svelando un sole che ha scottato parecchie coppe e che ha incoraggiato all’idratazione con le miracolose bolle di montagna.
Alla baita in fondo alla Valle, 7 chef dei 3 comuni più prossimi si disponevano lungo tavolate a offrire piatti che sintetizzassero la cucina della loro montagna secondo il proprio gusto. Li ho divorati facendomi tenere a braccetto dal “Moser 51,151” uno Chardonnay metodo classico in purezza con 30 mesi di affinamento. Perfetto cavaliere dall’intera danza. Ho inaugurato il picnic con una trota marinata arricchita con spuma di yogurt, rafano grattato, pesto di cerfoglio e rucola selvatica ideata da Moreno Valentini del De Tofi-Hotel Astoria. Ovvero: poche cose fatte bene. In men che non si dica ero già in coda da Paolo Naccari dell’osteria La Montanara, che proponeva una vellutata di porcini con acetosella, una ricchissima ricotta affumicata e un bouquet disidratato di petali e pollini alpini. Gli chiedo se è un piatto pensato per l’evento e mi risponde che no, “non è nulla di trascendentale”: l’umiltà premia. Il giorno seguente a cena replico il piatto nel suo ristorante – sì, che m’è piaciuto. Ho provato l’orzotto cotto nel paiolo più capiente che abbia mai visto, con i finferli, il formaggio cuore di Fassa al Buon Enrico chiuso dentro una panure e fritto al momento, finito con una generosa estrazione di gemme di larice, piatto pensato da Stefano Ghetta dell’impronunciabile L Chimpl da Tamion. Un primo che fa dialogare con la montagna a tu per tu.
Alla postazione dello chef Alessandro Bellettato dell’Hotel Italia a Canazei ho speso… sì, diciamo un terzo del mio pranzo. Proponeva il Burger “0”. Questi gli ingredienti, dal fondo alla cima: fragole, cipolle in agrodolce, foglie di rapa, hamburger di cervo, formaggio fassano, radicchio dell’orso, spuma di ketchup di rosa canina e l’eau de parfum di pino mugo. Non dovrebbe essere un fast food? Sì, ma:
A. la coda era piuttosto importante;
B. con il radicchio dell’orso si è aperta una parentesi che a riprenderla qua andrei fuori tema – o l’ho già fatto? – mentre in questa sede posso limitarmi ad azzardare che alla nostra amica Noris Cunaccia saranno fischiate le orecchie;
C. il cervo, cacciato qualche giorno prima proprio in valle, ha fatto animare un fervido dibattito sulla stagione di caccia;
D. il fassano fuso viene declassato dal patron di Malga Panna (oggi ristorante ma allora “davvero una malga”, dice lui) che costretto mi svela come solo i carrelli francesi riuscirono parzialmente a farlo ricredere sulla questione dei formaggi, che in gioventù, ipotizza, aveva mangiato in esubero e spesso controvoglia, rendendosi immune al loro appeal una volta indossati i calzoni lunghi. Io invece il formaggio lo vorrei doppio, ma timidamente opto per la versione basic, ex post ottima scelta: all’hamburger non manca nulla, gustoso e sbrodolante.
Giusto accanto, sopra un pan brioches casareccio su cui svetta una tempura di gambero di fiume, lo chef Ninel Lung di Rita Stube lo imbottisce con un pomodoro in salsa incredibilmente meridionale, un velo di maionese di senape e un filetto di manzo appena scottato, certamente più barocco e fotogenico ma meno sudato. Masticando gli ultimi morsi, già proietto il sapore dello sfacciato e chiacchierato pre-dessert di Alessandro Iori d’El Cianton: sorbetto alla monarda, fragole, uova di trota e cioccolato in scaglie. Chiacchiere giustificate: è il prezzo dell’audacia.
Con la magistrale e rituale torta di mele con gelato allo zabaione e gemme di pino di Paolo Donei della già citata Malga Panna chiudo, in bellezza, ed è il momento di tirare qualche somma:
- Se leggete gourmet, per favore, smettetela di raccontarvi “ah ma allora di sicuro torno a casa con il portafoglio vuoto e la pancia pure”*, chiaro?
- La Val di Fassa – pur non essendo il primo oggetto delle moine della critica pettinata – gode di una ricchezza gastronomica d’altissimo profilo, specie perché, paradossalmente, nella sua granitica solidità risulta terribilmente attuale.
- I cantatori di yodel esistono davvero, e hanno le gote rosse
*Posizione supportata da fatti: una banconota arancio valeva 7 ghiotti e ricercati piatti e rabbocchi di Trento DOC finché c’era fegato, o buonsenso.
Puoi trovare qualche informazione in più sull’evento qui:
www.fassa.com/IT/Eventi-in-Val-di-Fassa–Dolomites-Top-of-the-Chefs-Pozza-di-Fassa-Moena