Testo di Ilaria Mazzarella
Foto cortesia Tenuta Borgo Santa Cecilia
“Ehi, Juno!” è scodinzolante e festosa l’accoglienza di questo simpatico lagotto-mascotte a Tenuta Borgo Santa Cecilia. Cane fortunato lui, che corre libero in uno sconfinato spazio all’interno della riserva Faunistico Venatoria di Pietramelina-Montelovesco. Solo l’azienda conta trecentoventi ettari di boschi e campi, ma il consorzio di cui fa parte ne conta ben 1600 totali. Due passi a piedi, insomma. Un antico Borgo immerso nei boschi ristrutturato e trasformato in resort, che prende in prestito il nome del Santuario di Santa Cecilia, ancora vivo e gelosamente curato dai fedeli.
“Fino a qualche tempo arrivavano qui per caso frotte di persone perché eravamo gli unici nel circondario ad avere una stazione di ricarica Destination Charging di Tesla”. Sorride Giuseppe Onorato, quando ripensa agli inizi. Che racconta senza inutili fronzoli e un accento impossibile non riconoscere. “Sono romano sì. Di Cerveteri a dir la verità, ma i miei di origine calabrese. La mia famiglia lavorava nell’edilizia e abbiamo cercato a lungo uno spazio per creare una dimensione come questa”. Oltre la metà di Tenuta Borgo Santa Cecilia fa parte di Rete Natura 2000, un progetto europeo per la difesa e il mantenimento della biodiversità. L’habitat caratteristico, tutelato e ben conservato, è unico nel suo genere. In quanto zona protetta, gli animali selvatici vivono e si riproducono liberamente. Facile scorgere un fagiano che staziona in mezzo a un sentiero o una lepre che corre. Soprattutto sul far del giorno e al calar della sera. “Guarda là, c’è un capriolo!” e l’ora dell’aperitivo si trasforma in un romantico animals watching, il ritmo della natura cadenzato solo dai cin-cin dei bicchieri.
Il rispetto della natura è un mantra: la caccia periodica viene regolata secondo il metodo dell’abbattimento selettivo, sotto stretto controllo delle autorità umbre, proprio per mantenere l’equilibrio biologico tra specie. Per questo motivo, le carni provenienti dalla caccia di selezione a caprioli e cinghiali sono doppiamente pregiate. “All’interno di un’azienda faunistico venatoria devi avere almeno 300 ettari per andare a caccia – spiega Giuseppe – i cacciatori autorizzati dalla regione sono inseriti in una apposita lista. Ci sono tre guardiacaccia a tutela della fauna selvatica”. Ma non solo caccia. “L’attività più coinvolgente a portata di mano a Tenuta Borgo santa Cecilia? Vivere la natura. Non consiglio mai di restare una notte sola, perché il Borgo va vissuto. Siamo in mezzo al nulla, con gli animali selvatici che vengono quasi a bussare alla porta, solitamente al tramonto.
Quando sei qui dimentichi il cellulare, la frenesia e il frastuono della città. Lo sguardo è aperto, rilassa anche solo osservare il panorama e ascoltare i rumori delle stagioni. Qui si vive una vacanza che rimette in contatto con i propri ritmi. Molti nostri ospiti dopo due o tre giorni ripartono completamente rigenerati. Riuscire a trasmettere l’atmosfera della campagna, per me è già una enorme soddisfazione – racconta il proprietario Giuseppe Onorato. Servizi e comfort non mancano. C’è il Wi-Fi satellitare, la piscina idromassaggio in giardino, il noleggio mountain e-bike (senza pedalata assistita solo per chi è temerario e anche allenato: è davvero dura!), passeggiate meditative e caccia al tartufo. La fervida intraprendenza di Giuseppe è sempre in moto e progetta di realizzare altri alloggi che vorrebbe aggiungere alle cinque boutique room presenti nella struttura. “Sono anni che studio gli Eco-Glamping (una crasi tra camping e glamour, ndr) realizzati in tutto il mondo, un settore che mi affascina moltissimo: vorrei creare qualche camera in più e dare la possibilità di vivere esperienze reali all’interno del bosco. Ancora da decidere il tipo di struttura e dove collocarla”.
Azienda agricola, allevamento estensivo e norcineria
I binari dell’azienda: sostenibilità ed ecologia. Gli appezzamenti sono coltivati a cereali, foraggi e ulivi. Una parte del raccolto, che comprende grano, farro, orzo, avena, ceci, lenticchie, piselli, favino ed erba medica viene usato per nutrire galline, maiali e agnelli allevati esclusivamente allo stato brado. I frutti del raccolto e i prodotti derivanti dagli allevamenti, oltre che per la vendita, vengono utilizzati per rifornire la cucina sostenibile del ristorante del Borgo. Inoltre, grazie agli impianti fotovoltaici, viene usata energia rinnovabile e la struttura viene riscaldata solo tramite biomassa legnosa, materiale eco-sostenibile a impatto zero. Questi spazi incontaminati e puri dell’Umbria sono il luogo perfetto dove crescere animali allo stato brado che qui si nutrono esclusivamente delle coltivazioni aziendali foraggere, cerealicole e leguminose in regime di agricoltura biologica. I maiali presenti in azienda sono di razza Duroc e Cinta senese.
“Stiamo facendo tentativi di incroci tra razze: quel che è certo è che i salumi del Cinta senese puro sono troppo grassi, mentre un incrocio con il Duroc presenta carni con un maggiore equilibrio tra parti magre e parti grasse”, puntualizza Giuseppe. Nella stalla c’è una scrofa che ha appena sfornato 15 maialini che accudisce gelosamente. Ma dov’è la stanza delle meraviglie? Sì, proprio quella dove vengono stagionati i salumi. Qui siamo molto-molto lontani dal main stream (e menomale). Niente conservanti, salse o componenti chimici. Non si nasconde nulla. Solo quello che serve per produrre salumi di qualità: carne, sale, spezie. E tanto amore, quello serve sempre per fare le cose fatte bene. Una stanza protetta dal sole e dal calore, all’interno del Borgo, lo scrigno dei salumi artigianali stagionati dell’azienda. Ma prima di entrare, giusto sul ciglio della porta, facciamo un passo indietro. E a sud, parecchio a sud.
Immaginiamo la Calabria contadina dove la tradizione familiare della lavorazione del maiale era una vera e propria istituzione. Il metodo di lavorazione parte proprio dalle radici calabresi della famiglia di Giuseppe fino ad arrivare alla tradizione norcina moderna. Dalla “veracità” di Papà Antonio fino alla ricerca e all’innovazione di Marco e Giuseppe, che hanno trasformato il rito di famiglia in un prodotto d’eccellenza. Adesso possiamo entrare. Accuratamente appesi si alternano salumi, lonzino, capocollo, pancette, guanciali, prosciutti sgambati (per il taglio a macchina). Capitolo a parte il prosciutto, quello con l’osso s’intende. “Rispetto agli altri, noi cerchiamo di non avere fretta, gli lasciamo tutto il tempo che serve per arrivare a realizzare qualcosa che non c’è (sul mercato). È lo stesso procedimento di cura che si fa con il vino. Oltretutto le grandi pezzature dei nostri maiali si prestano piuttosto bene alle stagionature. Insomma, il nostro prosciutto non ha proprio nulla da invidiare a quello spagnolo”. Una mera questione di marketing, come con altri nostri fiori all’occhiello ingiustamente deprezzati. Cura e pazienza per raggiungere stagionature di oltre 4 anni.
Come prodotto artigianale la quantità sono limitate (ci aggiriamo sul consumo di circa due prosciutti l’anno, per ora) e i tagli sono tutti differenti. La natura non lavora in serie e sicuramente senza macchinari industriali. Il prezzo è in linea con la qualità, ovvero 120 euro al chilo. “Facevamo salumi da tempo, ma con la pandemia abbiamo messo il turbo e abbiamo affinato la produzione per allestire un e-commerce ad hoc”. Ma come funziona esattamente? I maiali vengono portati al mattatoio e vengono restituiti a mezzene o a quarti, si fanno un paio di giorni di cella e poi si iniziano a lavorare. Per circa due giorni ci si occupa prima della sezionatura dei pezzi, poi della salata (sale, vino e aceto, talvolta un po’ di pepe) per un tempo a discrezione della pezzatura delle varie parti. Il giorno successivo si pulisce bene dalla cotica, si prende il pentolone per la cottura della coppa, mentre si assemblano salsicce e salumi (“noi prediligiamo più grasso che magro perché il nostro grasso ha un valore aggiunto, non è quello industriale”). Poi si tagliano, si rifilano e si mettono sottovuoto. Discorso a parte quello dell’affumicatura, che è un’altra filosofia del verbo sta-gio-na-re. “Per quelle che sono le mie origini, dove il prosciutto non si fa perché non c’è la cultura di aspettare, la stagionatura si fa anche con il fumo e quella è davvero un’arte. Vedi mio padre (che non fa il norcino, ma si diletta con ottimi risultati) che fa una ‘nduja affumicata, impastata a mano e tagliata a coltello, che è la fine del mondo. Ve la faccio assaggiare ma non è in commercio”. E qui si spegne ogni speranza di poterne ordinare a chili una volta lontana da qui. Peccato.
Il Ristorante
“Siamo partiti da zero io e mia moglie Serena – ammette Giuseppe – ma che dico mia moglie. Era la mia fidanzata all’epoca. Poi quando ha deciso di seguirmi da Roma in questa follia ho pensato: ma chi sei tu? Ma io te sposo!” Lui ha mantenuto la promessa e sono convolati a nozze. Ma anche lei ha mantenuto la passione, quella con cui lavora ogni giorno da sette anni, squartando maiali da sola con una certa soddisfazione. Si chiama Serena Sebastiani ed era (un tempo) una studentessa di Lettere e Filosofia. “Venire stasera a Borgo Santa Cecilia? Ma devo dare due esami, come faccio?”. E niente, lui aveva già preso due prenotazioni. E Serena ha accolto la sua follia. Ed è corsa a cucinare. Ma è ancora qui e questo è decisamente eloquente.
“Se ripenso agli inizi mi sembra sia stato davvero tutto assurdo, un cambio di vita totale, tornando indietro mi chiedo davvero come abbia fatto ad accettare senza remore questa scommessa”. Da quel giorno ne sono cambiate di cose. Tanto per cominciare in cucina è arrivato un ragazzo davvero bravo, Alessio Pierini, trentacinquenne chef eugubino (da poco papà). È un allievo della Scuola di Cucina Italiana Alma con diverse esperienze lavorative alle spalle in Italia. La svolta quando decide di tornare nel suo paese d’origine, a Gubbio nel 2019, dove incontra Giuseppe e il progetto del Borgo lo entusiasma. Può lavorare a stretto contatto con la materia prima, senza intermediari. È libero di sperimentare, trarre ispirazione dal bosco, riflettere sulle tradizioni e i prodotti del territorio, proporre piatti che pensano alla sostenibilità delle preparazioni. Senza dimenticare creatività e tecniche di cucina. Il risultato? Piatti veri, pieni di conoscenza dove gli ingredienti sono resi protagonisti.
“Sto cercando di rendere nel sapore cosa significa per me l’Umbria – racconta – È un insieme di ricordi di famiglia e tradizione. Con un pizzico di contaminazioni asiatiche e mediorientali, perché mi piace proporre piatti vivaci e terreni allo stesso tempo. Il Tonno di coniglio e verdure tsukemono è nato dal modo in cui mia nonna usava conservare la lepre proveniente dalle cacciate, sott’olio, messa in vaso per essere mantenuta più a lungo”. Ma c’è molta consapevolezza anche del contesto.
“Voglio tornare a cotture più tradizionali, al fuoco e al carbone. Vivere questo ambito agricolo e selvatico mi impone il rispetto delle carni che serviamo. Utilizzo ogni sezione dell’animale, completamente; cerco sempre di mantenere in carta un piatto in cui impiego il cosiddetto quinto quarto. Ho pensato così lo Spaghetto bottarga di cuore di capriolo ed elicriso: in agosto, quando i fiori della pianta sono al loro apice e le gemme nuove vengono visitate dai caprioli più giovani, nati qualche mese prima. Lavoro il cuore come fosse una bottarga di pesce, macerato ed essiccato da una spinta al sapore dell’aromatica; si crea un contrasto dove prevale l’amaricante. La Tagliatella porro bruciato, buccia di pecorino e brodo di zafferano è tra i miei preferiti”.
In carta sono presenti proposte attente alla sostenibilità, meritano menzione la selvaggina e i vegetali dal bosco. Il piatto senz’altro più riuscito è lo spaghetto bottarga di cuore di capriolo ed elicriso, il vero piatto signature del ristorante sia per la sua coerenza sia per l’incredibile timbro bucolico che risuona a cassa dritta e soddisfa il palato a ogni boccone. Nel nuovo menu troviamo il Lardo cotto nel miele con il suo dashi di bosco, una spuma di fegato di cinghiale e ghiande tostate oppure il Maiale in stile orientale con umeboshi d’albicocca, kombucha e bietola; il Piccione al ginepro fermentato, topinambur, erbe e germogli.
Svestiti i panni del norcino, Giuseppe assume anche la gestione della sala. Ruolo che gli calza molto bene, con la passione contagiosa per il vino (tra l’altro è sommelier) e i modi garbati. “La carta dei vini rispecchia la mia eterna ricerca della qualità e la volontà di instaurare rapporti diretti con la proprietà delle Cantine. Mi interessa conoscere chi dedica la vita al vino, per trasmettere a tavola un racconto, una storia che si legge con il naso e con la bocca”. Sì, lo è decisamente. Uno di quei posti che vale il viaggio.
Tenuta Borgo Santa Cecilia
Frazione Montelovesco, Strada Provinciale 206 al km 15
06024 Gubbio (PG)
Tel. +39 075 925 2157
www.borgosantacecilia.com