Testo di Sara Porro
Foto cortesia di Nobuya
La cucina giapponese non è un santino, non è di plastica come i sampuru, i modellini in vetrina che mostrano ai potenziali avventori la replica dei piatti serviti dentro il locale: anche se merita rispetto, è sempre viva, come una lingua. In Italia, la grande distanza geografica e culturale ha spesso fatto arrivare una versione già imbastardita, americanizzata della cucina giapponese, in particolare del sushi; come il California Roll che – con surimi, avocado, cream cheese – è stato per molti di noi droga di passaggio verso un cibo giapponese più identitario. Se oggi la Cina non è diventata più vicina (anzi); si è però avvicinato il Giappone: il volo aereo è lungo ma spesso abbordabile, e soprattutto il paese – complice una debolezza storica dello yen – è una destinazione sempre più frequentata dai turisti occidentali (e i giapponesi cominciano a soffrire di tutti i mali dell’overtourism).
Così, cominciamo a conoscere meglio anche la cucina giapponese, che in particolare a Milano conta ormai alcuni avamposti di livello eccellente: l’ultima aggiunta a questo elenco in termini di tempo è Nobuya, in via San Nicolao, 3a, pienissimo centro tra piazza Castello e Corso Magenta, aperto ad aprile dello scorso anno. Il nome del ristorante è in realtà… un cognome: quello di Niimori Nobuya, classe 1973, che per i suoi cinquant’anni si è regalato un’insegna che è il coronamento di una carriera. Nativo di Tokyo, Nobuya comincia la sua formazione secondo le tecniche giapponesi, per poi iniziare a lavorare in un ristorante italiano: è un colpo di fulmine, tanto che ormai oltre 20 anni fa lascia il Giappone e si trasferisce in Italia. Dopo un passaggio da Nobu Milano, diventa un nome noto in città grazie al ruolo di chef di Sushi B, progetto di ristorantone elegantissimo in via Fiori Chiari che chiuderà nel 2018 (negli stessi monumentali locali ha aperto ora Vesta Fiori Chiari). Per un po’ si dedica alle consulenze, ma infine eccolo qui: insieme all’imprenditore di origine cinese Andrea Lin, proprietario di una decina di locali fusion nella provincia lombarda, Nobuya ha trovato finalmente casa. La chiama – in modo programmatico – “casa di due culture”, perché ormai la sua doppia identità, anche culinaria, è radicata; e lo chef ha maturità sufficiente per padroneggiare questa prospettiva meticcia.
A livello pratico: gli ingredienti provengono dal luogo del mondo in cui sono migliori (gamberi rossi e viola dall’Italia, capesante da Hokkaido, king crab dall’Alaska) e alcuni piatti sono molto riconoscibili – e molto ordinati dalla clientela old money (gli abitanti della zona) e new money (grandi frequentatori dei ristoranti giapponesi di lusso) – come Uramaki di gamberi in tempura e Tataki di salmone scozzese. Ma l’impronta più personale di Nobuya è in piatti meno immediati, che spesso rispondono all’idea di mescolamento di tradizioni; come Ushio shiru – una sorta di “brodetto” alla giapponese – di scorfano, calamari, vongole, cozze e verdure, o l’Anguilla kabayaki (cotta allo spiedo), un Donburi (riso in ciotola) che corrisponde a un ideale di comfort food elevato. Ci sono due menu omakase – uno tradizionale, e un secondo vegetariano – entrambi di 8 portate; in cui la scelta identitaria dello chef prevale nella proposta rispetto alla cucina giapponese più classica.
Questo è forse il singolo maggior contributo originale che Nobuya apporta alla scena dei ristoranti giapponesi in Italia: una proposta che rimane pienamente nell’alveo della cucina giapponese in senso proprio (a differenza di – per citare due nomi di ristoranti eccellenti – Tokuyoshi e Aalto) ma dove l’autorialità dello chef è pienamente visibile. Non “la” cucina giapponese, allora, ma la cucina di un grande cuoco giapponese.
Nobuya
Via San Nicolao, 3a
20123 Milano (MI)
www.nobuya.it