Testo di Raffaella Prandi
Foto cortesia di Feudi di San Gregorio
Ben protetti dalle vetrate di Marennà, il ristorante appollaiato sulla cantina astronave di Feudi di San Gregorio, osserviamo il vento e la pioggia sferzare la valle che si apre quasi totalmente ai nostri occhi: colline, boschi di castagni, ulivi e, sullo sfondo, Sorbo Serpico. È il paesaggio della verde Irpinia dove la pioggia è di casa almeno cento giorni l’anno e le escursioni termiche tra giorno e notte arrivano anche a venti gradi. Clima del nord, insomma, atmosfere dark – pur nel profondo Sud – a pochi chilometri dal mare, in pieno Mediterraneo. Ma è proprio grazie a queste condizioni climatiche e alle caratteristiche vulcaniche dei suoli (e non solo, come presto vedremo) che i vini di questo distretto hanno caratteristiche del tutto peculiari. Qui si trovano le tre grandi varietà autoctone, Fiano di Avellino e Greco di Tufo a bacca bianca e Aglianico a bacca rossa. Nel caso di Feudi di San Gregorio sono 300 ettari di vigneto, di cui 180 di proprietà e il resto di conferitori, articolati in più di 800 particelle.
Già, perché i vigneti sono quasi tutti di piccole dimensioni, sparsi tra boschi, impianti di nocciole o di frutta, uliveti, con altitudini, pendenze ed esposizioni differenti e filari alloggiati tra i comuni di Tufo, Taurasi e Santa Paolina. “Fare un vino in Irpinia – dice Pierpaolo Sirch, direttore di produzione della Maison che da anni si divide tra Friuli e Campania – è come creare un mosaico in cui ogni tassello è diverso dall’altro e cambia di anno in anno”. Ed è proprio Sirch, sostenuto dall’illuminata visione della famiglia Capaldo (con Antonio, il presidente, a fare da front man) ad aver messo la firma su quella rivoluzione che Feudi, brand vinicolo esportato in tutto il mondo, sta portando avanti da una decina d’anni. Una rivoluzione lenta, con passo ponderato come quello, obbligato, di chi percorre i più impervi sentieri di trekking, per risparmiare il fiato sì, ma anche per non trascurare, durante la salita, la bellezza di un sasso, uno scorcio di paesaggio, la piega di un arbusto. Un passo in modalità ascolto. E l’ascolto, in questo caso, riguarda proprio il territorio irpino, le sue vigne, spesso centenarie, di cui Feudi, fazzoletto dopo fazzoletto, sta mappando e archiviando il patrimonio genetico per restituire questa conoscenza ai vini della casa.
Intendiamoci, non che la mappatura sia una novità in assoluto, ma in questo territorio così complesso cangiante e ricchissimo di biodiversità ha una ragione in più di esistere. Il terremoto dell’80 ha devastato la regione, ma ne ha lasciato immutata la bellezza paesaggistica che ha oggi tante buone ragioni per farsi scoprire. E, malgré tout, ha anche disarticolato in parte il pericolo che la regione si allineasse nella gara muscolare corsa negli anni Ottanta da altri distretti vinicoli. Non a caso, l’inquinamento varietale, ovvero l’impianto di varietà internazionali come il merlot o lo chardonnay, è praticamente inesistente. Certo, il vento dell’omologazione, ha soffiato anche in queste contrade (e con risultati mica male: basti pensare al Patrimo di Feudi, un merlot in purezza che ha raccolto nel 2000 premi a man bassa dalle migliori Guide del paese). Ma è stata una stagione, appunto.
Il fatto è che quando i Tignanello o i Gaja si mostravano in tutta la loro potenza, qui si stavano raccogliendo le macerie del terremoto, ivi compreso lo spopolamento agricolo. Paradossalmente proprio l’emigrazione ha fatto sì che la cultura vitivinicola di chi rimaneva fosse preservata. La viticoltura intensiva non ha attecchito e le vigne sono ancora collocate dove sono sempre state, dove un’antica sapienza contadina le aveva piantate, nelle zone più ventilate, più drenate, più adatte alla vite. È così che anche il patrimonio genetico dei vecchi vitigni è rimasto intatto rivelandosi oggi la vera forza dell’Irpinia: la diversità genetica tra una vigna e l’altra. La rivoluzione di Feudi, portata avanti con il Progetto Feudi Studi, è proprio quella di codificare e tracciare ogni singolo appezzamento e di trattarne le uve separatamente mettendo a confronto quelle prodotte nei diversi quadranti, sia che si tratti di Aglianico, di Fiano o di Greco. In pratica, un focus su ogni parcella, uno zoom che via via si stringe fino a scoprire anche gli aspetti più antropologici, folkloristici. Uno studio dei toponimi che non sarà interessante solo per Feudi ma, potenzialmente, per tutto il territorio (chi volesse approfondire la questione non ha che da seguire il lavoro editoriale in quattro volumi di uno dei giornalisti più accreditati del settore, Paolo De Cristoforo).
Prendiamo allora il Greco di Tufo le cui vigne sono sparse in otto comuni avellinesi. È l’area in cui un tempo si estraeva lo zolfo, l’area più aperta, in un certo senso anche la più omogenea. Ma è anche l’areale che più di altri risente del cambio generazionale, con i giovani che se ne vanno, che rifiutano di massacrarsi in vigna e dove la viticoltura sta scomparendo. Per motivare i giovani a rimanere a svolgere il lavoro dei padri e dei nonni, per tenere i contadini a casa propria, Feudi stipula oggi con i conferitori contratti quinquennali con l’acquisto di uve a prezzi crescenti. “Perché, spiega Sirch, chi è proprietario tratterà il vigneto sempre meglio, si farà garante per te. Tra i nostri conferitori ci sono 150 piccoli produttori, spesso anziani che seguono metodi di coltivazione, potatura e raccolta che non possiamo permetterci di perdere. Questi contadini sono dei gran parlatori e custodiscono una memoria preziosa. Noi dobbiamo essere in grado di raccoglierla, preservarla e raccontarla”. È lo spirito di Feudi Studi, un metodo di ascolto degli uomini e del territorio. E per una Società Benefit il primo valore (oltre al profitto, ça va sans dire) è aiutare il territorio, creare valore condiviso.
Il Greco di Tufo, dicevamo, capace di succhiare ogni sfumatura di queste colline ma capricciosamente incapace di adattarsi, a differenza dell’Aglianico ormai piantato in tutto il mondo, ad altre zone di coltivazione. Le differenze tra un comune e l’altro, con altitudini variabili dai 300 ai 700 metri, si trasferiscono in vini diversi per profumi, sapidità verticalità: quelli di Chianchetella (l’area vicina alle miniere di zolfo sopra il paese di Tufo dove da quattro cinque vigneti si produce in prevalenza il Goleto, un Greco Riserva, vino di punta dell’azienda), sono differenti da quelli della zona di Nassano o di Arella. “Vendemmia dopo vendemmia, anche semplicemente osservando le uve e assaggiando i mosti, ci siamo resi conto che potevamo mettere in bottiglia tutta questa diversità. A differenza del passato anche nei consumatori c’è la voglia di provare cose non omologate, di scoprire vini nuovi”, racconta Antonio Capaldo. Da questa consapevolezza sono nate le Selezioni, per ora un progetto sperimentale di 2mila bottiglie (su una produzione complessiva di 3milioni e 800mila bottiglie). “Ma il potenziale c’è e lo dimostra il fatto di quanti vini importanti in Irpinia sono venuti fuori in questi anni da produttori che lavorano solo in specifici quadranti e che quindi fanno dei cru per definizione”. Basta del resto sentire anche la differenza tra due cru di Aglianico: un Taurasi Rosamilia e un Taurasi di Candriano, prodotti in due vigneti che Feudi possiede in comune Castelfranci corrispondenti ai toponimi Vallicelli e Baiano, distanti tra loro in linea d’aria due chilometri: il primo generalmente più elegante e fruttato, il secondo più speziato e terroso.
Pura testimonianza, per ora. Ma Feudi Studi è il laboratorio dei vini di domani. E non solo. Questa stessa filosofia si è trasferita a tutto il “pacchetto” Feudi a cominciare proprio dal ristorante dalle cui vetrate, tra la pioggia, vediamo allungarsi le vigne del Fiano. Il restyling è stato affidato a Roberto Liorni, l’architetto che ha firmato innumerevoli concept vincenti nel mondo della ristorazione e dell’accoglienza. Anche qui Liorni ha lasciato il segno dando voce, attraverso il Teatro del vino, a quello spirito di comunità che anima la rivoluzione di Feudi. L’aula a gradoni è una struttura in legno, aperta, leggerissima, trasparente, coerente con la vasta apertura sulla valle. Accoglie 50 persone sedute e 80 che possono trovare posto ai sette tavoli sociali ricavati da vecchi tavoli per la lavorazione delle ceramiche. Quasi una sala di consiglio assembleare dove riunire, in via teorica ma anche pratica, le dinastie agricole del vino irpino. Feudi vuole essere un centro di formazione per le nuove generazioni e questa tribuna ne è idealmente il cuore.
Il Teatro si apre su un lungo bancone, funzionale a tanti ruoli: una cattedra da dove condurre le degustazioni ma anche snodo per l’aperitivo prima dell’approdo ai tavoli del ristorante che godono della vista sulla immensa cucina (dove sovraintende Roberto Allocca, chef di importante caratura a livello nazionale) aperta sulla sala. Proprio al centro della sala, il cosiddetto “Nido”, è una trovata architettonica per richiamare la campagna e il paesaggio con le pareti disegnate da polloni orizzontali di castagno disposti in ottagono con quattro aperture e un tavolo centrale illuminato da un meraviglioso lume (ottenuto dalla struttura in legno di un antico rotolo utilizzato un tempo nelle cartiere).
Il dentro e il fuori si parlano. Non foss’altro perché proprio dalle vetrate intravvedi anche l’orto aziendale con aiuole intervallate da file di alberi da frutto ed erbe aromatiche. A fare da cinghia di trasmissione tra la ricchezza del territorio e le proposte della ristorazione e quindi dello chef Allocca è Marco Gallotta, il professionista (con una lunga esperienza anche lui da chef ma oggi votato alla scoperta di produttori e prodotti nonché alla conoscenza delle pratiche agricole sottese) scelto dall’azienda per la perlustrazione gastronomica nelle contrade irpine e la supervisione dell’orto che trae linfa dalla stessa nuova visione aziendale (il sistema di produzione è organico rigenerativo con alto rendimento produttivo a sistema bio-intensivo). Sono stati scelti ortaggi e alberi da frutto che meglio si adattano alla zona anche qui con un lavoro di ricerca sulle specie autoctone del territorio e con collaborazioni scientifiche per recuperare alcune specie ormai dimenticate attraverso la creazione di una rete con vecchi contadini, università, banche del seme.
L’idea? Valorizzare la figura del contadino portandola alla pari con quella dello chef di cucina, quantomeno nella cultura gastronomica. Perché, come c’è uva e uva, c’è ortaggio e ortaggio. E tutto passa dalla sapienza di chi coltiva, raccoglie e trasforma. Rivoluzione lenta, ma che sta già dando molti frutti.
Feudi di San Gregorio
Località Cerza Grossa
83050, Sorbo Serpico (AV)
Tel: +39 0825 986675
www.feudi.it