DNA Mammoliti. Tra rigore tecnico, botanica e affettività evocativa
Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Davide Dutto
“M: Ami la tua pianta, non è vero?
L: È la mia migliore amica. Sempre felice, niente domande ed è come me, vedi? Senza radici.
M: Se l’ami davvero, dovresti piantarla in mezzo ad un prato in modo che le metta le radici.
L: Già.
M: È me che devi innaffiare se vuoi che cresca”.
Luc Besson – Léon The Professional
La luce del tramonto su Guarene mozza il fiato e taglia l’orizzonte. Incastrandosi dolcemente tra una schiera di piantine di ennemila varietà di pomodoro seminate in fila come soldatini. A illustrarcene vita, morte e miracoli – nel nostro itinere bucolico baciato dall’estate langarola – c’è Michelangelo Mammoliti: cuoco dal pollice verde alla guida del ristorante resort La Madernassa.
Da un po’ di tempo infatti, questo chef piemontese (dal percorso talentuoso ultra-consolidato) si dedica in maniera semi-maniacale alla cura di un orto che si sviluppa su più livelli. Coltivato con metodo bio a sua immagine e somiglianza. Oltre 120 varietà di erbe piantate intorno alla struttura e raccolte ogni mattina. A cui si accostano le officinali spontanee e i vegetali monitorati sia in serra che en plein air, secondo logica glocal. Della serie: il terroir fa da incubatore naturale e incondizionato, ma sementi e tipologie ortofrutticole vengono scelte e selezionate da tutto il mondo. Secondo la sensibilità, l’estro e il pensiero di Mammoliti. Ora, ammirare questo cuoco poco più che trentenne trotterellare leggiadro – con l’entusiasmo di un bimbo al parco giochi – lungo i perimetri dell’orto mi riporta un bizzarro parallelismo con il protagonista del cult movie di Besson.
Non prendetemi per matto, non voglio certo asserire che Michelangelo sia un serial killer. Ma chi lo conosce, anche superficialmente, non fa fatica a percepire il rigore inflessibile e retto che lo accompagna in qualsiasi gesto culinario. Insomma, non farei fatica a immaginarlo tracannare bicchieroni di latte prima di una serie infinita di addominali (nel suo caso macinare chilometri in bici per le Langhe), o nell’assemblare un AK-47 in religiosa metodicità. D’altronde – complice l’impronta francofila – una scuola di formazione sotto nomi del calibro di Ducasse, Gagnaire, Alleno, Meneau (ancor prima Marchesi & Baiocco) non lascia dubbi sull’imprintingdevoto alla disciplina che marchia il DNA di questo cuoco.
Eppure proprio come Léon – sotto la scorza dello sniper provetto, impassibile e incapace di scomporsi in qualsiasi missione – anche Mammoliti cela i suoi tratti di morbidezza emotiva che vertono alla levità d’animo. Per l’eroe/sicario del film erano la sua piantina e successivamente la bellissima Natalie Portman nei panni di Mathilda. Per Michelangelo, possiamo azzardare, si ritrovino nel suo playground botanico e nel valore evocativo rivolto alla cucina. Se c’è infatti un aspetto caratterizzante del suo stile, che è stato portato avanti e rifinito con metrica scientifica, è proprio quello diretto al fattore memoria insito nei piatti. Perché, se è vero che in questo ambito Mammoliti allenta i freni del tiratore scelto, è altrettanto chiaro come proprio non riesca a slacciarsi da un approccio perfezionista e introspettivo rivolto al suo lavoro.
Così, aggrappandosi a filosofie proustiane e agli studi del neurobiologo di Yale Gordon Shepherd, Michelangelo ha sbobinato gli impulsi mnemonici e sensoriali rivolti a sapori e ricordi olfattivi che emergono dai singoli assaggi. Integrando questo tabulato esperienziale alla costruzione delle sue portate, confrontandosi tête-à-tête con la psicologa Francesca Collevasone. Il risultato non è ostentato o disturbante, al contrario va a lenire e smussare in chiave sottile tutto il bagaglio tecnico e rigoroso intrinseco di questo chef giovane-adulto. E che possiamo dirlo: a tratti intimorisce quasi per il livello estremo che riporta in ogni esercizio.
Si, il tenore di perfezione esecutiva trasmessa in ogni pietanza, testura o salsa è a dir poco disarmante per il lasso anagrafico in cui rientra Mammoliti. E circoscrive senza limiti ogni tappa del suo excursus professionale, dei suoi vagabondaggi all’estero, delle sue passioni e velleità gastronomiche. Tratteggiando una personalità radicata nel territorio piemontese, nei ricordi intimi del suo vissuto, ma al tempo stesso priva di effettive radici irremovibili. Muovendosi con disinvoltura tra passaggi dai rimandi francesi, incursioni nipponiche, thai e asiatiche. Fondendo il neoclassico al moderno senza dislivelli identitari. Mai legato a quei dogmi tradizionali che qui in Langa invece risultano a volte fin troppo ingombranti. Ma tutta questa matassa di rigidità tecnica, viene puntualmente spalleggiata da richiami ludici e affettivi. Che rasserenano l’assaggiatore, riportandolo in una comfort zone meno celebrale e più riconoscibile alla pancia.
In tavola, dopo una sfilza di canapè confezionati col cesello, si saltella a ritmi sostenuti nei tracciati di vita e nei meandri creativi del cuoco. Dal suadente e setoso Dumpling di maiale avvolto da zuppa di miso (in bilico pregevole tra Asia & Piemonte), all’architettonico Marmoreo: dove un velo di calamaro, ripieno della sua stessa tartare, assimila timbri e strutture di una vorticosa papaia salad d’estrazione thailandese. Evasione, per tornare a casa. Ancora contaminazioni, nell’esaltante Amande: scampo laccato al miele di rododendro con una spruzzata di pregiato caffè Ibo (Presidio Slow Food), crema di armelline e avocado marinato alla cannella e olio di foglie di cardamomo. Candido, cristallino ed esplosivo. C’è tanto spazio al vegetale, decantato senza lesinare sulle descrizioni dal servizio di sala di rango dell’istrionico maître Alessandro Tupputi. Motivato e passionale nell’orchestrare un pairing enologico di carattere, che interpella piccoli produttori e realtà dai volumi di nicchia.
Tornando al cibo, la classe d’oltralpe si fa largo con forza in tutti i fondi e cotture. Per poi esternarsi in completezza nella succulenta Rubra: insalata di spinaci in omaggio a Napoleone che pare fosse ghiotto di questa prima varietà di spinacio scoperta in botanica, esaltata da Michelangelo in un piatto apposito. Ma la memoria del cuoco non tarda ad affermarsi, in veste incredibilmente godibile ed efficace: l’Americanino, spaghetto cotto in estratto di americanino con polvere di pizza bruciata – è un bersaglio centrato, nell’idea di ricondurre la pasta a veicolo di sapori e percezioni ancestrali. Un omaggio al primo ristorante-pizzeria del padre di Mammoliti, dove ha iniziato a interagire con fuochi e fornelli. Poi ancora un ricordo collettivo, che solletica corde emotive comuni: il giocoso e penetrante Pane e mortadella, dove elementi e consistenze trasposte in forma futurista regalano un gusto pieno, immediato e rincuorante al palato. Si chiude con Carpione del ’91, un cenno alla prima cotoletta in carpione mangiata dallo chef – preparata dalla nonna nel ’91 – che assume i tratti carnivori di un manzo dal morso acetico e succoso.
Per approdare in dolcezza a un comparto pasticceria come pochi se ne vedono in Italia. Sofisticato e nuovamente in mano a espedienti tecnici inappuntabili: PH3: un trionfo di agrumi; Gavotte: cioccolato & caffè; Thay & Co: tributo esotico alla Thailandia e una piccola pasticceria da mille e una notte.
Al termine del servizio il rigore sembra evaporare dal volto di Mammoliti, che accenna un sorriso spensierato come quello esibito durante il tour nel suo orto. Se anche i perfezionisti hanno un cuore, quello di questo chef-sniper langarolo è grande. E pompa clorofilla di passioni incontenibili rivolte al suo dinamico ecosistema gastronomico.
La Madernassa
Località Lora, 2
12050 Guarene (CN)
Tel: +39 0173611716