Testo di Luca Martinelli
Foto cortesia di Giunti Editore
L’intervista a una giornalista appassionata di grani e farine e che da anni mette le mani in pasta racconta in un libro il “metodo” per imparare l’arte della panificazione domestica.
“Non penso che si possa fare un buon pane a partire da una ricetta di mezza pagina o di tre quarti di pagina e questo vale soprattutto per chi non ha troppa esperienza. In più, non servono 15 ricette per fare 15 tipi di pane diverso: ci sono tantissimi rapporti di parentela tra i prodotti della panificazione, che sono come grandi famiglie”. Diversi prodotti, quindi, sono riconducibili allo stesso metodo, che è la parola chiave del nuovo libro di Laura Lazzaroni, laureata in biologia, giornalista, per nove anni in Condé Nast Italia, dove ha ricoperto la carica di caporedattore attualità della rivista “L’Uomo Vogue”. Il metodo, ciò che permette di emanciparsi dalla ricetta.
La formula del pane (Giunti, 2021; 288 pagine, 24 euro) è il secondo libro che Lazzaroni dedica al tema, dopo Altri grani altri pani, uscito per Guido Tommasi editore. Due lavori legati tra loro, impastati: “Il metodo è la mia risposta alla ricetta – spiega l’autrice – Quando con Marco Bolasco (direttore della non-fiction di Giunti Editore, ndr) ci siamo trovati per parlare di un possibile secondo libro, sono stata chiara: non avrei fatto l’ennesimo libro con 80 ricette del pane, libri in cui non c’è niente di sbagliato, ma ce ne sono abbastanza e c’era bisogno di qualcosa di diverso. Volevo fare una cosa utile nella pratica, imparentata con il mondo della manualistica, dei sussidiari di scuola. Lo ricorda anche il layout, che è stato progettato magistralmente dallo Studio Forward, da un art director donna, ed è impreziosito dalle fotografie di Laura La Monaca”.
Facciamo un passo indietro, alla genesi della tua passione. Quando hai iniziato a panificare?
All’inizio ho iniziato a mettere le mani in pasta a casa con ricette orrende che trovavo online. Non avevo particolari ambizioni. Oggi panifico anche un giorno sì, un giorno no, faccio 7 o 8 chili per volta. La vera svolta per me è stata quando ho scoperto il mondo dei grani, tra il 2013 e il 2014. È stato il momento in cui ho iniziato a frequentare le Marche, dove ho conosciuto persone come l’agronoma Oriana Porfiri – che insieme al figlio segue alcune realtà cerealicole e sementiere – scoprendo con lei il mondo delle vecchie varietà, o il genetista Salvatore Ceccarelli, aprendomi anche alle popolazione evolutive. A quel punto, mi sono riavvicinata al pane con un’ottica più coscienziosa e attenta alle materie prime, facendo i primi esperimenti con quelle farine che all’inizio erano più difficili da gestire. È stato in quel momento che Gianluca Biscalchin (che dirigeva una collana per Guido Tommasi) mi stimolò a proporre un libro, quello che sarebbe poi diventato Altri grani altri pani. In quel momento esce anche Cooked, di Michael Pollan (in italiano Cotto, pubblicato da Adelphi) e rimango folgorata da come parla di pane, una scoperta legata all’amicizia con Chad Robertson di Tartine Bakery, in California. Da lì è cominciato tutto, da autodidatta e grazie anche a una piccola esperienza di stage nel laboratorio del panificio di Davide Longoni. Ho costruito tutto strada facendo, iniziando poi anche a fare consulenza. L’anomalia del mio percorso, ciò che mi ha portato qui, è parlare lo stesso linguaggio degli home baker ma farlo con esperienze che si sono stratificate e solidificate.
La formula del pane è una sorta di macro-digestione di queste esperienze. Che cosa deve sapere chi si approccia alla panificazione domestica usando vecchie varietà e popolazioni evolutive?
Il rischio di fare disastri è dietro l’angolo, specie se si panifica con farine da vecchie varietà o da popolazioni evolutive, anche se queste sono più gestibili. Il mio diario di panificazione raccoglie alcuni esempi di cosa non fare, come mettere una massa che non fermenta sul calorifero, fino a distruggere il glutine e trovarsi con un blob che cola ovunque. Panificare con altri grani è una sfida, che permette di cogliere due aspetti bellissimi: in un momento in cui siamo tutti appassionati di storie, di persone e di filiere corte, lavorare con questo tipo di farine è perfetto, perché ti porta naturalmente a scoprire storie di “pazzi” – che siano ex avvocati, ex artisti – che sono tornati alla terra. Anche solo fermandosi alla superficie questa è un’ispirazione incredibile e dà gioia lavorare per trasformare le farine che producono queste persone: è una gioia, per me, supportare micro-economie di territorio, sentirsi vicini, capire che si può contribuire. C’è poi un secondo aspetto, non trascurabile, legato al sapore e al gusto. Per capire che un pane è buono, devi sentire il grano, perché se non sa di niente c’è qualche problema. Quando si usano queste farine particolari, questo avviene: ci sono un profumo, un sapore e una persistenza uniche. Ecco perché nel libro scrivo che mischiare cereali antichi e una farina di forza come la manitoba è come andare a correre e poi fumare un pacchetto di sigarette”.
Veniamo al cuore del libro. Perché, anche a casa, serve darsi e seguire un metodo?
Il metodo non l’ho inventato io, ci tengo a ribadirlo. Tutti i professionisti lavorano così. Nel libro ne racconto tre: il primo è quella del pane di campagna a impasto acido, il metodo sourdough mutuato dall’esperienza di Tartine Bakery, forse il metodo più famoso al mondo. Il secondo riguarda gli impasti ad alta idratazione, come quelli per pizza, focaccia o ciabatta. Il terzo, infine, gli impasti arricchiti, come il pane soffice al latte. Per apprendere un metodo, a differenza di una ricetta, bisogna comprendere la microbiologica, la fisica, la chimica organica, la meccanica del pane, gli imprevisti, le scorciatoie e i trucchi. Ma una volta che l’hai fatto tuo, ti emancipi, vai in scioltezza e puoi produrre tutti gli impasti master, a partire dai quali con modifiche più o meno importanti puoi passare a infornare ogni tipo di lievitato. Questo significa anche che in ogni momento puoi mettere su l’impasto e poi decidere all’ultimo se fare una ciabatta o una pizza, oppure di fare entrambe le cose. In questo libro sono condensati anni di esperienze, di scambi, di confronti, di relazioni, anche di chat Whatsapp, in una veste secondo me molto fruibile da chi fa il pane in casa.
Tre metodi per una pasta madre. Parlaci della tua?
Ho da sette anni una madre in crema, e la uso per tutto. Si chiama Cary Grant. La salute della madre è fondamentale: è inutile avere gli strumenti migliori e un forno quasi professionale se poi la madre non mantenuta bene. Sono fondamentali i rinfreschi, da fare tutti i giorni, ed è fondamentale scegliere il momento in cui panificare, perché la madre dev’essere pronta e giusta, non va lasciata inacidire, non dev’essere troppo giovane. Il trucco, che si accompagna al metodo, è preparare la madre nell’ultimo rinfresco: se faccio un pane in cassetta solo con segale integrale, preparo la mia madre (che normalmente nutro con una farina tipo 2) con la segale. Nel caso degli impasti arricchiti con l’aggiunta di burro o uovo, quelli che fanno riferimento al terzo metodo, la tengo un po’ più solida.
Come capire se un pane è riuscito?
Il pane dev’essere ben fermentato e questo permette di lavorare sulla struttura, che è un veicolo del sapore. Va ricercato un equilibrio, parlo in linea generale perché io amo acidità più spinte. In un pane equilibrato l’acidità è al servizio del gusto e non lo copre, non è soverchiante. Si deve sentire il grano, lo dico di nuovo. Se si arrivano a sentire diverse note specifiche, identificabile, meglio ancora. Questo dipende dalle farine ma anche dall’esperienza.