Testo di Claudia van den Berg Morelli
Foto cortesia di ICCJ
Chiamarlo vino non è del tutto corretto, ma è il parallelo più facile che possiamo fare per avvicinarci in punta di piedi a questa strepitosa bevanda millenaria ricca di storia: il sakè. In realtà, è una via di mezzo tra vino e birra, poiché alcune fasi della produzione si avvicinano a quella della birra, mentre l’utilizzo e il grado alcolico assomigliano di più al vino. La cultura del bere sakè ha radici profonde nella cultura giapponese ed è indubbiamente la bevanda alcolica più rappresentativa del Paese.
L’ingrediente chiave è il riso, elemento iconico giapponese, che viene lavorato semplicemente con acqua, koji (Aspergillus oryzae) – un fungo usato per la fermentazione controllata di vari alimenti – e lieviti. Dopo la macinazione e la raffinazione, il riso viene cotto, mescolato con acqua calda e koji e fatto fermentare. Il koji converte l’amido presente nei cicchi di riso in zucchero che a sua volta viene trasformato in etanolo grazie ai lieviti. Il risultato è una bevanda alcolica con una gradazione che varia dai 15 ai 22 gradi, limite oltre il quale non può essere considerato sakè secondo la legge giapponese.
Ma da dove viene?
La storia del sakè è ancora un mistero. In Cina si hanno tracce di un alimento molto simile già nel 4000 a.C., mentre in Giappone si ipotizza un uso soprattutto in riti e cerimonie religiose nel 300 d.C in particolare nello Shintoismo. Ai tempi, veniva prodotto più che altro per il consumo privato, infatti, la fase della macinatura veniva svolta dall’intero villaggio: ogni persona masticava i chicchi riso e li sputava in una grande vasca comune, introducendo con la masticazione gli enzimi necessari alla fermentazione. Solo nel periodo Nara (710 – 794 d.C.), con la scoperta del koji, si inizia a produrre con il fungo. Intorno al 1300 d.C. diventa una bevanda popolare in tutto il Giappone, ma bisognerà aspettare fino all’Ottocento, durante l’Era Meiji (“periodo del regno illuminato”) – un periodo di trasformazione sociale ed economica del Paese e di avvicinamento a un modello Occidentale – per una vera commercializzazione della bevanda. Durante la Seconda Guerra Mondiale però, il sakè subisce un brusco e prevedibile calo per via delle restrizioni sull’utilizzo del riso, destinato a essere consumato come cibo e il governo reagisce autorizzando l’aggiunta di alcol puro e glucosio alla miscela di riso, una tecnica che permette una resa circa quattro volte superiore. Quasi tutto il sakè prodotto oggi si basa su questo procedimento, figlio di esigenze belliche.
Ed ecco che arriviamo a noi.
In Italia, ma oserei quasi direi in Europa, arriva solo una piccolissima parte della grande varietà di sakè prodotto in Giappone e il nostro palato deve ancora abituarsi a integrarlo con i nostri sapori e gusti tradizionali. Ma non sono due mondi diversi e, anzi, il sakè sembra abbinarsi molto bene alla cucina italiana. È chiaro che ci stiamo muovendo in un terreno nuovo e ancora tutto da scoprire.
Sabrina Falconi – co-proprietaria e sake sommelier dei ristoranti Nida e Serendepico a Lucca – ci racconta che (per fortuna) l’interesse nel sakè sta crescendo, non solo nelle grandi città come Milano, ma anche nelle più piccole realtà come Lucca. Nida è un ristorante Giappo-Toscano (ne abbiamo parlato su Cook_inc. 34) che propone piatti a stampo giapponese, ma con delle influenze e dei sentori palesemente mediterranei. “A Nida ormai sakè e vino sono 50/50 – racconta – e ho alcuni clienti che vengono da me proprio per il sakè. È divertentissimo abbinare il sakè ad alcuni piatti del menu degustazione omakase; spiazza la gente, ma ci sta benissimo e piace. Il fatto che venga solo abbinato a piatti puramente giapponesi è un fattore mentale più che di gusto”. Il sakè, infatti, ha un gusto umami, molto più alto rispetto ad altre bevande fermentate e quindi è ideale per esaltare piatti dal sapore intenso.
Come spesso accade con tutte le cose nuove e diverse, a volte il commensale ha difficoltà ad approcciarsi al prodotto e va aiutato. “Il sakè buono è caro, quindi ho studiato delle formule diverse per far avvicinare la gente, ad esempio offrendo diversi sake al calice, o nelle brocchette. Queste molteplici forme permettono al cliente di avere diverse tipologie di spesa e di buttarsi più facilmente”. Il risultato: funziona. Similarmente, Sabrina spiega che, proprio come il vino, alcuni tipi come il ginjo sono preferibili freddi, mentre il junmai è spesso gustato a temperatura ambiente. Ogni specialità di sakè ha una temperatura specifica che ne esalta gli aromi. La logica esiste, ma la conoscenza in questo momento meno e a volte bisogna anche educare il cliente. “La mia missione come ristoratrice è fare felice il cliente e gli andrò sempre incontro per questo, ma se riesco a proporgli qualcosa di nuovo, vinciamo entrambi”, spiega Sabrina.
Il sakè oggi viene prodotto in quasi ogni prefettura del Giappone. La Prefettura di Ibaraki, a nord di Tokyo, è una di queste. Grazie alla caratteristica morfologia che spazia dalle montagne alle pianure all’Oceano Pacifico e comprende una moltitudine di laghi, la prefettura è celebre per l’eccellente e abbondante produzione agricola e in particolare per la coltivazione di riso Hitachi Nishiki, varietà vocata alla produzione di sakè. Esistono molti tipi di sakè, classificati in base agli ingredienti, ai metodi di produzione e al grado di lucidatura del riso. La parte più esterna del chicco di riso non è adatta alla fermentazione e viene perciò rimossa durante il processo di brillatura.
Il Daiginjo Hitachi Nishiki di Ibarkai è prodotto con grande cura per esaltare al massimo le caratteristiche del riso omonimo. Il riso viene levigato fino al 50%, risultando in un sapore pulito e definito. La dolcezza del riso gli dona un gusto morbido. ma con un retrogusto rinfrescante ed estremamente piacevole al palato. Il sakè Tokubetsu Junmai Joho, invece, utilizza il riso da sake Joho (una varietà il cui nome esprime l’augurio che la regione di Hitachi diventi prospera) coltivato localmente. Ha un sapore elegante, ricco di dolcezza e di umami, con un finale leggero, ma netto.
Avendo profonde radici storiche, esistono ancora oggi alcune distillerie di sakè che sono centenarie. Una di queste è Raifuku che si trova a Bando e ha una storia di oltre 150 anni, risalente all’inizio del periodo Meiji. Con una breve chiusura nel 2011, la distilleria riprende la produzione nel febbraio 2017. Il loro Tokubetsu Junmai Shuryoku è prodotto con il 100% di riso coltivato a Bando ed è un sakè caratterizzato da un profumo floreale e un sapore fresco e ha vinto numerosi premi internazionali, tra cui il Grand Prix nella categoria Junmai al U.S. National Sake Appraisal 2021, la medaglia d’argento al Bordeaux Wine Challenge 2021 nella categoria Junmai, e il premio Platinum al Kura Master Paris 2022, sempre nella categoria Junmai.
A partire dal sakè si apre un mondo…
Un’altra bevanda storica e popolare giapponese è l’ume shu: un liquore ottenuto dalla macerazione della ume (prugna ancora acerba e di colore verde, molto pregiata in Giappone) nell’alcol (shochu o sake) con aggiunta di zucchero di canna cristallizzato. L’azienda Hirose Keinosuke, all’ottava generazione, produce un ume shu che utilizza una base di sakè giapponese e una nuova varietà di prugne di Ibaraki chiamata Tsuyuakane. Ha un bel colore rosso e un profumo simile a quello della prugna. Questi liquori di frutta hanno solitamente un grado alcolico più basso del sakè e si trovano in grande diversità, prodotti con frutti diversi come, ad esempio, il Uma La France, a base di pere di qualità La France prodotte in Giappone, oppure il Kumanbachi Yuzu, a base di yuzu (un agrume) che ha una forte sensazione di polpa di frutta all’assaggio.
Magari la prossima volta vi parleremo del whiskey.