Musica, agricoltura & accessibilità nel ristorante stellato di Castelfranco Veneto
Testo di Lorenzo Sandano
Foto cortesia del ristorante Feva
Il valore incontrastato del background anche quando non te l’aspetteresti. “Lo vedi questo ragazzetto qua, sono io qualche anno fa” afferma Nicola Dinato a fine del pranzo, indicandomi un baldo giovine in giubbetto di pelle e attitudine punkeggiante, sulla retrocopertina di un CD. Ora potete credermi o meno, ma quel disco– del gruppo The Jokers – è passato anche tra le mie mani (e le mie orecchie) durante l’adolescenza scapestrata. Sorvolando la simpatica congiunzione astrale, scelgo questo aneddoto per introdurre Dinato per un semplice motivo: è l’unico chef che è stato capace di paragonarmi il suo primo pellegrinaggio a Londra per vedere i Sex Pistols, alla rotta che intraprese verso Roses per lavorare dal leggendario Ferran Adrià.
Nicola è infatti un patito di musica underground alla stregua della passione riversata nel mondo della ristorazione. E così come ha collezionato nel tempo concerti e vinili dei suoi gruppi del cuore – The Clash, David Bowie, Stiff Little Finger, Cock Sparrer, Madness, Buzzcocks – ha raccolto un esorbitante bagaglio di esperienze da alcuni dei più grandi cuochi della scena mondiale. Qualche esempio oltre El Bulli? Ducasse, Michel Roux, Le Gavroche, Grant Achatz e il passaggio Newyorkese da Daniel Boulud. “Mai visto un sistema tentacolare così grande di ristoranti, di team in brigata o volumi di piatti e pane sfornati ogni giorno” ricorda sorridendo. L’aspetto più bello di tutto questo però, è che il suo passaporto musicale, culturale e gastronomico si avverte in chiave sottile senza l’impellenza di esser spiattellato in faccia. Se vi state domandando il perché lo sottolineo, deriva da un fattore per me sempre più importante quando si parla di cucina: la personalità indipendente emanata da un cuoco.
Mangiare da Dinato, infatti non sarà mai un remix ostentato di stili, composizioni o ammiccamenti ai maestri dell’haute-cuisine. Il suo ristorante – il Feva – si colloca ormai da parecchi anni come punto di riferimento stellato per Castelfranco Veneto e per la regione, ma sedervi qui vi spalancherà occhi e palato verso una visione del tutto non-catalogabile di fine dining. È profondamente sua, della sua squadra e della sua compagnia Elodie Dubuisson: proprio con lei ebbe il coraggio di inaugurare il locale – in una fascinosa struttura a due piani – al rientro da una parentesi londinese. Se Nicola non mi avesse sbobinato al termine del pasto il suo portfolio professionale, non avrei avvertito alcuna necessità di paragonarlo agli chef sopracitati. E credetemi è dannatamente bello lasciarsi trascinare da un flusso così identitario. Potevo forse intercettare qualche venatura punkettona, quello così, ma ora come ora è lui stesso a ribadire “Non sono più punk, ormai la mia indole è new wave”.
CORPO, MENTE E ANIMA
E su questo spartito di note esistenziali si propaga il pensiero del Feva e la sua impronta culinaria. Accessibilità gustativa armonizzata da sapori tuonanti e lineari; qualche plettrata di fantasia creativa che definisce l’estetica e l’architettura dei piatti; la connessione spigliata con i generi gastronomici dell’intera sfera terrestre (soprattutto Oriente e Francia) e una sentita salvaguardia delle biodiversità agricole che compongono l’ecosistema indigeno. “Oltre al nostro orto, collaboriamo con altre due realtà biologiche del territorio. Da quest’anno poi, mi sono messo in testa anche di curarmi da solo grani, cereali e farine per la produzione interna” spiega con orgoglio Dinato. Il menu è suddiviso in tre categorie che ricalcano il prospetto fisico ed extra-fisico dell’essere umano: corpo, mente e anima. L’ultima, naturalmente, asseconda un free-style mutevole e impalpabile, essenza della filosofia promossa qui, atta a privilegiare la piacevolezza delle portate nella sua cadenza più cristallina; lasciando che la tecnica, anche quella più spinta, si erga a legante esecutivo, mai adoperata come espediente pleonastico.
Lo confermano i deliziosi Fagiolini in garum e sesamo serviti in apertura a mo’ di edamame nostrani; le possenti Cozze con zabaione salato; o il Salume di sedano rapa ripieno di trota fario marinata, mela verde e pimpinella dal suadente sentore affumicato. Diverte e sollazza il Grissino soffiato con prosciutto crudo marinato al Valdobbiadene e sfera di melone. Una riabilitazione sofisticata dell’ormai fatiscente antipasto estivo all’italiana. Mentre lasciamo accordare le papille, il direttore di sala, Alessandro Poletto, rincara la dose di godibilità con una turbo-Focaccia ai grani antichi da droppare in crema di lardo montato.
Ecco, due parole vale la pena spenderle per questo giovanissimo maître perché è davvero raro pescare un profilo della sua età capace di far duettare un approccio informale con un’estrema professionalità di fondo. Autore di gran dinamismo nel servizio e di un tatto sopraffino nello studio del pairing enologico.
l primo acuto palatale approda in forma di Farinata di ceci e olive nere con falde di centrolofo viola lavorato come un’aringa, yogurt all’aglio e un potpourri di erbe aromatiche e fiori eduli raccolti dal giardino di Silvia Fiorin (una delle produttrici agricole di cui parlavamo prima). L’assaggio è un crescendo incalzante di picchi vegetali dalle sfumature più variegate, rette dalla grassezza fumè del pesce e dalla base croccante che rimanda all’incontro meticcio tra un taco e uno smørrebrød danese.
Il Moscardino “dadaista” irrompe come una saetta salmastra dalle dirompenti tonalità nipponiche: una localissima polenta di mais bianco imbibita al quinto quarto di moscardini sorregge il cefalopode in tempura, l’acidità fruttata dell’uva spina e una spolverata mediterranea di peperone crusco.
Wow! Si ritorna a interpellare la gola con il Toast di coniglio, ‘nduja, limone, tartufo scorzone e crema di zucchine alla scapece. Un risolutivo match organolettico tra un tramezzino veneto e un pulled pork sandwich dallo spiccato accento italico. La mantecatura sinuosa del Risotto Carnaroli al prosecco con ostriche, gelatina della loro acqua, scalogno bruciato e borragine risuona in bocca con salinità emollienti e un substrato francofilo modellato col manico di un fuoriclasse.
Mentre il brano scelto per il main course celebra il quinto quarto sfruttando un pentagramma di rimando al Sol Levante: Rognone marinato, avvolto in foglie di vite e fico, cotto sulle braci del kamado e servito sul manto candido di una panna acida alle mandorle.
La texture coriacea e fondente della frattaglia è sbalorditiva, così come lo scambio di contrappunti elevato dall’innesto arboreo delle bietole e di un impeccabile jus di cottura. L’Ananas al peperoncino aji lemon con gelato al cocco, meringa caramellata e lemon grass – battezzata teneramente Piña Colada – rivitalizza i sensi con brezza esotica; mentre il Tortino di cioccolato al Bbq, namelaka, pralina di nocciole e gelato all’agave pone fine alla tracklist inneggiando a rotondità zuccherine rigonfie di intensità mai stucchevoli.
Sgranocchiando petit-fours e bocconi di frutta ghiacciata, Nicola ci racconta del suo progetto di un circolo gastronomico e culturale di qualche anno fa, in cui tentava di tessere un sistema tra ristoratori e artigiani veneti in quel di Castelfranco. Emerge nitido il collegamento con i collettivi sociali di quel mondo musicale ancora vivido in lui. Così come noi lo sentiamo ruggire forte nell’indole del Feva e della sua anima gastronomica. Anche senza il bisogno di un chiodo o di qualche borchia di troppo. Punk’s Not Dead.
Feva
Borgo Treviso 62
31033 Castelfranco Veneto (TV)
Tel: +39 0423 197565