L’anti-fenomeno della fenomenale trattoria di Diego Rossi & Pietro Caroli a Milano
Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Alberto Blasetti
Viviamo un’epoca in cui cercare di creare o impersonare un fenomeno diviene spesso più importante dei reali fattori che lo vanno a comporre. Brancolando lungo la scorza delle apparenze, anche nel mondo ristorazione. Trippa, il fenomeno non solo lo ha creato e continua a viverlo – senza arrancare un millimetro – ma ha saputo porsi gli interrogativi giusti per scavare nelle viscere di quel che questo ambiguo status implica. Partendo dall’autenticità di un messaggio e dalla necessità di poterlo comunicare. Sin dall’ardita scelta di inaugurare una trattoria old school nel 2015, in una zona poco battuta di Milano. Anche se dubito che Diego Rossi e Pietro Caroli (rispettivamente cucina & sala/amministrazione del locale) immaginassero di trovarsi chilometriche liste di attesa nel loro sistema di prenotazioni (registrando ormai quasi un perenne full booked per mesi).
Tanto meno ambivano a incarnare lo starter per la nascita di un movimento compresso ormai sotto il trend-naming di Trattoria Moderna: che ha visto gradualmente molti cuochi slacciarsi da contesti fine dining, per riprendere in mano una cucina più immediata, materica e tradizionale. Forse proprio l’inconsapevolezza della portata dei propri intenti – in virtù di metterli in pratica con efficienza – li ha resi quei fenomeni genuini che sono oggi. Stipulando un luogo di culto, al riparo da qualsiasi vezzo o fanatismo. Tramutando il contenitore di una (apparente) trattoria di quartiere, in una mecca ristorativa per clienti di ogni ceto sociale; cultori gourmand e chef pluristellati convergenti da tutto il mondo.
C’è da dire che Diego Rossi propaga mediaticità innata da ogni suo gesto. E non parlo del physique du rôle da marinaio scavezzacollo con tatuaggio in bella vista, pipa in bocca e look d’antan. Ma della capacità sfrontata di trasmettere le proprie idee con veemenza e consapevolezza. Cuoco di rango, che dopo aver navigato nelle cucine stellate di mezza Italia (tra i tanti lidi ricordiamo Liguria, Venezia, Antiche Contrade a Cuneo e St. Hubertus a San Cassiano) è stato in grado di trasporre un sentito distacco da quel genere di ristoro in una forma inedita e antica al tempo stesso. Cordiale e rassicurante perché tratto culturale intrinseco di tutti noi: la trattoria. Attuale e fortemente appetibile perché figlia di una dialettica personale, derivata dal suo background elevato. Un linguaggio neo-popolare non corroso dallo sguardo vetusto del tempo o (all’opposto) dalla dottrina standardizzata di alcune cucine impettite.
Non solo, prima che degenerasse in moda, Diego ha creduto fermamente nella rivalutazione di tagli meno nobili/interiora/frattaglie. Innescando uno studio approfondito e spasmodico sul prodotto e sulle applicazioni meno convenzionali di ingredienti dimenticati e di piatti estrapolati da ricettari arcaici. Stoico nello stringere legami costruttivi con piccoli produttori e realtà artigiane, per conferire profondità e spessore a quel che appare semplice solo nel limbo dell’apparenza. Detentore, in realtà, di una metrica che unifica l’accessibilità del gusto e la complessità del gesto, senza alcun intervallo stilistico.
L’hype costante, consolidato negli anni da Trippa, è avvinghiato talmente forte a questa scala di valori, che non rischia di apparire ridondante. Anche perché il ricambio di pietanze, assaggi ed evoluzioni culinarie è pressoché illimitato. Mutando al passo repentino dell’istintività sensibile di Rossi e alla varietà (in rotazione continua e stagionale) delle materie prime trattate. Una curiosità insaziabile che questo cuoco rivolge al fulcro del sapore. E che lo conduce spesso a scovare cucine ignote, durante le frequenti performance commissionate oltre confini italiani. Fattore che ha incrementato sempre più la sua abilità di spingersi al margine estremo nell’interpretazione dei prodotti: padroneggiandone le tonalità più remote e ostiche, per arrivare a renderle eleganti e amabili a ogni genere di palato.
Pensiamo alla callosità voluttuosa e incalzante dell’Esofago in umido con accento di pimentón e salsa di pecorino. Alla propulsione di viscosità scioglievole e succulenta dei Filoni cotti poché con stracciatella, limone e foglie di cappero sott’aceto. Al collagene avvolgente e fitto di Lingue e trippe di baccalà, accostante alla foggia grassa e piccante della ventricina. Mescolanza indistinta di culture e assoli di sapori quasi sgradevoli contemplati per altre vie. Qui, magicamente armonici e goderecci a dismisura.
Ma c’è spazio anche a tanti ortaggi e frutti desueti – come il possente Cedro di Diamante in citronette al miele di castagno – o a quella tradizione libera da paletti geografici e limiti espressivi che irrompe aitante e contemporanea: Tortelli di zucca dal piglio archetipico e poi quei Rigatoni al sugo di pajata vera (da vitellino alimentato a latte e non a siero) che fanno picchiare forte i pugni sul tavolo.
I grandi classici, ormai must irremovibili di questa insegna – come il Midollo arrosto, il Vitello tonnato e la Trippa fritta – sono lì a ribadire quanto quel che sembra ovvio, può raggiungere casse di risonanza inaudite, se maneggiato con il giusto grado di cura e convinzione dei propri mezzi. Mentre dalla scelta quotidiana di piatti in lavagna, gli appunti eclettici concedono divagazioni epiche di estro agricolo: Pecora gigante bergamasca con misticanze cotte e nocciole; Garusoli in padella, pepe affumicato e polenta; Insalata di coda sfilacciata con cipolla in agro e molto molto altro ancora. Mattanza di appetiti festosi e schiavizzati dal piacere, che non cessa di stupire sino agli ottimi dolci.
La sala, iperattiva in un ambiente vintage e caloroso all’inverosimile, stabilizza e ripercuote il carisma gastronomico della brigata di Diego. Centrato come il focus di un servizio plastico e mai opprimente che Pietro Caroli – e tra i validi elementi anche Vincenzo Critelli – hanno saputo ricamare intorno all’identità di Trippa. Guadagnando il successo (stra)meritato di chi crede nelle proprie passioni e nei propri obiettivi, prima di affannarsi a ricoprire il ruolo ostentato del fenomeno.
Nota della redazione
Diego Rossi “chef bucaniere dallo spirito bohémien, di origini venete” è il primo cuciniere della gang meneghina che rivendica la propria personalità con raffiche esplosive di polpette su Cook_inc. 25 nell’articolo Milano spara – Roma risponde.
“Le sue polpette celebrano gli umori e i sussulti primitivi dei tagli meno nobili. Del recupero di corpi dilaniati, ricette antiche e manualità vecchia scuola. Rimpastate con tracce contaminate che solcano verso il futuro senza alcun limite espressivo”, scrive Lorenzo Sandano. “L’elegantissima e materica Polpetta di cuore di manzo – scioglievole al morso e magistralmente fritta in superficie – trova twist aromatico nella miscela segreta di spezie dalla narrazione arcaica quale il tamaro. Blend d’estrazione veneta, tramandato di famiglia in famiglia, che instaura un esaltante dialogo con la salsa aioli dai rimandi ispanici”. Ecco la ricetta delle Polpette di cuore di manzo con tamaro di Diego Rossi.
per 4 persone
Per le polpette
400 g di pane raffermo
latte q.b.
400 g di cuore
2 spicchi d’aglio di Nubia
80 g di prezzemolo
2 uova intere
sale e pepe q.b.
pane grattato grossolanamente q.b.
olio di arachidi q.b.
Ammollare il pane (privato della crosta) nel latte. Tritare il cuore e metterlo in una boule, aggiungere il pane strizzato nel latte, il parmigiano, l’aglio grattugiato, il prezzemolo tritato e le uova sbattute leggermente. Amalgamare il tutto, salare, pepare e lasciare riposare qualche ora in frigorifero. Creare delle polpette di 50 g l’una, passarle nel pangrattato e friggerle in olio bollente. Se necessario finire la cottura in forno.
Per completare il piatto
20 g di tamaro
erbe e fiori di campo (radicchio, silene, portulaca, trifoglio)
aceto
Spolverare le polpette con abbondante tamaro e servire su una bella insalata di erbe e fiori di campo condita con abbondante aceto.
Trippa – Trattoria
Via Giorgio Vasari, 1
20135 Milano (MI)
Tel: + 39 327 668 7908