Testo di Ilaria Mazzarella
Foto di Andrea Di Lorenzo
“‘Sta minestra barsamica de pesce,
specie si er brodo è fatto co’ l’arzilla,
ve basta solo d’assaggià ‘na stilla
pe’ dì: “Mò panza mia poi pure cresce!”
È peggio de ‘na droga sconosciuta
che intossica er palato e nun dà tregue:
tutti li venerdì, ‘na ricaduta”
Nonna Minestra – Aldo Fabrizi
Per un romano verace, uno come Aldo Fabrizi per intenderci, la ricetta che scalda il cuore diventa poesia. Un pensiero dell’attore, dedicato alla Minestra broccoli e arzilla, impresso su Nonna Minestra. La tradizione romana, quella delle tovaglie a quadri che oggi scimmiottano nelle trattorie turistiche, degli angoli trasteverini autentici. Sembra un’altra epoca, eppure broccoli e arzilla si fa ancora nelle case. Tutti la conoscono. Ma l’arzilla (o razza), quella chi la conosce davvero? Come altro la cucina? Un pesce poco pregiato, di quelli che una volta si ributtavano in mare o che l’armatore regalava al pescatore al termine di una lunga giornata di lavoro, presente in grandi quantità nei nostri mari, non allevabile e dal costo irrisorio. E come l’arzilla numerose altre qualità poco pregiate non raggiungono nemmeno il pubblico che si affaccia in pescheria. All’asta del pesce non vengono battute, certo. Nessuno le comprerebbe. Banale legge della domanda-offerta. “Signora, una spigoletta per il pargolo? L’orata la squamiamo o la fa al sale?” Un circolo vizioso. Il prezzo del pesce arriva alle stelle, un margine esiguo per chi lo vende e la capacità di spesa sempre più limitata. Overfishing is a big problem. Alternative ci sarebbero, di pesce pescato ne esiste tanto.
Ne abbiamo parlato con Daniele Usai, per tutti Lele, chef de Il Tino di Fiumicino (momentaneamente chiuso dopo le restrizioni dell’ultimo DPCM, ndr) sguardo attento e sensibilità accentuata nei confronti del territorio natio che è lo stesso in cui lavora: il litorale laziale. “Il mare in cui sono cresciuto è lo stesso che voglio lasciare ai miei figli”, una motivazione che fa onore e dà speranza. Chi conosce le problematiche si fa carico di proporre soluzioni. In prima persona. Così nasce l’idea di contattare le pescherie del circondario e proporre loro di acquistare alcune cassette di pesci meno pregiate: prendi il pesce balestra, chiamato dispregiativamente “pesce porco”. Un esemplare dall’ottima carne bianca che ricorda vagamente un piranha e si nutre solo di crostacei come l’aragosta. Si pesca nei fondali rocciosi, a circa quindici miglia da Civitavecchia. Oppure il tabaccone, un totano di profondità con una carne tenerissima che arriva a tre chili. Alcuni si trovano raramente, ma altre specie come le alacce, la polpessa, il morone ce ne sono in quantità.
Lele confeziona alcune ricette alla portata di tutti e le regala al pescivendolo che accetta la scommessa di vendere pesce meno blasonato. Nulla di elaborato. Come cucinare un pesce povero for dummies. In quattro passaggi. Adatto a donne anziane, single, cuochi amatoriali. Una proposta che strizza l’occhio all’ecosostenibilità e non solo. “Proponendo pesce povero si dà modo ai pesci più sfruttati di ripopolarsi” spiega lo chef. “Non solo: la pescheria avrebbe un margine molto più alto a fronte di un prezzo di vendita molto accessibile ai più. Parliamo di sette euro al chilo. Le famiglie di ceto medio potrebbero permettersi di mangiare pesce fresco. E soprattutto pescato. Anche il consumo di pesce allevato, seppure di estrema qualità, ha un costo in termini di sostenibilità, a pari degli allevamenti intensivi. Abbiamo una biodiversità che fa paura, non tutti i pesci sono commerciabili perché non sono conosciuti. È una mera questione culturale”. Una teoria subito messa in pratica nel menu de Il Tino con due interessanti proposte: da una parte il Morone alla diavola – oggi è il morone, ma si tratta di pescato del giorno, pesce di scoglio o tendenzialmente di fondo, secondo disponibilità, cotto al barbecue e adagiato su una base di due creme di peperone, salsa alla diavola, un top di pelle di pollo croccante, accompagnato da un friggitello riempito di ricotta. Dall’altra una versione insolita di Broccoli e arzilla, ovvero una rivisitazione della classica zuppa romana che diventa un secondo. Qui l’arzilla, in questo caso l’ala di razza, viene scottata al barbecue assieme all’osso e finita dolcemente in forno in umido assieme al suo fondo, accompagnata da una composizione fatta di salsa di broccolo, salsa di pomodoro confit, crema di aglio e la crema di alghe.
Qualcosa è cambiato anche nel modo di proporre la carta. “Ero solito inserire venti piatti ogni tre mesi. Ora invece cambio uno o due piatti al mese. Questo mi consente di avere più tempo per studiare. Il livello si è alzato e desidero che, quando un piatto entra in carta, sia al 100% del suo potenziale. Senza contare che la stagionalità non è più cadenzata come una volta. Non ci sono più regole fisse come le fragole nel mese di giugno. Quest’anno ad esempio i fichi non ci sono stati. Ho tolto alcuni paletti: se mi capita di prendere una guglia imperiale, eventualità che si ripete non più di due volte l’anno, posso prendermi la libertà di inserirla in carta, rispettando così il territorio, sfruttando la materia prima finché è disponibile; quando finisce anziché sostituirla, tolgo direttamente il piatto”. Una proposta interessante che abbiamo provato in anteprima è un Carpaccio di rombo e triglia, disposto come una rosa dei venti, accompagnato da un infuso alla malva. In questo piatto, come in altri work in progress, Lele applica una tecnica appresa durante uno stage da Passédat, al tristellato Le Petit Nice di Marsiglia (che vi abbiamo raccontato su Cook_inc. 19, ndr), ovvero la maturazione del pesce. “Da Passédat il pesce non era semplicemente fresco, molto di più: lui ha una prima scelta anche rispetto alla proposta dell’asta. I pescatori, al rientro dal mare, buttano il pesce su una carriola, lo portano sotto alla finestra del ristorante e si dirigono verso l’asta solo dopo che lo chef ha operato la sua prima scelta. Il Mediterraneo ha altri fondali a Marsiglia – racconta – Io sono abituato a pulire il pesce appena arrivato, a sfilettarlo, asciugarlo, porzionarlo, metterlo sottovuoto e poi in abbattitore. Invece guardavo incredulo quelle spigole fantastiche che rimanevano in cella attaccate tre, quattro, anche sei giorni”. Ben oltre il cosiddetto rigor mortis, che dura non oltre 2-3 giorni, e che serve alla carne per rimanere rigida e compatta. Appresa la tecnica, che a Marsiglia utilizzano con estrema naturalezza, se la porta in casa.
Non prima di approfondire meglio per poi imbattersi in The Whole Fish Cookbook di Josh Niland, chef australiano, dal mantra It’s all about minimising waste and maximising flavour, con ilpallino della riduzione degli scarti e l’utilizzo di tecniche di conservazioni sperimentali. Come nella più nota frollatura della carne, tecnicamente la maturazione abbatte tramite gli enzimi i tessuti connettivi. “Il pesce fresco viene lavorato su teglie ghiacciate, per cercare di rimanere a temperature più basse possibili ed evitare così la proliferazione dei batteri. Vengono tolte le interiora, le branchie e si incide nella gabbia toracica per eliminare la vena di sangue dello sterno – spiega Lele – Per mantenere la temperatura il più possibile vicino allo zero, faccio subito un bagnetto di acqua e ghiaccio. Poi si asciuga tutto e si appende in un frigo con una temperatura vicina allo zero. Le prime ore, scolando il sangue, perderà tutti liquidi in eccesso. La parte esterna del pesce si seccherà, permettendo così alla carne di venir schermata anche dall’ossigeno. Ho fatto qualche esperimento a inizio anno e ho ottenuto buoni risultati che ho testato durante il lockdown di marzo: in genere i pesci da un paio di chili vengono portati a cinque, massimo sei giorni di maturazione. Ho provato con dei merluzzi portandoli fino a quindici giorni e li ho fatti esaminare al laboratorio: ancora erano nei valori. Più i giorni passano più cambia la consistenza del pesce, sembra più carne e sprigiona un’intensità più marcata”. Per intenderci: è come uno stesso vino, è meglio quello giovane o la versione invecchiata? Teoricamente potrebbe essere sempre gradevole, ma sviluppa sentori di gran lunga differenti.
I progetti del Tino seguono parallelamente quelli del Quarantunododici, sempre all’interno della struttura Nautilus Marina a Fiumicino, bistrot di mare moderno con approccio e prezzi più accessibili. “A pranzo sono sempre al Quarantunododici (Il Tino è aperto solo per la cena, ndr) e mi piace salutare i miei ospiti in T-shirt, accoglierli in maniera informale. Quando alcuni realizzano che sono lo stesso chef stellato de Il Tino restano sorpresi di essere trattati alla mano. E così pian piano sciolgono alcune riserve e provano ad avvicinarsi a una cucina più sofisticata, azzardando una prenotazione al ristorante gourmet”. Che poi, a parte Lele ovviamente, la brigata è la stessa: i ragazzi ruotano ogni quindici giorni tra ristorante e bistrot affinché siano cuochi più completi possibile. Per imparare a saper fare sia tanti coperti a ritmi sostenuti con ricette più semplici, sia a lavorare minuziosamente su un piatto più complesso. Binomio di competenze che, aggiungerei, non è affatto banale.
Ristorante Il Tino – Quarantunododici
Nautilus Marina
Via Monte Cadria, 127,
00054 Fiumicino – Roma
Tel: +39 06 562 2778 – +39 06 658 1179