Testo e foto di Gloria Feurra
Là dove c’era Roseval ora c’è Dilia.
Al primo di rue Eupatoria succede un po’ come nella via Gluck, solo che in questo caso lo stravolgimento non è da erba a cemento. Da Tondo (Simone) a Farnesi (Michele) suona un leitmotiv, si sente, ma non facciamo di tutta quell’erba un fascio.
Ménilmontant, XX arrondissement multietnico presidiato sempre più da millennials con calzoni stretti e giacconi di pelle lisa e da quelli che Michele chiama “parigini veri, non quelli che incontrano i turisti”. Qua, il ragazzo di Capannori con mani forti e voce roca, prende in leasing lo spazio dell’amico sardo ormai adottivo parigino, Simone Tondo.
I principi di causa-effetto di questo esito sono brutalmente riassumibili così: dai banchi delle scuole alberghiere toscane alle prime esperienze, quelle delle stagioni dove si contano i numeri, si fanno le ossa. Poi un amico gli racconta della sua di esperienza, in un posticino con soli 30 coperti, piatti minuziosamente curati… E quindi prima da Siccardi (“ché io ancora uso moltissime tecniche che ho imparato da lui”) e poi lo stage all’Osteria Francescana (“tutte splendide persone, davvero”), ripassando alle dinamiche della ristorazione di quantità in Svezia. Ma a casa, non ancora varcati gli enta, non ci si vuol tornare. Se gli chiedi perché Parigi ti risponde come farebbe Paolo Conte se fosse chef: “Eh, Parigi… è poi la cucina francese. Io poi sono partito davvero con le valigie di cartone”. E con gran piglio si parte da Rino, con Giovanni Passerini, poi è la volta di Saturne, con Sven Chartier, e si chiude col botto insieme a Pierre Jancou nel progetto di Heimat, dove Michele diventa lo chef.
Rue Eupatoria 1, dicevamo, all’incrocio con Lacroix, disegna un bell’incrocio trapezoidale Dilia. Qualche tavolino fuori, mandando al diavolo la superstizione di una bella stagione che nei primi di marzo parigini sembra ancora un miraggio: arriveranno le sere tiepide. Lasciando fuori la tediosa, costante e leggera pioggia dentro il tic-tac si fa denso, ritmato da una playlist degli anni caldi nostrani: passa La zappa, il tridente e il martello interrotta da un accogliente “Asseyez-vous s’il vuos plaît, mademoiselle, whatever you want”. Superato il bancone, con le spalle all’ingresso e di fronte un ampio specchio ossidato, il tempo si dilata insieme allo spazio, capace di ospitare una ventina di coperti sopra un parquet scricchiolante. Luci calde, legno scuro e stoffe chiare, grezze. Sui tavoli roselline di campo appena schiuse e chiacchiere italo-francesi dalla vicina cucina. È il pranzo del sabato, ergo: unico giorno dove si ricalca la formula della cena. Chiuso domenica e lunedì. Nuova settimana, nuovo menu.
C’est la nèo-bistronomie. Iniziamo.
Polpette di merluzzo e maionese di lime.
Due bocconi ghiotti e freschi che esaltano il gusto di un’adolescenza mai persa.
Tortello di parmigiano in brodo.
La nonna, il comfort: casa. Servito in un bicchiere di terracotta, calcando la mano sulla mineralità.
Ravioli di porro, foie gras, fumetto di pesce e passion fruit.
La pasta come solo chi ne ha steso chilometri. Head & Heart. E resta una bocca buona, profumata. La lingua che continua a roteare, entusiasta. Croccante e vellutato, come un tulipano, o un giglio.
Pollack, scorzonera, agretto e burro bianco al timo citriodoro.
Ha messo il mare in una stanza, che gira. Sentori balsamici e atlantici, schiuma di onde. Le fibre perfettamente divisibili di un pesce umido cotto a puntino. Sotto è la crema del tubero a gettare l’ancora. Canto di sirene.
Mozzarella thai.
Con gambero, semi di sesamo, spinaci, soia, cipollotto. È un fuori programma, un curioso melting pot. Bravò!
Agnello, tapenade, topinambur, cicoria e acciughe.
Mi sforzo di non usare come termine di paragone lo spezzatino di agnello e carciofi. Ecco, l’ho appena fatto. Carne che oppone la giusta resistenza al coltello, con un taglio di collo che è un roll di grasso e fibra eccellente. La cicoria amara, che fa bene, così come le olive veraci. Umami spinto ma non sgarbato.
Gelato di neroli.
La raffinatezza è sobria. Fossi maschio italico lo immaginerei come il profumo indossato da una parigina: ninfa lattea, dea nuda ambrata.
Mediterraneo.
Sole, sabbia, sale. I capperi, i mandorli, il bergamotto, la maggiorana. Un dessert dei 4 sensi, dei 5 elementi, dei 6 sapori. Tanto completo quanto complesso, intelligente e delizioso.
Head & Heart, senza mai dimenticare la panza. “Mica mangiamo concetti”, apostrofa Michele (clap-clap). Pensa che in Italia la sua generazione sia spesso presa da quella smania di sperimentazione che rischia di deragliare, facendo saltare il capolinea: cucinare buono, prima di tutto. Di elucubrazioni poche e di sostanza tanta, perché alla fine ciò che conta è come hai mangiato (“Era buono o no?”) e come ti sei trovato (“Sei stato bene, o no? Sono stati gentili, attenti?”). Nessun progetto a lunghissimo termine e nessuna concitazione per scalare le vette nelle top dichessivoglia. “A me interessa che i clienti siano soddisfatti, punto”.
Doppio giro di espresso (buono, finalmente) ed è tempo di saluti.
Il congedo sulle note Buonasera signorina del Celentano ai tempi del Clan, manco a farlo apposta.
Ha pure smesso di piovere, pensa.
Au revoir, Dilia, à bientôt.
Dilia
1, rue d’Eupatoria, Parigi – 75020
Tel: +33(0)953562414
www.dilia.fr