Testo di Raffaella Prandi
Foto Meet in Cucina Marche
Diceva dal palco Mauro Uliassi: “Cè un’idea di marchigianità che ci accomuna, la percezione della terra unita a quella del mare che marca in maniera indelebile la nostra cultura”. E aggiungeva Moreno Cedroni: “Il territorio scandisce le nostre vite e tutte queste tradizioni io le ho in corpo”. È su questo DNA gastronomico che ha scommesso, con felici risultati, Meet in Cucina Marche, il format ideato da Massimo Di Cintio per mettere in valore tutto quanto, dal vino alla cucina ai prodotti, attinge a un patrimonio comune di sapori e di tecniche ancestrali. E se è vero che tutti i territori hanno bisogno di fare sistema, l’iniziativa (prima edizione nelle Marche, mentre le altre, quattro, a stessa firma, si erano svolte in Abruzzo) è un nuovo mattoncino verso una identità territoriale che da queste parti è già straordinaria e che ha forse bisogno di cementarsi in un più stretto gioco di squadra.
Otto i cuochi stellati che nel Teatro La Fenice di Senigallia (capitale gastronomica indiscussa della regione dove intorno al food è nato anche un buon indotto) hanno raccontato, pentole alla mano, i loro personalissimi stili conditi delle eccellenze locali: cefali, moscioli, cicale di mare, patate del Conero, olive ascolane, barbecche…
Ha aperto i lavori, con i suoi immancabili piatti di caccia, Cappelletti in doppio brodo di beccaccia e Beccaccia della Santa Alleanza, Lucio Pompili, padre nobile del Rinascimento marchigiano, seguito da Danilo Bei, Mauro Uliassi, Errico Recanati, Michele Biagiola, Stefano Baiocco (ospite d’onore in quanto di origini anconetane), Stefano Ciotti, Moreno Cedroni.
Mare e terra a fare da filo conduttore e a marcare in modo indelebile la cultura dei luoghi. Esiste infatti dal punto di vista gastronomico una sorta di fil rouge nel modo di pensare che consiste nella mescolanza continua tra tradizioni di mare e di terra. “La cucina così detta ‘mare e monti’ non è la trovata di un cuoco estroso o creativo ma era l’umile mangiare degli abitanti della costa marchigiana che oltre a essere contadini erano anche pescatori”, sottolineava Uliassi. La memoria ha così un ruolo chiave nel processo creativo. Ne sono un esempio i tanti piatti presentati in giornata a cominciare da quello presentato proprio da Uliassi, Acqua di conditella con rane lumache pane e gelato di baccello di fave, che voleva evocare quel tipico paesaggio a ridosso del mare fatto di stagni acquitrini fossi e vita di campagna, recuperando i gesti ancestrali della cucina popolare. Così la conditella trae spunto dai sapori di quelle insalate dimenticate sulle tavole contadine quando rimaneva quell’acquaticcio così gustoso perché l’acqua conteneva tutta la sapidità del vegetale. Ecco dunque che lattuga pomodori cetrioli cipolla aglio con un po’ di acqua aceto e sale vengono messi sotto pressione in una teglia forata lasciandoli macerare per 24 ore: se ne ricava un liquido rinfrescante e concentratissimo. Poi ci sono le lumache di cui si va perdendo la tradizione. Vengono prima spurgate e poi messe in acqua fredda, si accende il fuoco in modo che, appena le lumache sentono il calore, escono fuori dal guscio perfettamente dritte; sono quindi private dell’intestino e ripassate in olio aglio timo maggiorana con l’aggiunta di un po’ del loro brodo di cottura, un brodo carico di sapore di lumaca e che, grazie al gioco del pil pil (una tecnica spagnola di emulsione) regala una consistenza viscosa quasi a riprodurne la bava. Le cosce di rana vengono invece impanate con timo maggiorana e fritte in burro chiarificato. Per il gelato si scottano i baccelli di fave o dei fagiolini in acqua bollente per pochi minuti; il succo centrifugato viene passato al pacojet. E poi c’è il pane che Uliassi dice di aver imparato a fare da Niko Romito che utilizza grani locali della zona di Frattura. Sul fondo del piatto si accostano lumache, rane e pezzi di pane tostato condito con olio aglio e un po’ di conditella. L’acqua della conditella viene poi servita a parte di fronte al commensale.
C’è la conditella anche nei piatti presentati da Michele Biagiola, piatti ispirati alle tradizioni dei luoghi, come la deliziosa Cassettina delle primizie, un polistirolo ricreato con la ricotta e il terriccio di malto dove sono infilati i ciuffetti di insalata e adagiato su quell’insalata macerata che “ha il sapore di quella delle nostre nonne e delle nostre zie”.
Interessante e passardiano il piatto di Stefano Ciotti, Barbecche, barbecche fermentate, tartufo, che recupera queste radici selvatiche che si trovano nelle campagne pesaresi e che per il loro alto valore proteico sostituivano nel passato la carne. Le barbecche, simili nella forma a delle carote, sono pulite e messe sottovuoto, cotte a 95°C per 45 minuti con un burro al tartufo, quindi impanate con farina uova e pangrattato e poi fritte in burro chiarificato. Prepara poi una emulsione con siero di Parmigiano (fatto bollire in brodo di cappone) in cui è frullato il tartufo mescolato al burro chiarificato. A completare il tutto lamelle di barbecca fermentata, castagne crude e tartufo.
Moreno Cedroni (33 anni di avanguardia e di ricerca portati alla grande) sceglie invece di uscire dai confini mescolando le tradizioni marchigiane a quelle di altri paesi “perché noi abbiamo il sugo di vongole delle nostre mamme e i coreani hanno il kimchi e il bello è fonderle come si fondono gli oceani al Capo di Buona Speranza”. Il Dumpling di seppia, brodo di moscioli selvatici e cumino è un dumpling la cui pasta è preparata con acqua e manitoba e il ripieno con una seppia macinata e condita con mirepoix di carote e zucchine, salsa di soia e buccia di limone. I ravioli sono cotti al vapore e adagiati su una base fatta con gli stessi ingredienti del ripieno (seppia cotta questa volta sottovuoto a 50°C dalle 3 alle 5 ore) carote e zucchine sbollentate, spinaci aromatizzati al basilico. Il tutto completato con un brodo di moscioli cumino e limone candito.
Delizioso e potente anche il piatto Frittatina alle cappole, brodo di bucce di pannocchie e cavolo viola fermentato: alla base erbette di campo sbollentate, al centro una frittatina preparata alla maniera antica con un sauté di vongole, sugo di pomodoro e uova, cui viene aggiunto un brodo di teste di cicale e a completare il cavolo viola fermentato (il cavolo, affettato, viene chiuso in un sacchetto di plastica con il sale e lasciato a marinare per tre settimane). Un kimchi marchigiano, marchigianissimo.