Lo sprint vegetale e concettuale nell’ultimo menu, in tandem con Luca Sacchi
Testo e foto dei piatti di Lorenzo Sandano
Altre foto cortesia di Ristorante Cracco
Ammetto di essermi commosso alla vista di Mastrandrea che recita un estratto del romanzo Gola di Mattia Torre in un episodio di Dinner Club. Così come un po’ di commozione è sgorgata scrutando una Milano notturna, illuminata dalle finestre sopraelevate della Galleria Vittorio Emanuele II al termine di una splendida cena. In entrambi i casi, un cuoco protagonista era a far da raccordo a questi momenti toccanti: Carlo Cracco. Il fardello che ognuno di noi è costretto a portare in qualche interstizio vitale si manifesta nelle modalità più disparate. Nel caso di questo celebre chef di lungo corso, l’esposizione protuberante del piccolo schermo ha creato a volte delle proiezioni poco gentili rispetto l’animo che conserva dentro sé e che riporta abile nella sua cucina. Sia chiaro, la mediaticità predispone sempre un rovescio della medaglia bilanciato ai benefici dell’immagine, ma nel caso di Carlo la risposta più efficace ad alcune deviazioni sul tragitto le ha messe a segno semplicemente con i fatti.
L’ultimo format di successo rilegato con Amazon ne è una prova evidente. Eppure, la sua portata culinaria – nell’estatico ristorante meneghino in Galleria – rimane quasi ingiustamente oscurata rispetto al potenziale che realmente esprime oggi giorno. Parliamo di un’idea di ristoro austera e accessibile al tempo stesso, inserita in un ambiente che trancia il fiato appena varcata la soglia. Niente però è diretto a intimorire l’ospite: di fianco a me, una coppia di 70enni celebrava l’anniversario; alle mie spalle, un ritrovo familiare con tanto di bambini al seguito gioiva ritmato; davanti ai miei occhi (celata da una saletta privata) si udiva una tavolata di amici in pieno clima festaiolo. Trasversalità ed eleganza a braccetto, pronte a piroettare insieme col solo fine di consegnare un’esperienza unica e a misura di cliente.
Chiunque esso sia. E lui, Carlo, troppo spesso ritratto con un fare ruvido e distaccato, si muoveva invece placido tra i commensali ascoltandone gli appetiti con modalità empatica e tenue. In sala, la dimensione che si respira è densa d’ospitalità, intagliata tra boiserie e testimonianze art déco tramite un servizio fluido, rinfrancato dalle dritte enologiche del bravissimo sommelier Gianluca Sanso. Tra le stufe, opera fianco a fianco con Cracco ormai da anni il talentuoso Luca Sacchi. “C’è voluto un po’ per mettere in piedi questo menu degustazione come volevamo noi – spiega con umiltà disarmante a fine pasto – la situazione qui, vuoi il contesto e lo spostamento dal vecchio locale, non è stata affatto semplice da delineare sin dagli esordi. Ora però con questo menu ci sentiamo davvero di poter raccontare quel che siamo. Con consapevolezza e anche un discreto orgoglio nel farlo”.
UN DEGUSTAZIONE BILINGUE: CLASSICITÀ CONTEMPORANEA
La squadra di Carlo, con Sacchi in pole position, deve esser fiera. Questo è fuori discussione. Perché la linea trascritta in carta è riuscita con maestria a diserbare ogni elemento superfluo o datato, mostrandosi in una foggia che parla contemporaneo preservando tutta la piacevolezza che un marcato accento classico può conferire. Una cucina acuta, rigorosa nelle cotture, esteticamente impeccabile. Ma anche fresca, pirotecnica nelle sfumature cromatiche e fortemente incentrata sul mondo vegetale, con un’esaltazione esecutiva del prodotto che pochi cucinieri riescono a manovrare così bene.
Insomma, come il ristorante stesso riporta nella sua logica d’accoglienza, il lato rassicurante e quello moderno riescono a convivere in una forma radiosa. Sgranocchiando le rinomate cialde di riso aromatiche di benvenuto, per poi addentare un boccone iconico e senza tempo, se possibile ancor più buono di quanto la memoria rammenta: l’Insalata russa caramellata. Chiusa in parte la parentesi amarcord, piombano a cascata le prime saettate d’attualità: soffice e salmastro il Bombolone alle alghe con ricci di mare; pungente, l’esotica e dinamica Sea Salad con dentice in ceviche, sfoglie di cappesante, nero di seppia, mais e peperoncino; iperbolico al morso il Gambero di Santa Margherita impanato e fritto in cotenna di maiale con crema di porcini e profondissima bisque di crostacei che esige un’irrinunciabile scarpetta (servito il crostone di pane maison pronto all’uso).
La Tartare di kiwi e avocado con bottarga di tonno, coriandolo, yogurt e prezzemolo è un’insospettabile falcata da fuoriclasse per equilibrio, masticazione e impennata di clorofilla prolungata al palato. E lo dice uno – il sottoscritto – che non ama affatto i kiwi. Il Carpaccio di melanzane cotte in acqua di mozzarella con crema di bufala, pomodoro e parmigiano evoca la norma con soavità strutturale inedita; l’omaggio alla recente insegna di Portofino – a base di Pesto, patate e fagioli – esprime diteggi orientali nelle texture (simil raviolo al vapore) e nella scoppiettante gamma di sapori, in realtà prettamente liguri.
Non manca un tributo al maestro Marchesi, sagomato in un conturbante Raviolo aperto agli spinaci con ricotta di Seirass, tuorlo d’uovo di montagna al vapore, nepetella e porcino crudo: da mangiarne un bidone. Caleidoscopio di contrappunti invece, lo Spaghettone Felicetti cotto in brodo di pesce abbrustolito, lucidato in salsa di pomodoro, cucunci, sedano e l’allungo elettrizzante dello zenzero. Boom! Poi, come un godereccio rovescio piazzato in pieno volto, giunge la rilettura della Zuppa Pavese (ricetta povera, originaria del 1525) stratificata in crostone di pane, taleggio fuso, tuorlo d’uovo, brodo di manzo e una spruzzata distillata di Barolo chinato. Corroborante e piena a dismisura.
Come allo start del pasto, si torna ad alcuni preziosi “feticci” dello chef nel finale. Prima nel Musetto di maiale fondente, ritinteggiato da peperoni e variazioni di pomodori: imbarazzante per la sua succulenta bontà. Poi nel Midollo, che diviene trampolino espressivo per un’inebriante crema di mandorle affumicate e prezzemolo bollito: tre soli ingredienti fusi a perfezione in un tuonante strike papillare.
La Dadolata di pesche con crema pasticciera, amaretto e sorbetto alla pesca pone una conclusione ringalluzzente e vivace. Alla pari dell’indole che manifesta con classe – in ogni passaggio – quest’insegna milanese che non cesserà mai di brillare. E mentre io saluto il panorama dalle vetrate con gli occhi un po’ lucidi, il signore affianco a me gode ad alta voce esclamando “il riso giallo più buono della mia vita!”. È sempre una gran Milan. È sempre un gran Carlo Cracco.
Ristorante Cracco
Corso Vittorio Emanuele II
20121 Milano (MI)
Tel: +3902876774
www.ristorantecracco.it