Testo e foto di Amelia De Francesco
La tradizione dell’osmiza ha origini antiche (c’è chi dice medievali), ma risale sicuramente a Giuseppe II che alla fine dell’ ‘800 emanò un decreto imperiale secondo il quale ai contadini era consentito di vendere vino e altri prodotti agricoli nelle loro case per un periodo di 8 giorni l’anno. Questo per smaltire la produzione in eccesso rispetto alle esigenze familiari e sostanzialmente contentare la gente del contado.
Si va per osmize tuttora, sul Carso triestino e in parte su quello sloveno, per un periodo di alcune settimane durante la stagione primaverile ed estiva, per godere del fresco e delle bontà casalinghe. Ci si va in clima di gran festa: in famiglia, con bambini e cagnolini al seguito, con amici (fra i giovani è molto in voga il “giro delle osmize” che prevede più tappe consecutive nella stessa giornata, passando dall’aperitivo al pranzo fino all’aperitivo successivo), ma non è raro imbattersi in qualche solitario avventore che confida di trovar compagnia sul posto. E se non ci fossero conoscenti, be’… si sa che dopo qualche bicchiere di vino gli animi e le lingue si sciolgono. E la festa è assicurata.
La formula è quindi semplice: chi ospita mette a disposizione vino proprio, sia bianco che rosso, rigorosamente sfuso, e salumi, formaggi, marmellate, sottoli, uova del pollaio. Ma anche il cortile di casa, il giardino per chi ce l’ha, alcune sale interne, talvolta, utilissime in caso di cattivo tempo. Che neanche quello ferma il triestino, deciso ad assaporare la fugacità di questa golosa occasione (che mica dura tanto!) con qualsivoglia tempo.
Ma per capire la vera e propria passione che muove così tanta gente verso l’osmiza, e per imparare a goderne a pieno, si deve necessariamente capire il carattere del triestino. Una città aperta e di confine, italiana ma con un occhio (forse anche due, va’!) al resto d’Europa. Una città che si sente libera, antica propaggine di un seriosissimo impero, quello degli Asburgo, ma giocosa per sua natura, ironica e facile a sdrammatizzare. Una città sospesa e viva, che al forestiero appare conviviale come poche altre. Non per niente il motto, che vi verrà citato non appena chiederete “ma che carattere hanno i triestini?”, tratto da una canzonetta del tempo, recita: “Viva l’A po bon”. Come dire: adattiamoci il più allegramente e spensieratamente possibile alle circostanze politiche e civili. Oggi abbiamo l’Austria (l’A”), bene così. Domani chissà. Nel frattempo cerchiamo di star il meglio possibile.
E noi siamo andati a godercela a casa di Ivan Gabrovec a Prepotto. Ivan ha aperto di recente al pubblico e ci fa accomodare nel suo cortile, sotto lo splendido noce che regala ombra gradita in questo afoso fine luglio. Ma non solo. Al noce dobbiamo anche lo “strucolo”, uno strudel salato ripieno appunto delle noci, assaggiato anche nella versione con prosciutto e formaggio. A seguire il prosciutto cotto nel pane, quello vero, accompagnato come vuole la tradizione da una grattata generosa di cren fresco, il cui ricordo vi perseguiterà quando, tornati a casa lo ricercherete trovando, se fortunati, solo pallide imitazioni.
A questo punto come non assaggiare il formaggio carsolino di vacca e il salame preparato dalla famiglia di Ivan?
La sola controindicazione che ci viene in mente alla pratica delle osmize è la misura. Intesa come il senso della misura. Che vi mancherà quando penserete di alzarvi e andarvene e il piattino del tavolo accanto vi convincerà a sedervi nuovamente. In fondo in fondo un po’ di fame ancora l’avete. Mangerete un altra prelibatezza, ancora solo un quartino di vino e sarete totalmente assorbiti dal clima unico di questi posti.
Viva l’O(smiza) po bon!
Ps: se vi fosse venuta voglia di “andar per osmize”, potete consultare il sito www.osmize.com, sul quale troverete le date aggiornate delle aperture e alcuni dettagli su ciascun osmiza.