Qualche rado pioppo. Un ontano. L’aria umida del fiume Oglio e, poco lontano, il Po. Durante il periodo di svernamento, in cielo, le beccacce e il germano reale. Qualche centro commerciale che ha rubato un po’ di poesia a questa terra così piatta, così grassa. Resistono quelle grandi cascine dove si produceva la ricchezza d’Italia, quando eravamo un paese agricolo. Siamo al Polo Nord. Così si chiama la località dove vive il signore di queste terre.

Il maiale. Il sontuoso monumento vivente alla prosperità della Bassa Cremonese.
Fa freddo. Piove. È dicembre. I maiali non si fanno vedere, ma la loro presenza si sente. Questo è il loro tempio, il loro rifugio. È qui, nell’Azienda Agricola Bettella che vivono i privilegiati della specie suina. “Sono delle fighette”. Lo dice con l’accento morbido del cremonese Giuseppe Bettella, settant’anni portati da cinquantenne. Erede di una famiglia che alleva da generazioni. Mucche, galline e poi il Maiale Tranquillo®. È questo il marchio, registrato, dell’azienda: “Hanno spazio, un pavimento in cotto con l’intercapedine e il capannone termicamente isolato” spiega amoroso Giuseppe. “Ma non è per il freddo, i maiali lo sopportano. È per gli spifferi… li soffrono tantissimo”. E continua: “abbiamo creato qui la filosofia del maiale tranquillo, cerchiamo di dare agli animali uno stile di vita sereno, non vengono forzati a mangiare, la digestione è naturale. I nostri maiali vivono due anni contro i nove mesi degli altri allevamenti”.
L’idea di Giuseppe è semplice e deflagrante: un grande salume nasce da un animale che vive bene. Mangia bene. Sta in compagnia. Come l’uomo, insomma. L’allevamento è di impianto tradizionale, ma da 10 000 animali, i Bettella sono passati a 2000! “Hanno spazio e mangiano bene. Rimangono sempre nel loro ambiente, sempre fra di loro. Se sono nel loro habitat, per tutta la vita, non hanno nessun problema. Nei nove mesi di vita degli allevamenti convenzionali vengono spostati, isolati, separati dalla famiglia. Si agitano, si stressano. I nostri no”. Il figlio di Giuseppe, Stefano, è come un fratello maggiore per i maiali tranquilli. Si preoccupa. Li segue fino alla macellazione che cura personalmente. D’altra parte, come dice Giuseppe, il maiale è un animale sensibile e intelligente: “è il terzo in classifica dopo il delfino e il cavallo. Prima del cane. Lo addomestichi come vuoi. È un animale gregario. Se li metti in gruppo iniziano subito le dinamiche per chi è capo, sottocapo, vicecapo e così via. Quando togli un maiale metti in crisi tutta la comunità. Se lo isoli per una settimana gli altri non mangiano più. Non si muovono più. Una cosa terribile. Se li lasci da soli si deprimono. Noi li mettiamo insieme, per farsi compagnia”.

E poi l’alimentazione: “allevo maiali dal 1970. Dal ‘76, grazie ai miei studi di chimica e medicina, ho iniziato a farmi da solo le formule dei mangimi. Ho eliminato per esempio il frumento perché fa una carne grigia, molle. Nell’industria invece mettono dentro al mangime quello che costa meno. A seconda delle quotazioni di quell’alimento”. Ma qui è differente: “non diamo loro il solito pastone di granella di mais, ma il mais essiccato da noi con un effetto simile alla tostatura. E questa tostatura dà una tonalità di gusto diverso alle carni. Per questo i nostri salumi a lunga stagionatura sentono di frutta secca”. Qual è quindi il segreto dell’alimentazione, sul quale gli spagnoli hanno creato una leggenda? “Basta dargli roba buona. Il mais dà il profumo. Così come l’orzo. Noi lo facciamo tostare in campo, col sole. Ha un profumo incredibile. Abbiamo una cura della materia prima, tutta locale, ossessiva”. Il risultato di questa attenzione si percepisce immediatamente al palato. Questi non sono salumi, ma delle piccole opere d’arte create per il puro piacere. Lo si capisce dal grasso, ha un colore rosa Tiepolo e un profumo da capogiro. “Quando vendevamo le culacce Stefano si disperava: papà come faccio a proporle con quattro dita di grasso… tutti le vogliono magre. Io rispondevo: se le vogliono sono così. Adesso ci chiedono che siano belle grasse”.
Il tutto si spiega anche con la chimica: “abbiamo fatto fare l’analisi del nostro grasso, contiene il 52% di acido oleico, molto vicino all’olio d’oliva che è mediamente del 60%. È un monoinsaturo, quindi ha tutti i vantaggi rispetto a polinsaturi. Il monoinsaturo è più resistente alla temperatura e all’ossidazione però è un insaturo, quindi più aromatico rispetto al grasso bovino”. Sarà per questo che i prodotti sono così commoventi nella loro bontà. Gioca anche il fatto che vengono realizzati dai migliori artigiani: “Quando abbiamo iniziato ad allevare il maiale in modo diverso abbiamo cercato chi ci facesse i salumi. Siamo andati a cercare i migliori per valorizzare la materia prima”. I prodotti vengono lavorati in Val di Fassa e Val di Non in Trentino per lo speck e la carne salada, nella Bassa Piacentina per la coppa e la pancetta, nel cremonese per i salami, a Bologna per la mortadella e nella zona di Parma per il culatello e la spalla cotta di San Secondo, la preferita del parmense Giuseppe Verdi. D’altra parte, in queste terre di bassa, di qua e di là dal Po, il salume è devozione: “Mio padre girava col salame in tasca. Era la sua passione. Se a fine pasto c’era il formaggio, mangiavamo mezzo salame. Se non c’era il formaggio, ne mangiavamo uno intero”, racconta Giuseppe.

Una storia di famiglia. “Mio nonno era nato nel 1865, ed era emigrato in Argentina. Poi la mamma lo ha voluto indietro ed è tornato per fare il contadino. Era un poveraccio, ma in gamba. Dopo un anno, era già un capo-uomo di un’azienda importante. Poi ha sposato la figlia del padrone. Ha preso in dote una mucca e un fazzoletto di terra. Ha avuto quattro figli maschi. L’azienda si è sviluppata e negli anni ‘50 aveva la stalla più grande della zona. Qui avevamo uno degli allevamenti di galline tra i primi d’Italia, un boom. Poi mucche da latte, con caseificio, facevamo il Grana, un Grana fantastico, quello stagionato ti lasciava il profumo di latte in bocca e poi di fiori, di erba”. Ma come è venuto in mente a Giuseppe e a suo fratello Mario di fare della norcineria una forma di alta gioielleria? “Mio cugino faceva parte dell’Accademia Italiana della Cucina, appassionato, con l’hobby per le materie prime. Un fissato. 35 anni fa mi ha detto: ma perché tu che hai i maiali non provi a fare salumi, al meglio possibile, senza vedere cosa costa. A livello hobbistico. Abbiamo così fondato un club del maiale. Eravamo in sei. Amatori. Tutti appassionati”. Ma l’alta gioielleria costa. Giuseppe ci perdeva. Eppure, ha intravisto la strada giusta per creare qualità non solo per hobby. Ha richiamato il figlio Stefano dall’Inghilterra, dove faceva il tecnico del suono e ci ha provato seriamente. Contro ogni logica. Il settore dell’allevamento è in perdita. L’agricoltura tradizionale è finita. È tutto in mano ai grossi gruppi. Non ha senso, economicamente parlando, curare il prodotto. Questo almeno è quello che pensano i più, senza considerare il patrimonio culturale e la potenzialità commerciale di un prodotto raffinato e curato.
“L’industria si basa sulla grande quantità e sulla bassissima qualità e deve fare il prezzo. Riescono a fare il salame stagionato in meno di un’ora. Noi invece siamo una boutique. A Cremona una gastronomia vende un nostro prosciutto di cento mesi, otto anni e mezzo. Sono prodotti che vanno fuori dagli standard. Per fare bene le cose non dobbiamo preoccuparci del prezzo ma dobbiamo solo cercare di fare il meglio”.
Ecco la grande questione: quanto siamo disposti a pagare per la qualità?
“Prendiamo per esempio la mortadella. Noi la vendiamo a un prezzo all’ingrosso che è almeno il doppio di quello normale. È un prodotto solitamente associato a un prezzo basso e ci prendevano tutti in giro per i nostri prezzi. Ma l’artigianato ha costi alti”. Va cambiata la mentalità: “è stata una guerra anche con gli stessi artigiani che ce la facevano. Ci dicevano, ma a farla così costa una follia. Ma cosa ti interessa a te! Dicevo io. Ci soffrono a fare la roba come facciamo noi”. Eppure, la follia di Giuseppe e Stefano ha avuto ragione. “Se non ci fosse stato il Coronavirus avremmo avuto dei risultati spettacolari. Tanto è vero che a gennaio abbiamo venduto più che a Natale. A febbraio più che a gennaio. Stavamo crescendo molto. Ma ci sono voluti degli anni. Accettare un prezzo diverso da quello del mercato è veramente difficile. Se vuoi sostenere un lavoro del genere devi essere disposto a pagare di più”.

Purtroppo, la clientela spesso sceglie di essere presa in giro: “mia zia, per esempio, era un’appassionata di coppa. Quando ho iniziato a produrle io gliene ho mandata una, fatta con tutti i crismi. Lei non mi ha risposto. Allora l’ho chiamata: zia? La coppa? Sì, buona, ma è industriale, mi ha risposto: te la faccio assaggiare io una coppa nostrana. Quando l’ho mangiata ero sconvolto. Era, noi diciamo, imbagarenta, piena di acqua e puzzava di maiale in modo immondo”. Il lavoro che c’è dietro ogni prodotto lo si capisce solo mangiando. Solo così si può capire qual è il prezzo di ogni lavorazione: “mettiamo il cotechino – spiega Giuseppe – il nostro è fatto solo con la testa del maiale. Abbiamo una persona, forse l’ultimo che è rimasto in Italia, che lavora in esclusiva per noi. Fa un lavoro incredibile e fisicamente faticoso, si sfinisce a forza di disossare. Di solito il cotechino viene fatto con una macchina che tira fuori la carne. Il problema è che arriva dentro di tutto, pezzi che puzzano”. Chi scrive è testimone: il cotechino Bettella è una prima volta. Come non averne mai mangiato uno. Come non aver mai visto in una carne quella gamma che dal rosa chiaro arriva al rosso intenso, così viva, così sana, così struggentemente bella. Alla fine, tutto ha la sua parte, occhio, gola, cuore e cervello. E il senso di colpa ipocrita del mangiatore compulsivo un po’ si placa al pensiero di un maiale così curato, così amato, così tranquillo.