Quando ero piccolo, a dieci minuti da casa mia c’era un locale chiamato The Kahiki, un Polynesian Supper Club. Era un edificio a forma di A, dipinto di nero e rosso, grande duemila metri quadrati, che ricordava una canoa da guerra ed era circondato da un fossato. All’ingresso c’erano due finti Moai dell’Isola di Pasqua con teste fiammeggianti e l’interno era decorato come le presunte case per riunioni di villaggio della Papua Nuova Guinea, pieno di piante tropicali e acquari. Se qualcuno ordinava il mystery drink per quattro persone – servito in una grande coppa da punch – suonava un gong e una donna in gonnellino di paglia lo serviva per poi “sacrificarsi” in un vulcano fumante. Il menu era per lo più cantonese, con più ananas del solito, e non aveva nulla a che fare con la cucina autentica delle isole del Pacifico del Sud. Eppure, all’epoca, era meraviglioso.
Nelle città di medie dimensioni in piena espansione e nelle periferie in crescita degli Stati Uniti, tra gli anni 30 e gli anni 80, in luoghi che non avevano una cultura gastronomica come quella di New York o Chicago, questi strani supper club rappresentavano l’equivalente dell’alta cucina. Erano gestiti per lo più da veterani della Seconda Guerra Mondiale che avevano intravisto il Pacifico del Sud e desideravano essere trasportati altrove, anche in un luogo ridicolmente idealizzato, per riallineare i propri ricordi agli orrori della guerra. In un contesto provinciale e bizzarro, era una celebrazione del lusso, non del tutto dissimile dalla cucina dei grandi palazzi ottomani o dei banchetti rinascimentali.


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