Ho passato più di dieci anni a chiedermi, quasi quotidianamente, se fosse possibile (e se avesse senso) identificare con chiarezza il confine tra l’osteria e l’alta ristorazione (una formula che non mi piace, ma piuttosto chiara). Nei tanti anni da curatore della guida Osterie d’Italia di Slow Food Editore ogni giorno mi sono posto la questione e ho costantemente spostato l’asticella un po’ più in avanti o un po’ più indietro. Costantemente ho cambiato l’oggetto da osservare passando dalle ricette, alle materie prime, dall’ambiente al servizio, senza mai trovare una vera risposta che non contenesse già in sé l’eccezione. Poi, però qualche giorno fa, durante il pranzo inaugurale dell’edizione estiva di Buonissima (l’evento annuale pensato e curato da Matteo Baronetto, Stefano Cavallito e Luca Iaccarino e realizzato da To-be Events) ho capito che forse la risposta che ho cercato in modo così assennato non c’è, perché un confine fisso non esiste.
C’è un continuo tra le diverse forme di ristorazione e a seconda del contesto, del servizio, dell’atmosfera lo stesso oggetto può divenire qualcosa di differente e appartenere a generi diversi.
A sollecitare questa riflessione è stato uno dei piatti più importanti della storia della ristorazione italiana contemporanea. Il Risotto bianco con polvere di caffè e capperi di Pantelleria è stato servito alle Calandre per la prima volta nel 1997.


Insieme al Riso oro e zafferano di Gualtiero Marchesi (del 1981) è probabilmente il piatto a base di riso che più ha influito sull’idea contemporanea di risotto e sulle sue possibilità. Questo risotto – in una versione aggiornata e adattata alla stagione con l’aggiunta di cipollotto bianco – era anche uno dei due primi piatti serviti durante il pranzo nel quale Massimiliano e Giovanni Alajmo (del tristellato Le Calandre) erano ospiti dell’Osteria Antiche Sere della famiglia Rota, istituzione torinese del mangiare informale e di cosa significhi ospitalità. Già di per sé questo incontro a me è sembrato potenzialmente eccezionale sin da quando ne ho letto la prima volta: mi incuriosiva vedere come due mondi e due approcci alla cucina apparentemente distanti avrebbero dialogato; capire come le dinamiche e le sfumature della cucina di Massimiliano Alajmo si sarebbero appoggiate nella comodità informalissima delle Antiche Sere. Ecco, l’elemento più sorprendente è stato che questa distanza non è sembrata esserci, forse per via dell’attitudine famigliare all’ospitalità e per una propensione di entrambi alla ricerca della profondità gustativa (poco importa se raggiunta con una semplice frittata di erbe tardo primaverili o con uno spaghetto freddo con salsa di conchiglie e crudo di mare). Un’ipotesi che mi ha confermato lo stesso Massimiliano Alajmo: “È stato un incontro dove sono emersi l’importanza dell’autenticità, della verità, dell’accoglienza e del sorriso. Raramente nella mia carriera ho partecipato a momenti nei quali ho ricevuto tanto affetto e stima come nel pranzo e nella cena da Antiche Sere. Anche il fatto di essere due famiglie abituate ad ospitare e ad accogliere ci ha aiutati a capirci con grande spontaneità”.



La vera magia però è avvenuta quando è arrivato in tavola il risotto: servito in uno spesso piatto da osteria, messo al centro in condivisione quella preparazione così emblematica e rivoluzionaria si spogliava della sua sacralità e diventava un classico della cucina italiana. Quella che stavo vivendo era una sorta di illusione gastronomica: stavo mangiando uno dei piatti più creativi degli anni Novanta, simbolo dell’avanguardia gastronomica di quel momento, ma la mia percezione mi portava altrove. E l’aspetto più interessante è che il piatto in sé non ne usciva ridimensionato da questa illusione, anzi emergeva in tutta la sua essenza e in tutta la sua immortalità. Funzionava anche fuori dal suo contesto originario ed entrava nel mondo assumendo forme e possibilità nuove. Davanti a me non si mostrava solo l’idea che la cucina è una lunghissima linea sulla quale scorrono in continuità molte possibilità senza interruzioni e contrapposizioni, ma si chiariva anche la necessità di inserire ogni elemento, ogni volta, nel contesto in cui si offre e di ridimensionare l’importanza della ricetta che spesso consideriamo, invece, l’unità base della cucina. Un concetto, tra l’altro, già sintetizzato perfettamente da Gualtiero Marchesi quando affermava che nella ricetta, come in uno spartito musicale, c’è tutto tranne l’essenziale.

Che tutto questo sia avvenuto in questo incontro, che mi è sembrato sin dall’inizio allo stesso tempo interessantissimo e bizzarro, a pensarci bene, però, non mi stupisce. I Rota –Antonella, Daniele e Claudia – hanno infatti saputo negli anni costruire un luogo che somiglia più a una casa che a un ristorante. Un posto pieno di cose buone e di voglia di condividerle. Gli Alajmo hanno sempre cercato di rompere le barriere tra alto e basso, tra dolce e salato, tra formale e informale, tra apparenza ed essenza (Le Calandre è stato, nel 2010, il primo ristorante con tre stelle Michelin ad aver tolto la tovaglia dai tavoli non per privare il cliente di qualcosa ma per permettergli di godere della bellezza dei tavoli che erano sotto), tra comprensibile e inclusivo, più in generale tra i sensi. Un bellissimo messaggio nei giorni in cui a Torino si è celebrato l’approccio più esclusivo alla ristorazione che si possa immaginare, quello dei 50 migliori ristoranti del mondo che però Massimiliano invita a guardare da un altro punto di vista. “Queste giornate di Torino, che per molti sono state quelle della competizione e della classifica, per noi cuochi sono state un momento fantastico per trovarci, parlarci, scambiare idee o semplicemente rilassarci conoscendo i ristoranti di questa stupenda città. Con gli amici colleghi con i quali ho passato le ore a Torino non ho necessariamente parlato di cucina anzi, ho passato sere a discutere di tennis, di letteratura, di arte. Sono state giornate di approfondimento delle nostre conoscenze e dei nostri rapporti umani. Un aspetto centrale per poter crescere”.