collisioni emozionali
Maria Solivellas: Maiorca nel sague
Chi non possiede se stesso, è estremamente povero
Testo di
Xavier Agulló
Testo di
Claire O’Keefe
Da Cook_inc N. 25
Maria Solivellas: Maiorca nel sague
11 minuti

Il tempo scorre calmo, quasi statico a Caimari, delizioso quanto remoto villaggio nascosto agli insolenti sguardi guiri (così sono chiamati i turisti) nel profondo della Sierra de Tramontana maiorchina, mentre aspettiamo Maria Solivellas, la chef il cui impegno nei confronti di Maiorca, dei suoi territori, delle sue tradizioni e dei suoi sapori sconosciuti l’ha strappata a un vertiginoso futuro fatto di riflettori e backstage rock, nel furore dello show business di New York. Siamo qui, lontani da fragori, per percorrere con lei i paesaggi che sono il suo immaginario e la sua sensibilità, che sono i suoi piatti. La sua vita. E per cercare di cogliere con i suoi occhi emozioni gastronomiche perdute: l’anima culturale e culinaria di Maiorca.

10.00 – Caimari

Il bar Ca Na Tome, a pochi metri dal Ca Na Toneta, il ristorante di Maria e della sorella Teresa, è il primo punto di incontro. L’équipe, con Anna e la fotografa inglese Claire O’Keefe (anche artista, che crea la provocatrice “gioielleria effimera”, pezzi “vivi” realizzati con agli, peperoncini o rametti d’olivo con scadenza ravvicinata), è al completo. Arriva Maria… “Mi piacerebbe farvi vedere il mulino a pietra di Sebastià, es moliner come è conosciuto da queste parti, che si trova a Sa Pobla (paesino vicino, noto per le sue ricchezze agricole, in particolare le patate e il riso dell’Albufera) ed è l’ultimo che rimane”. Nonostante Sebastià sia in pensione già da tempo, ci spiega la cuoca, continua a lavorare per qualche “patito dell’onestà”, tra cui Maria. “Il dramma – continua la chef – è che tra non molto il mulino è destinato a scomparire, perché sua figlia, che non vuole saperne di mulini tradizionali, ha un commercio di prodotti fitosanitari proprio alle spalle del mulino e vorrebbe allargarsi”. Assurdo paradosso, terribile segno dei tempi. Oggi, poco ma sicuro, sono pochi quelli che desiderano seguire “il sentiero nascosto” distante da quanti “la sangre ensalza o el dinero” (ndt: si esaltano col sangue o col denaro). Non c’è futuro per un mulino tradizionale a pietra, se non per determinati downshifter che finiscono per trasformare qualcosa di onesto in una installazione gourmet destinata a contenere la coscienza ecologia degli snob. “Sebastià è vero, mi ci sono voluti 10 anni per farmelo amico e recuperare l’antico grano Xeixa, con meno glutine, più digeribile, dolce, ancestrale”. Con questo grano quasi scomparso, Maria ha reinventato le famose coques mallorquinas (una specie di focaccia/pizza), eliminando lo strutto e aggiungendo diversi nuovi condimenti. La coca, ovviamente, è uno dei piatti principe del Ca Na Toneta e assoluta protagonista del ristorante di Palma de Mallorca. Sì, Maria ha fatto scuola con la ricetta più emblematica dell’isola. L’ha fatta quando, anni fa, con grande sforzo personale, ha deciso di recuperare l’ormai famoso (grazie a lei) peperone Tap de Cortí (presente solo a Maiorca), segreto finale della sobrasada mallorquina

Qué descansada vida
la del que huye del mundanal ruido,
y sigue la escondida
senda, por donde han ido
los pocos sabios que en el mundo han sido

¡Oh monte, oh fuente, oh río!
¡Oh secreto seguro, deleitoso!
Roto casi el navío,
a vuestro almo reposo
huyo de aqueste mar tempestuoso”.

Fray Luis de León

ndt: Che vita riposata quella di colui che fugge dal frastuono mondano,
e segue il sentiero nascosto, dove sono andati i pochi saggi che al mondo sono stati 

O monte, o fonte, o fiume! O segreto sicuro, delizioso! Rotta quasi la nave, al tuo riposo almo Fuggo da questo mare in tempesta”.

Il cuore del Ca Na Toneta

Alle origini della cucina di Maria Solivellas c’è sua madre. L’orto di sua madre. Di Caterina. Quando arriviamo, due dei payeses, i contadini che se ne occupano, stanno arrostendo peperoni alla brace sotto il sole. Perché “l’orto è la mia cucina di produzione”, sorride Maria. È vero: è qui che crea il menu del ristorante, secondo il ritmo capriccioso delle stagioni, del clima, del volubile spirito mediterraneo. Appesi nel portico, Caterina ha i suoi squisiti domàtigues de ramallet (un equivalente dei pomodori appesi), autoctoni dell’isola, coltivati in seccagno, fondamentali per preparare il sofrit (soffritto) tradizionale. “L’industria alimentare, perversa, li ha falsificati a mai finire, e oggi come oggi siamo pieni di fake, riflette Maria, non senza un velo di malinconia. In ogni caso qui sono veri e grazie alla loro lunga durata al Ca Na Toneta vengono usati per diverse preparazioni. Come gli higos chumbos (i fichi d’India), le carrube, i peperoni, i fagioli, le melanzane, le mandorle, le olive, gli agrumi… Tutto rigorosamente ecologico e autoctono. E come se non bastasse, nella sua proprietà in piena campagna, Maria coltiva altri orti. E la sorella, nella sua finca, ne coltiva altrettanti. Al Ca Na Toneta non si fanno prigionieri. 

Quindi, ancora una sbirciata alla dispensa del ristorante per trovare la vocazione di raccoglitrice di Maria. “Mi affascina perdermi per i boschi a raccogliere lumache, erbe, funghi… ho più una vocazione di raccoglitrice che di cuoca”. In realtà, Maria, prima di entrare in cucina, aveva piantato il suo orto. È stato proprio allora che ha sentito questo legame tellurico con la terra, con la sua terra. Da tellurico è diventato un legame culturale. Per scivolare più tardi verso l’edonismo. Ma non vogliamo anticiparvi niente. 

Pur avendo una visione fortemente olistica, Solivellas ha iniziato a cucinare piatti fusion, in voga in quegli anni. “Non ero soddisfatta, ma non sapevo dove andare”. È stato proprio da questa ricerca alla cieca che si è avvicinata alla cucina maiorchina, che allora non vantava alcuna presenza significativa sull’isola. “Ho iniziato cercando di capire le ricette tradizionali, spostandomi da un villaggio all’altro, parlando con gli anziani – ricorda – è stato così che ho imparato la cucina”. Lo shock è stato quando si è resa conto che la cucina popolare di Maiorca era dieta mediterranea allo stato puro. “E, ovviamente, mi sono messa a imitare gli ancestrali”. Donna dai pensieri sinergici, il passo verso l’ecologia è stato quasi casuale, perché nell’imparare le tradizioni, ha capito che non sarebbero state possibili senza il totale rispetto del terroir. Ma la strada che è seguita non è stata certo in discesa. Con un irrinunciabile carattere introverso, Maria ha preso terribilmente sul serio la sua militanza ecologista. “Ho metabolizzato l’ecologia dalla sofferenza che mi suscitava vedere quanto accadeva; l’ho affrontato da una prospettiva anglosassone”, ride. “Eppure mi mancava la visione edonista, quella mediterranea, la mia, non quella calvinista”. Ride ancora. Una volta centratasi nella tradizione ludica del Mediterraneo, tutto è diventato più semplice. “E se usassi solo prodotti maiorchini?” E così fu. 

“I’m goin’ up the country, baby don’t you want to go?
I’m goin’ to some place, I’ve never been before
I’m goin’ I’m goin’ where the water tastes like wine”.

Going Up the Country 
Canned Heat

Da Manhattan al terroir

Madrid. 2001. Maria Solivellas è un’agguerrita produttrice musicale, appassionata di rock, musica latina e nuovo flamenco. Serate intense con Raimundo Amador; balli estenuanti con Celia Cruz… Di festa in festa. Ma questo maelstrom le diventa sempre più gravoso, più estraneo. “Non mi vedevo in quel turbinio per tutta la vita”. No, Maria si vede con un lavoro più manuale, più artigiano, più creativo e inizia con un grande classico: la ceramica. Eppure, come sempre: “Quando vuoi lasciare qualcosa, ti piovono i lavori in quel settore”. Così le arriva la proposta definitiva, lavorare con Paquito D’Rivera a New York. Manhattan si apriva all’orizzonte. “Decisi allora di passare l’estate a Maiorca e riflettere bene sulla proposta”. Al suo arrivo, il ristorante di sua madre e sua sorella era già aperto da tre anni, a Caimari. Lo avevano aperto perché erano rimaste folgorate dal film Come l’acqua per il cioccolato, come vanno le cose, un motivo così frivolo si era trasformato in un grande successo di pubblico. Eccole intente a servire entrecôte al pepe e qualche piatto fusion in un ambiente accogliente e familiare, con tanto di mesas camillas, quei tavolini rotondi apparecchiati con tovaglia fino a terra, sotto al quale è infilato un braciere. Maria trova la madre già stanca, nonostante tutto, del giocattolo nuovo e pensa che non le sarebbe dispiaciuto mettersi ai fornelli e imparare qualcosa per migliorare la sua alimentazione personale. Ma… finisce col provarci gusto. E si affeziona.

Arriva settembre e deve pur prendere una decisione. New York la aspetta. E proprio allora c’è l’attentato alle torri gemelle. Vedendolo in televisione, per Maria è tutto chiaro, come un segnale: non aveva perso niente a Manhattan. E comincia a leggere con passione ogni tipo di libro di cucina, e si mette a cucinare con sua madre, cuoca intuitiva. “Mi diceva semplicemente degli ingredienti: metti quel che ti chiede il piatto”. È così che la Solivellas scopre gli arcani culinari, ormai definitivamente al ristorante. Un’altra decisione. “Ho messo da parte tutti i piatti di successo, mi annoiavano… e la gente ha smesso di venire” (risate). Inizia a elaborare cose nuove, più fusion, trippa, zuppe maiorchine e a riprodurre le ricette tradizionali. “Con piatti come il Millefoglie di vitello con foie gras e riduzione di Pedro Ximénez inizia a tornare il pubblico”, ricorda. Sì, Maria faceva la cucina che colpiva, quella alla moda. 

“Maiorca è il paradiso, se riesci a sopportarlo”.

Gertrude Stein a Robert Graves

La strada verso le origini 

Maria non si dà pace. E inizia a riflettere di nuovo. Da dove viene il foie gras? Da dove viene tutto? E guarda e riguarda il suo orto. Il suo ambiente. Ed è qui che veramente tutto ha inizio. “Parlare adesso di cucina di prossimità e identità è normale, ma 18 anni fa non lo era”. La strada era stata tracciata, non solo da un punto di vista culinario, ma anche economico e sociale. Lungo il percorso ha dovuto aggirare gli ostacoli che si trovava davanti. E non si è più fermata. “Non faccio una cucina tecnicamente avanzata, ho sviluppato un altro modo di andare avanti, sempre senza riferimenti”

Il mulino… e il Ca Na Toneta

E infine il mulino a pietra di Sa Pobla. Sebastià, es moliner, ci aspetta circondato da sacchi di farina, davanti alle pulegge, cinghie e antichi artefatti in legno che fanno girare la macina. “Non faccio più la farina”, ci spiattella. Restiamo di stucco. Come? Non è quello che ci avevi detto, Maria! Maria è la prima a stupirsi, anche se dopo averci parlato dice che gli fa male un ginocchio e che adesso la pensa così, ma probabilmente tra qualche settimana farà ancora un po’ di questa farina di Xeixa quasi testimoniale. Tuttavia dal silenzio degli ingranaggi si respira, in quest’ultimo mulino, la malinconia, la fine.

Ancora avvolti dalla tristezza perché si percepisce un altro finale, ci dirigiamo al Ca Na Toneta, i carrubi, i mandorli, gli ulivi ci salutano dai campi. Parliamo della creatività di Maria.

“Io sono molto lenta nel creare, come i paesaggi che mi circondano e sempre influenzata dalla cucina tradizionale, che reinterpreto a modo mio”.

È vero. In Maria c’è il remoto, ma con queste collisioni emozionali con il contemporaneo. “Dal codice tradizionale ho creato il mio”, ribadisce. La prima cosa, sicuramente, era decodificare la cucina maiorchina e i suoi motivi culturali; la seconda, aggiungervi un’emozione personale. Le polpette, ad esempio, le fa quadrate, di carne con seppia. “Sono autodidatta, per questo mi affido molto all’intuito. Nel mio metodo creativo vi sono i sapori della mia infanzia, la riscoperta della varietà locali, i produttori…” 

Cocina verité. “Il nostro paesaggio oggi: mandorle ed erbe dell’orto, orzata di pino e pinoli”. Luci della Tramontana. L’olio essenziale di pino che evoca sinuosamente il bosco, panorami aperti con sensazioni intime… Girgolas (funghi ostrica), prezzemolo e aglio. Uno schiaffo di autenticità, e sapori, senza mistificazioni. Coca de trempó. La felicità in una texture che brilla di sole mediterraneo, la delicatezza applicata alla sincerità. Lampuga e fico en papillote di foglia di fico. Il fremito del territorio in una cottura taumaturgica. Fagiolini, pancetta di maiale nero maiorchino e vinaigrette di mandorla. Texture ebbre di se stesse. Greixera (pasticcio) di maiale nero, rucola selvatica e prugna, il grande spettacolo della succulenza dominata. Fumetto di gamberi con uovo in camicia. Bellezza, essenzialità, solo gambero. “What you see is what you get”. Raor (il pesce pettine, che si pesca per un brevissimo periodo dell’anno e di una squisitezza impossibile) e la escalivada. La delicatezza di una carne miracolosa e la profondità della terra. Sensazioni inspiegabili. Formaggio di pecora rotja, con caglio vegetale, e Mahón di latte crudo di vacca minorchina anch’esso con caglio vegetale. E Brownie di carruba con gelato di fico d’india e menta. In una parola: Maiorca.


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