Appena do un morso torno indietro nel tempo. È un effetto noto. Si chiama madeleine, ispirato a uno dei tanti passi di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust che molti citano e pochi hanno letto. Un sapore familiare, che ti accarezza, che ti riporta a un preciso momento della vita, al ricordo di una persona o di un luogo. Uno stargate. La cosa strana è che io sono in Corea del Sud, in un ristorante con le luci soffuse e le posate eleganti. E il ricordo è distante nel tempo quasi una trentina d’anni e nello spazio oltre 9.000 chilometri. Seoul, 2025 – Ascoli Piceno, seconda metà degli anni 90.
Ho appena dato un morso a un cetriolo ripieno, dopo una giornata trascorsa a visitare Palazzo Gyeongbokgung e il vicino villaggio Hanok; ma al tempo stesso sono sul tavolo bianco della cucina di mia nonna, seduto a capo tavola, appena tornato da scuola, e sul piatto ci sono le zucchine farcite con la carne macinata.


On6.5 è un ristorante nel centro di Seoul, sempre che si possa parlare di centro in queste megalopoli dai confini sfilacciati e dai baricentri mobili. Propone una cucina coreana che vuole raccontare il kimchi in una veste nuova, sia ai locals sia a chi si trova in Corea del Sud in vacanza o per lavoro. Parlo con Jae won Choi, il founder del ristorante insieme allo chef Jung Soo Lee, che mi dice che la cucina coreana è troppo legata a un immaginario “classico” del kimchi, quello piccante di cavolo rosso,
“Ma in realtà ne esistono molti tipi diversi, ognuno con il suo charm, unico”.
Così Jae inizia a introdurmi al kimchi, alla cultura enogastronomica coreana e, soprattutto, alla sua idea di cucina.
Jae won Choi e lo chef Jung Soo Lee provengono da un background stellato, il primo come head manager all’Evett, il secondo – dopo un’esperienza a Parigi, anche nella scuola di cucina Le Cordon Bleu – al Bicena. Due rinomati stellati della capitale sudcoreana. Le due esperienze hanno creato la miscela più adatta per una cucina rispettosa della tradizione, ma in grado di evolvere verso orizzonti più contemporanei e internazionali, grazie anche a un twist dato dall’unione delle tecniche del posto con quelle occidentali, “creiamo piatti che siano nuovi ma familiari per gli ospiti locali, e familiari ma nuovi per quelli internazionali”. Una visione in grado di valorizzare i punti di forza della cucina coreana: “La cucina coreana affonda le sue radici nella fermentazione e nella ricchezza delle verdure stagionali. La fermentazione è in grado di creare una profonda interazione tra acidità, dolcezza e umami. Le verdure permettono di avere sempre kimchi diversi, che ruotano. La fusione di questi due elementi crea K-Food molto affascinanti”.

Al centro della loro proposta c’è il kimchi, tanto che On6.5 chiama i suoi piatti “kimchi-tapas”.
Un alimento vivo, che sviluppa nuovi sapori nel tempo, costruendo una scala con decine di ottave di ampiezza in base agli ingredienti usati e alle tempistiche di preparazione. Chiunque sia stato almeno per un pasto in Corea del Sud si trova a fare – più o meno felicemente – i conti con l’onnipresenza del kimchi di cavolo rosso: tra i banchan come contorno di qualsiasi piatto principale, o nei mercati steso sui banchi dei venditori. Ma il kimchi è molto di più: “Il kimchi rosso è sicuramente il più comune e tende a essere piccante, aspro e ricco di umami, il che lo rende indispensabile sulla tavola coreana. D’altra parte, però, il kimchi preparato senza peperoncino in polvere ha un sapore più pulito e rinfrescante, come il dongchimi, un kimchi di ravanello bianco servito con un brodo fresco e limpido”.
Il locale è estremamente silenzioso, con un design minimalista ma caldo, i tavoli distanziati, le ampie vetrate su strada puntinate di vasi quasi a richiamare i pattern di un museo archeologico. Appeso alla parete centrale c’è un disco di metallo, illuminato da dietro come una grande eclissi. I camerieri spiegano con cura ogni portata. La responsabile di sala l’anno scorso ha visitato l’Italia. Uno di quei Grand Tour che fanno i turisti che arrivano nel nostro Paese da altri continenti. Parliamo di piccante: “Anche voi in Italia mangiate piccante. Ma è un piccante diverso, più diretto. Il nostro è quasi sempre un piccante fermentato, e quindi lavorato, che evolve, non si ferma. Anche in bocca. È un po’ come il sorso di un vino, che si trasforma”.
Il kimchi di cetriolo bianco, l’Oi-seon, quello dello stargate: un piatto che nasce alla corte reale, a base di cetrioli salati tagliati a rondelle, farciti con manzo e verdure, serviti con brodo. La versione di On6.5, nel ripieno, prevede sciroppo di yuzu coreano e manzo saltato, accompagnato da un brodo freddo, ispirato ai naengmyeon, i noodles che vengono consumati freddi. Se il kimchi di cetriolo bianco è un portale spazio-tempo, il kimchi fritto è un’astronave: uno di quei piatti che riempiono la bocca di gusto, facendoti decollare. Senza menate intellettuali. Jae mi racconta che “si ispira al kimjang, la pratica, tradizionale e collettiva, di preparare e conservare il kimchi. Al posto della classica salsa di gamberi fermentati, riempiamo il kimchi bianco salato con gamberi, poi lo arrotoliamo e lo friggiamo. Il piatto viene servito con due salse: una panna acida infusa con brodo di dongchimi, presentata come un Mont Blanc, e una piccante alla maionese, miscelata con due tipi di kimchi fermentato e salsa di soia”.
Viaggiando, e mangiando, in Corea del Sud, una presenza perenne, nei ristoranti e nei mercati, sono i tteokbokki, gnocchi di riso conditi solitamente con la gochujang – salsa fermentata al peperoncino rosso), riso glutinoso, meju (blocco di fagioli di soia fermentati) e malto d’orzo.
Un altro alfiere della gastronomia coreana che nella cucina di On6.5 si trasforma, viene risemantizzato.
Invece che nella consueta scodella o padella bollente, i tteokbokki sono serviti in un caquelon come quelli che si usano per la fonduta: vengono poi ricoperti di mozzarella, mentre al lato sono accompagnati da spiedini di verdure e sundae (la tipica salsiccia locale che assomiglia al nostro sanguinaccio) pastellati e fritti. Il piatto diventa così un gioco da comporre: gli spiedini si immergono nella salsa piccante in cui navigano i tteokbokki, mentre la mozzarella fila e si scioglie all’interno. Il formaggio fuso è un trend molto diffuso nella cucina coreana contemporanea. Non è un’esclusiva del fine dining, né dei ristoranti aperti 24 ore su 24 o delle bancarelle dei mercati, né tantomeno della cucina tradizionale. Racconta un’evoluzione molto naturale della cultura gastronomica locale: un’apertura alle influenze straniere, ai gusti che cambiano e alle mode internazionali che dalle nostre parti potrebbe suonare quanto meno eretica. Fino a qualche anno fa il formaggio fuso non veniva usato, poi con l’apertura a persone e idee dal resto del mondo, è diventato molto più presente nella cucina del Paese, anche andando a creare nuove versioni di piatti antichi, come il cheese dakgalbi che, come suggerisce il nome, è una versione del dakgalbi (semplifico dicendo “pollo piccante”) cucinato con mozzarella e altri formaggi fusi, fino a creare una sorta di brodo primordiale piccante e caseario.



I noodles freddi all’olio di perilla, una pianta aromatica tipica dell’Asia che cresce in estate, sono un altro piatto tradizionale che qui da On6.5 viene riscritto: “Utilizziamo noodles freschi fatti a mano conditi con olio di perilla e ingredienti di stagione. È un piatto tradizionale su cui abbiamo lavorato anche seguendo l’ispirazione di alcuni piatti che ho scoperto durante i miei viaggi culinari. Lo presentiamo al tavolo, dove mescoliamo i noodles con verdure e condimenti davanti ai commensali. La possibilità di variare stagionalmente gli ingredienti lo rendono un’esperienza rinfrescante e sempre nuova”.
Quando Jae dice che la sua ambizione è quella di preparare piatti che ai clienti internazionali suonino familiari ma nuovi, metto a fuoco l’esperienza che ho vissuto. Non è facile sentirsi a casa stando a 9.000 chilometri di distanza, a bordo di piatti mai provati.