Saggio
non-ristoranti
Riprendersi il menu, piatto dopo piatto
Tre storie di ristorazione in Colombia e in Perù ci mostrano il futuro a cui dobbiamo guardare
Testo di
Mao Shiotsu
Foto di
Camila Novoa
Riprendersi il menu, piatto dopo piatto
11 minuti

La Casa del Alimento non è un ristorante”, dice lo chef Nestor Jerez sorseggiando il suo cocktail mentre ci accomodiamo per una chiacchierata un martedì pomeriggio, dopo il servizio del pranzo. Siamo seduti a un tavolo di legno, su sedie spaiate dai colori vivaci, in una stanza luminosa tappezzata di fotografie e stampe di artisti provenienti da tutta la Colombia. Dalla cucina si sente parlare uno spagnolo melodico. Lo spazio non ha l’aria di un ristorante, ma piuttosto di una casa, nel quartiere di Medellín. Qualche giorno prima, durante il pranzo, l’esperienza era stata resa memorabile da un cameriere che, con pazienza, mi aveva introdotto ai prodotti autoctoni colombiani e mi aveva offerto assaggi generosi dei loro esperimenti di fermentazione. Non mi ero sentita una cliente, ma accolta come un’amica. Spesso capita dopo un pasto delizioso di lasciare un ristorante impressionati, o addirittura ispirati. Invece ho lasciato La Casa del Alimento sentendomi come una piccolissima parte di un qualcosa di vivo, in movimento, che respira, come se mi fosse stato concesso uno sguardo dentro la vita di una comunità.

Quasi un anno fa ho intrapreso un viaggio per imparare da persone in tutto il mondo che stanno re-immaginando ciò che un ristorante potrebbe essere.

Il Covid-19 ha fatto emergere conversazioni rimaste troppo a lungo inascoltate, non solo sui sistemi sanitari, ma anche sul mondo della ristorazione. Per secoli, il funzionamento interno dei ristoranti è rimasto per lo più avvolto nel mistero, ma le numerose chiusure durante la pandemia hanno fatto luce sulle fragilità strutturali del settore. Grazie alle inchieste, ai giornalisti e ai programmi televisivi, sono emerse le cause della carenza di personale: una cultura lavorativa tossica, i salari bassi, le difficoltà economiche anche dei ristoranti di fascia alta, i problemi legati all’approvvigionamento e allo spreco alimentare.

Come racconta la storica Rebecca Spang, i primi ristoranti con menu e camerieri nacquero nella Parigi di fine XVIII secolo. La parola “ristorante” in origine indicava una zuppa ricostituente, servita agli operai stanchi per ridare energia. Da lì in poi, il concetto si evolse rapidamente: nacquero luoghi come Méot o Les Trois Frères (considerati tra i primi ristoranti parigini) , che con posate d’argento e menu articolati, contribuirono a consolidare l’idea, ancora oggi dominante, che il ristorante debba mettere il cliente al centro e che il valore dell’esperienza cresca proporzionalmente al lusso offerto. Negli ultimi dieci anni, abbiamo assistito a un cambio, all’arrivo di un’ondata di ristoranti attenti al sociale e alla sostenibilità ambientale in tutto il mondo, ma se i problemi attuali erano già incorporati nella struttura del settore, mi sono chiesta se non fosse giunto il momento cambiare qualcosa di più. Se fosse necessario ripensare radicalmente il concetto stesso di ristorante e riconfigurarne le priorità per affrontare in modo radicale le carenze sistemiche. 

Quello che chef Jerez e il suo team stanno facendo a La Casa del Alimento risulta dunque affascinante. I piatti in menu – audaci preparazioni di prodotti locali di stagione ispirate a sapori internazionali – sono deliziosi, ma non sono gli unici protagonisti. Il cibo lì diventa uno strumento per condividere le conoscenze su ciò che la comunità ha da offrire. Come, ad esempio, il chontaduro, un frutto autoctono che sembra un incrocio tra una patata dolce e una zucca, che viene cucinato in un curry di pesce. O il miso che, invece, non è fatto con la soia ma con il mais colombiano, usato poi per la stagionatura della carne del tocino. La maggior parte degli ingredienti proviene dalle Comunidades que Sustentan la Agricultura en Colombia, un’iniziativa che mette in rete i contadini con le famiglie che vivono nei centri urbani e con i ristoranti, agevolando l’accesso a prodotti coltivati in modo sostenibile in tutto il Paese.

Dopo dodici anni trascorsi tra le cucine dell’America Latina – tra ristoranti di alta gamma e mercati popolari – Jerez è tornato nella sua città natale per dare vita a un progetto che avrebbe “salvato il mondo”, dice con un sorriso sicuro ma un filo d’imbarazzo e continua.

“Non volevamo solo dare da mangiare”.

Al contrario, ha immaginato un ambiente accogliente e accessibile per la comunità, per imparare gli uni dagli altri sulle culture alimentari; uno spazio il cui obiettivo primario non è quello di servire cibo, appunto, ma di organizzare progetti e conversazioni. Ad esempio, con il suo team ha organizzato laboratori su cibo e memoria, oltre a workshop sulle tecniche di fermentazione. Attraverso la serie Encuentros de Saberes, La Casa del Alimento invita persone provenienti da tutto il Paese, attive nel settore agroalimentare, a raccontare il proprio lavoro. L’ultimo Encuentro, lo scorso novembre, ha visto protagonisti i membri di Asocomán, un’associazione composta da 30 famiglie della regione di Sucre impegnate nella coltivazione e nella conservazione di specie autoctone. La Casa del Alimento è, prima di tutto, un luogo radicato nella comunità che la circonda. Un nodo vitale in una rete più ampia – che si estende dal Dipartimento di Antioquía a tutta la Colombia – animata da persone che stanno riconquistando la propria sovranità alimentare.

La sovranità alimentare è il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, prodotti in forma sostenibile ed ecologica ed è anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo. È un diritto fondamentale, spesso sottovalutato, importante ovunque ma ancor più nelle popolazioni che in passato sono state colonizzate e sono state private di questo diritto. La colonizzazione alimentare operata dagli spagnoli nelle Americhe – attraverso la monocultura imposta di specie non autoctone come grano e zucchero, l’introduzione e l’allevamento di bestiame europeo e la criminalizzazione delle cerimonie indigene legate all’agricoltura, tra molte altre imposizioni – non derivava solo dalla brama economica, ma costituiva un elemento essenziale della loro filosofia coloniale.

Nel libro The Body of the Conquistador (Cambridge University Press, 2012), Rebecca Earle analizza la convinzione dei colonizzatori spagnoli secondo cui ciò che si mangia contribuisce a costruire l’identità e il carattere di una persona. Gli spagnoli erano certi che mais, patate e altri alimenti fondamentali delle cucine indigene generassero un “corpo indio” considerato inferiore, mentre grano, olio d’oliva e vino dessero forma al corpo “spagnolo”, superiore. La loro spagnolità, per così dire, dipendeva dal consumo di cibi spagnoli e per questo imposero la propria cucina nei territori conquistati, mossi anche dalla paura di perdere sé stessi in terre lontane. Le popolazioni indigene hanno sempre resistito, trovando strategie per preservare le proprie culture alimentari – basta pensare alla nascita di cucine creole e meticce – ma, nonostante ciò, i sistemi alimentari originari furono in gran parte soppiantati.

Terre e biodiversità andarono perdute e i loro modi di coltivare, basati su un equilibrio profondo con la natura, vennero marginalizzati.

Negli ultimi dieci anni circa, in America Latina è emersa una nuova generazione di cuochi che, come lo chef Jerez, sta ridefinendo il concetto stesso di ristorante: non più solo luogo in cui si serve cibo, ma strumento per recuperare e custodire le culture alimentari e i sistemi agroalimentari delle comunità. In altre parole, un mezzo per decolonizzare i propri foodways. Due esempi emblematici sono Jaime Rodríguez (Celele, Colombia) e Virgilio Martínez (Central e MIL, Perù), entrambi inseriti nella lista dei 50 migliori ristoranti dell’America Latina. In modi diversi, entrambi mettono al centro dei loro progetti gastronomici ingredienti e tecniche tradizionali dei loro Paesi, spesso marginalizzati o poco apprezzati. Offrendo risposte alternative alla domanda “che cos’è un ristorante?” e conquistando spazio per le cucine latinoamericane nella scena gastronomica internazionale, questi cuochi stanno anche contribuendo a decolonizzare un’industria che, storicamente, è stata plasmata e dominata dalle potenze colonizzatrici. Sebbene questa enfasi sulla cultura culinaria non sia unica nella regione, la ricerca e la rappresentazione delle abitudini alimentari in America Latina è forse più stratificata rispetto ad altri ristoranti, ad esempio, di Francia, Spagna o persino Giappone, che non hanno mai visto la loro cultura alimentare minacciata in questo modo e quindi non hanno mai dovuto rivendicarla.

Celele, situato nel vivace quartiere di Getsemaní a Cartagena, è un omaggio al mestizaje dei Caraibi colombiani composto da diverse popolazioni, tra cui indigeni, afro e arabi. Durante la mia visita, Jaime Rodríguez mi ha raccontato che, arrivato a Cartagena dalla sua città natale nelle Ande colombiane, si era subito accorto della mancanza di ristoranti che cucinassero con ingredienti colombiani e della mancanza di un’autentica valorizzazione della cucina locale. È da questa constatazione che ha preso forma il Proyecto Caribe Lab, un’iniziativa volta a ridare vitalità a questo patrimonio, imparando dai produttori, dalle cuoche di casa, da chi il cibo lo coltiva, lo trasforma, lo tramanda. Rodríguez ha concepito Celele come un luogo in cui i colombiani potessero venire a cenare e vedere la loro ricca storia alimentare e la biodiversità del territorio nei piatti. Lo spazio è luminoso e accogliente caldo e le pareti sono tappezzate di ritratti scattati da un fotografo locale.

Rodríguez si dedica a sostenere i sistemi alimentari locali, sottolineando l’importanza di mantenere rapporti di mutuo beneficio con i produttori.

Tra questi c’è l’associazione Asocomán. Il ristorante fornisce strumenti agricoli e organizza workshop per le famiglie dell’associazione, che a loro volta riforniscono il locale con ingredienti nativi coltivati con cura e dedizione. Un altro gruppo da cui Celele si approvvigiona è Granitos de Paz, un’iniziativa nata per combattere la povertà estrema. Questo progetto offre alle famiglie a basso reddito di Cartagena gli strumenti necessari per coltivare piante e fiori nei propri giardini che poi vengono acquistati da Celele. Lavorare direttamente con produttori regionali non solo riduce l’impatto ambientale grazie a una filiera più corta, ma sostiene anche lo sviluppo economico locale.

A MIL, Virgilio Martínez, originario di Lima, ha ideato un menu composto da dieci portate interamente basato sugli ingredienti della regione di Cusco come le “alghe di montagna” chiamate kushuru e il sachatomate, un pomodoro arboreo. Il lavoro di ricerca sugli ingredienti è condotto da Mater Iniciativa, il cui ufficio si trova accanto alla sala del ristorante. Incuriosita da questa équipe di ricerca, ho deciso di raggiungere il sito, tra le alture del Cusco, per svolgere un tirocinio di tre mesi con Mater. Lì ho compreso come l’organizzazione porti avanti anche numerosi progetti con le due comunità indigene vicine, K’acllaraccay e Mullak’as Misminay, tra questi la costruzione di una scuola dell’infanzia e la creazione di circa 80 posti di lavoro legati al ristorante MIL. Uno dei progetti principali è Warmi, un gruppo di circa venti donne K’acllaraccay vegnono impiegate nella realizzazione di tovagliette e runner da tavola intrecciati secondo antiche tecniche di tessitura tradizionale e tintura naturale. Questi manufatti sono disponibili per l’acquisto da parte dei clienti, dando visibilità internazionale al patrimonio artistico e culturale della regione.

Reportage
ecosistema gastronomico
Don’t call it a Restaurant
Mater, la mente dietro all’ecosistema culinario di Central, MIL e Kjolle in Perù
Claudia van den Berg Morelli

Incuriosita della catena di approvvigionamento di MIL, una volta ho accompagnato i bartender nel loro giro di spesa settimanale. Ci siamo incontrati alle 6:30 del mattino al mercato del mercoledì nel piccolo paese di Urubamba, a mezz’ora d’auto da MIL. Ogni settimana, più di cento produttori locali, tra cui agricoltori e produttori di latte, si ritrovano in piazza per vendere alla gente del posto e ai ristoranti. Provengono dalle comunità vicine, dove ogni famiglia ha la propria chacra (l’orto) e alleva animali. Quella mattina abbiamo comprato radici e fiori che non avevo mai visto prima, come la Mullaska, una radice spessa dal colore rossiccio-bruno, e il Mutuy, un delicato fiore giallo.

Questi ristoranti rappresentano un’alternativa concreta all’industria tradizionale della ristorazione di lusso. Sono luoghi dove, a partire dallo chef, si impara da dove provengono i cibi, come nascono dalla terra e come nutrono il corpo. Fondati su ricerche approfondite sulle tradizioni alimentari culturali e collaborando con piccoli agricoltori e artisti locali, si propongono di essere parte integrante della propria comunità. Riprogettano il ruolo del ristorante, trasformandolo da semplice luogo di consumo a spazio collettivo, capace di decolonizzare. Inoltre, il riconoscimento globale di realtà come Celele e MIL contribuisce a decolonizzare anche la scena della cucina fine-dining, storicamente riservata a pochi Paesi privilegiati.

Tuttavia, rimangono alcune domande imprescindibili da porre. Questi ristoranti hanno prezzi elevati, alcuni più di altri. Il mondo fine dining ha senza dubbio il suo valore, ad esempio nel dare visibilità globale alle cucine e a progetti culturali locali, ma come dobbiamo considerare il fatto che rimane inaccessibile per molti? Cosa significa davvero stabilire un rapporto equo tra un’impresa potente e una piccola comunità? Possiamo davvero ridare sovranità alimentare alle comunità locali in un mondo intriso di disuguaglianze? Queste complesse questioni devono continuare a essere esplorate man mano che il concetto di ristorante continua a evolversi con la nascita di nuovi progetti sempre più innovativi, collaborativi e inclusivi.

Per ora, però, La Casa del Alimento, Celele e MIL stanno compiendo un lavoro rivoluzionario: questi ristoranti – o meglio, non-ristoranti – affrontano con coraggio le grandi sfide dei loro sistemi alimentari, decolonizzando il cibo e conservando il ricco patrimonio alimentare e culturale.

 


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