Mini-storia
antropologia del gelato
Industriale, artigianale, antropologico: viva il gelato sempre
Dalla pala alla coppa vintage: il gelato di Artico è uno strumento di aggregazione sociale
Testo di
Elisa Teneggi
Foto cortesia
Industriale, artigianale, antropologico: viva il gelato sempre
9 minuti

Il gelato di Artico, a Milano, è buono-buono. Dodici anni in città basterebbero per il fact checking, nel caso non si avesse avuto il (raro) privilegio di assistere a uno spadellamento di pistacchi – che equivale poi a una tostatura – e a una mantecatura di gelato in presa diretta (avviene attraverso macchinoni che assomigliano a pompe dello yogurt soft su scala allargata; ovviamente lo yogurt soft non c’entra niente). Non sono di Bronte, sul mercato non sono tanti, ma questa è un’altra – e forse vecchia – storia. Io sono qui in ottica antropologica. In primis per capire come si fa a battere la concorrenza degli altri gelati artigianali e non; e poi perché, questa primavera-estate, Artico ha lanciato alcune coppe gelato “vintage”. L’immagine è seducente e merita approfondimento.

“Papà faceva il gelato solo la domenica. Aveva un bar con la classica macchina a pala che si avviava solo durante le feste. O ai matrimoni. Si faceva fresco perché non c’erano i metodi giusti per conservarlo a lungo”. A parlare è Antonella Olivieri, braccio destro di Maurizio Poloni. In Artico, Olivieri si occupa della selezione degli ingredienti, oltre che dello sviluppo di nuovi gusti e della “direzione” dell’azienda. Pollini è la spatola dietro ad Artico, storia che inizia negli anni Ottanta a Novate Milanese, hinterland del capoluogo. La prima gelateria si chiama Sir Oliver, esiste ancora oggi e si porta sul petto i tre coni del Gambero Rosso, per chi segue. L’incontro con l’imprenditore Giuseppe Fioretti, nel 2012, significa la nascita di Artico. Il cui nome, oltre al richiamo polare, contiene il sunto del progetto: Arti per artigianale, Co per contemporaneo. Oggi, Artico è diventato Gruppo e conta quattro punti vendita a Milano, una scuola di gelateria, e un servizio di consulenza tecnica, produzione di semilavorati e corsi di formazione per professionisti.

“In quarant’anni il gelato è mutato radicalmente. Abbiamo assistito alla nascita di un prodotto pop, da elitario che era. Prima era offerto da latterie, bar e pasticcerie come un servizio aggiuntivo. È da circa la metà degli anni Settanta che la gelateria diventa una tipologia di attività a sé stante: vuol dire che si poteva pensare di sostentarsi con i ricavi della sola vendita di gelato”. Poloni, che ha preso la parola, specifica però che la storia del gelato artigianale parte da molto lontano, per quanto la voga sia più recente. Leggenda – per modo di dire, ci sono studi – vuole che siano stati i cinesi a inventarlo, in anticipo sugli italiani. È però in quegli anni che il costume cambia: il gelato diventa il lusso da concedersi con gli amici, il partner o la famiglia. Ci si siede a tavola o al tavolino, attimo di puro gusto e piacere esterno al pasto.

Il gelato si mangia perché si mangia, golosità.

In quei decenni, Ottanta e Novanta, tutti si ritrovano in gelateria, tanto in città quanto in provincia. È a questo momento che si rifanno le nuove coppe di Artico: quando il gelato non era ancora da passeggio, prima dei coni e delle coppette. “Non che ci sia un giusto o uno sbagliato. Sono usanze diverse per tempi che stavano e stanno cambiando”. C’è la Milano (gelato allo zabaione, pesche sciroppate, crumble di mandorle agli agrumi, amaretti, pasta zabaione a filo, lingua di gatto e panna montata), la Vintage (gelato al fior di panna, gelato al fondente 70%, gelato alla crema, variegato amarene, croccante di cioccolato, canestrello canavesano e panna montata), la Mediterraneo (gelato al pistacchio di Sicilia, gelato al cannolo, gelato alla mandorla di puglia, pistacchi e mandorle tostate, crunch di cannolo siciliano, mini cannolo, variegato al pistacchio e panna montata), la Estate (gelato al fior di panna, gelato alla crema, fragole fresche, salsa lampone, biscotto sigaretta e panna montata) – attenzione: sono disponibili solo nello store di via Bergognone. Nei bar in riva al lago (di Como, per esempio) si trova ancora la Coppa Fiesta, con l’omonima merendina Kinder sbriciolata. In Liguria (r)esiste la Coppa Paciugo, creme e panna con sciroppo di granatina, amarene sciroppate e granella di nocciola, inventata al Caffè Excelsior di Portofino nel 1941. Nella mia provincia di nascita, Reggio Emilia, ricordo la gelateria Nona Strada, che irretiva gli adolescenti: far merenda con un po’ troppo gelato.

Eh sì, perché la coppa, quale che sia, non è una “etta”: ne tiene di più, ci fa stare più liffi. Oppure più preoccupati per le calorie, gli zuccheri e, recentemente, anche dei costi. A cui anche il gelato, per le forniture degli ingedienti – “metti che un buon fondente al chilo ti sarebbe costato dodici, tredici euro, oggi viaggia sui trenta e più. Per contenere i costi, l’unica è diminuire la quantità” – è andato incontro. Ma non solo materie prime.

Sul primo aspetto, “alcuni clienti vogliono solo mangiare un buon prodotto, non hanno interesse nel conto delle calorie. Altri sono più esigenti, anche perché a volte si pensa che il cliente sia poco informato sul prodotto. Sul gelato non è così, la competenza è alta. E il mercato richiede anche soluzioni con dolcificanti alternativi allo zucchero o senza lattosio. Solo che le alternative allo zucchero non lo sostituiscono bene, e poi hanno effetti a lungo termine non ancora certi”. Pensiamo alla scenetta in cui un bambino vuole mettere tre creme nel cono e la mamma lo convince a metterci almeno un gusto alla frutta perché “fa meglio”. Per il secondo, invece, dobbiamo guardare a tutta la scia di aumento costi e processi urbani schizofrenici che hanno investito Milano – qui sempre Poloni. Sono anche gli affitti dei locali a essersi alzati. “Vediamo che a Milano i clienti passano sopra all’aumento dei prezzi del gelato. Anche perché la svolta al gelato da passeggio, che ha soppiantato quello in coppa, va anche a favore dell’abbassamento dei costi, anche se qui si parla di un passaggio ormai storico. Il sistema, però, non è favorevole per nessuno”. A questo bisogna aggiungere l’aumento degli ordini evasi in delivery, che aggiunge naturalmente costi passivi per il consumatore, tra consegna e gestione.

Se da un lato il gelato è guardato in cagnesco, dall’altro però è usato come strumento di aggregazione sociale. “Lo spazio pubblico comincia a farsi davvero scarso. Ma fuori dalla gelateria è terra di nessuno, ci si trova chiunque. Tutti vanno in gelateria, anche se naturalmente con fasce orarie differenti”. Ne hanno visti, Maurizio e Antonella, di (ex) clienti piccoli così, diventati adulti. Non solo: in provincia la clientela è più trasversale, anche se appunto si distribuisce lungo la giornata. È il riferimento del quartiere. A Milano, invece, si tratta soprattuto di clienti adulti sopra i trent’anni. Escono di notte. Hanno il loro gelato preferito nel quartiere dove abitano. Il totale è di circa 970 punti vendita di gelato oggi, a Milano. “Il pubblico cerca sempre il nuovo, vuole provare posti in cui ancora non è stato. Questo ci porta a fare qualche abbinamento più azzardato nei gelati, a volte. Alcuni gusti però sono i preferiti di tutti, non si possono togliere”. Tutti conosciamo il Cornetto? Da Artico ribattono con croccante e amarena. Su tutto questo si innesta la questione, ancora una volta, dell’artigianalità. “Noi siamo arrivati al punto da produrre alcuni dei semilavorati che possono servire a noi o ad altri a cui li vendiamo. Alcuni però si riforniscono di questi prodoti dalla grande industria, allora non si può più parlare di gelato artigianale. Non è una questione di principio – sottolinea Poloni – penso che ci sia posto per tutti nel mercato, ed è giusto che chi vuole un certo tipo di offerta la trovi”.

Mi viene in mente, in questo senso, una grande aberrazione degli anni Novanta e primi Duemila: il gusto Puffo. “Be’, il Puffo è un esempio di prodotto industriale. Non si può fare artigianlamente, almeno non in quegli anni. Funzionava che le industrie locali producevano il preparato, quindi variava un po’ in ogni posto. Oggi anche il palato dei bambini si è sviluppato, una volta erano davvero solamente i grandi classici, fragola, panna, cioccolato… e i gusti che replicavano quelli dei gelati confezionati. Croccantino, così via. Associ il momento del piacere a quel sapore e lo andrai a ricercare”. Comunque il Puffo, a volerlo proprio preparare artigianalmente, si potrebbe. Bisognerebbe usare qualche colorante e sviluppare un sapore tra la menta e la liquirizia.

Forse è meglio non farlo, perché l’esigenza del cliente arriva anche sul libro ingredienti. “Per esempio, dobbiamo usare la farina di semi di carrube. È tecnicamente un additivo nel senso che viene aggiunto al gelato, è un addensante. È registrato come E410, quello io devo scrivere sul libro ingredienti. Il cliente anche esperto è difficile che conosca le sigle e le associa subito a qualcosa di chimico, di non naturale. Quindi la comunicazione si è fatta più articolata, bisogna essere più attenti”. La prassi comunque, almeno per Artico, è sviluppare rapporti con i produttori dei singoli ingredienti, così da lavorare sulle forniture e su scelte più mirate. “Aprendo un dialogo diretto puoi chiedere piccole modifiche funzionali al prodotto finale. L’industria non permette di farlo, invece”. Anche questo fa parte dell’equazione del gelato contemporaneo, oggi.

“Che è un termine che gira e rigira, ci sono regole non scritte”.

Forse conta la sostanza, più che la teoria. Forse è uno spettro a diversi gradienti, non legge assoluta. Va bene, ma quindi: antropologia. Adesso la voglio fare direttamente con Maurizio e Antonella. “Il mio primo ricordo del gelato è nella bassa bergamasca, dove sono parzialmente cresciuto, passavo le estati dai miei nonni. Era di giovedì. C’erano cinque cascine del territorio che producevano gelato e un giorno a settimana arrivava un carrettino per venderlo, passava in giro. L’unico gusto era il limone. Ci assiepavamo, quasi tutti bambini, era una festa. Ti parlo degli anni Cinquanta e Sessanta. Aveva un marchingegno tutto particolare. Quel gelato me lo facevo durare tre quarti d’ora. Credo che nel gusto limone che facciamo da Artico ne sia rimasta traccia, almeno nel ricordo”.

E Antonella: “Io ho avuto un incontro meno memorabile con il gelato. Sono partita da quello industriale, il ghiacciolo d’estate. Il biscotto ripieno. Il gelato artigianale è arrivato dopo per me, alla latteria di paese”. Tra l’altro, aggiungono, c’è stato questo momento in cui l’industria comunicava che il suo gelato era migliore di quello artigianale perché controllavano meglio i grassi e gli zuccheri. “Ricordo anche al cinema, da piccoli. Nell’intervallo tra primo e secondo tempo passavano a vendere i gelati, confezionati naturalmente. E se il film non era un granchè, almeno sapevi che c’era il gelato. Si andava al cinema anche per quello, per quel rituale. Oppure i primi appuntamenti da ragazzini, in gelateria…”.

Finisce che conveniamo che mangeremmo tranquillamente, tutti noi tre qui a parlarci, mezzo chilo di gelato al giorno. Che si possa o non si possa fare, la conclusione è lasciata ai lettori.


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