Tempi e tendenze ridisegnano incessantemente le offerte ristorative e le abitudini di chi ne fruisce, specialmente in una piazza tappezzata sempre più da nuove aperture come risulta negli ultimi anni Roma. In una panoramica cittadina in cui il cliente medio pare prediligere luoghi informali e permanenze al tavolo non vincolanti, l’identità dell’indirizzo stellato/fine-dining rischierebbe di finire in penombra se non resistesse la volontà di alcuni validi interpreti di plasmare locali dall’indole più confortevole e attuale senza snaturarsi: il Ristorante Pulejo ne è fulgida prova.
Davide Pulejo, cuoco e fautore dell’omonima insegna, parte forse avvantaggiato in questo processo per le esperienze avvalorate nel proprio iter formativo: esordio giovanissimo al Convivio Troiani; trascorsi dal know-how metropolitano e filo-nordici tra il Texture di Londra e il Noma di Copenaghen, poi l’istituzione capitolina del primo Pipero sotto la guida in cucina di Luciano Monosilio e la consacrazione individuale presso l’Alchimia di Milano, conquistando la stella Michelin in una città per molti aspetti agli antipodi della scena romana. Percorso che già denota il bagaglio di visioni evolutive per un trionfale – quanto ponderato e voluto – ritorno nella Capitale con un ristoro a sua immagine e una conferma “stellata” nel 2022 a siglarne gli obiettivi.

Con-tatto & comunicazione
Il locale – che si trova a Prati, quartiere sempre più florido di realtà – propone e mantiene un assetto fortemente identitario, tanto nella finitura di accoglienza, arredi e servizio, quanto nel metro stilistico riprodotto in cucina. Ambienti caldi, scanditi dal legno e da architetture sinuose, lasciano traspirare la rilassatezza del team di sala in un riquadro del tutto ricamato sull’ospite. Lo chef si aggira cordiale fra i tavoli preservando questo mood in ogni gesto, mosso da ferme convinzioni quali piedistallo espressivo: attenzione maniacale alla comunicazione, sia interna al suo locale sia veicolata lungo canali stampa e mediatici tramite uno staff adeguato; riconoscibilità emozionale e concreta nella costruzione dei piatti; investimento costante nella gamma di elementi atti a definire il suo spazio, dal design sartoriale delle stoviglie a un ciclico aggiornamento d’ogni dettaglio mirando verso una costante crescita rivolta al futuro.
Un protocollo di idee dal rigido piglio mentale, che trova contraltare di levità durante le fasi del pasto: giostrate con rilassata eleganza sia dal personale in servizio – grazie all’affabilità professionale del restaurant manager Eugenio Galli (coadiuvato da Leila Agosta) – sia dalla personalità tangibile negli assaggi del menu. Esercizi che trasmettono limpidamente la commistione di influenze raccolte in giro per il mondo, la verve ricercata e le radici umorali di Pulejo, ma denotano al tempo stesso quel tenore di piacevolezza levigata e diretta quale strumento per una leggibilità quasi familiare.



Estro rilassato & acuta linearità
L’impronta stilistica irrompe sin dalle prime battute degli amuse-bouche, spesso una condanna pleonastica per questo genere di tavole, ma non in questo caso: Chips di carciofi al vapore, crema di carciofi cotti sotto la cenere e mentuccia; Tartelletta thai, sgombro affumicato, maionese all’aneto, olio alla mostarda e insalata selvatica; Sfere fritte di polenta taragna ripiene al cremoso di bufala abruzzese, lievito di birra tostato e finocchietto selvatico; Focaccia di sole patate con yogurt alla rapa rossa, rapa agrodolce e ventresca di tonno marinata nel sumac; Diplomatico con parfait di fegatini di pollo, gel di lampone e acetosella. Bocconi pieni, vivaci, coinvolgenti e in grado di riassumere le contaminazioni di culture itineranti figlie del background dello chef. Ragguardevole la panificazione con grissini stirati al mais, pagnotta semi-integrale e ipnotica brioche salata da intingere nel sontuoso burro da latte di Bruna Alpina montato col perfetto punto di sale.
Bando alle moine, virando celeri al sodo dei sapori: prima con l’assonanza di masticazioni cangianti e grassezze nobili in rotta Milano-Copenaghen dei Cannolicchi in gremolada con polvere di cozze, finger lime e una vibrante salsa a base di midollo; poi con la straordinaria Animella di cuore di vitello cotta magistralmente nel burro, in match a maionese di ostrica affumicata con legno di faggio, foglie di Centocchio e un formidabile jus di vitella dalle trame polarizzanti. Il sous-chef storico di Pulejo, Alex Lomazzi, vanta un repertorio di lungo corso presso rinomate maison parigine e il manico temprato in Francia si avverte forte e chiaro nella finitura di questo assaggio penetrante.
Sulla stessa scia d’impatto gustativo, sorprende la brezza umamica delle Tagliatelle con farina di castagne, mantecate in brodo di koji con burro acido ai ricci fumè, ricci di mare in purezza, finocchio marino sott’aceto e castagna arrosto grattugiata in guisa di una bottarga dal puntuale spettro terroso/amidaceo. Eugenio Galli sfodera dalla cantina – gestita dal bravo Gianluca Tronci – un pairing fotonico con questo duetto di pietanze: un Grüner Veltliner Reserve 2015 Trocken Felser Berg del produttore Wimmer-Czerny dal carattere quanto mai unico e performante.





Esaltazione dell’accoglienza in ogni forma(t)
Lungo l’epilogo del reparto salato, due tracciati del passato e del presente di Pulejo: il signature storico che connette la metropoli meneghina alle tradizioni romane del Risotto MI-RO’ mantecato allo zafferano con royale di coda alla vaccinara posta nel mezzo; seguito dall’incrocio lacustre-carnivoro della Manzetta Beneventana allo yakitori con piselli freschi, fragole Favetta, salsa mornay, cipollotto alla brace e capitone affumicato di Comacchio, da accompagnare con un corroborante consommé di manzo infuso al Porto, ginepro e rosa canina.
Il finale è un’ode alle abilità della pastry chef Mariuccia Ceglie, nonché all’animo conviviale, aggraziato e intriso di giovialità che ripercorre ogni tratto espressivo di questo ristoro: Tarte tatin di sedano rapa (caramellato in virtù della canonica mela) con gelato al fior di latte e vaniglia; in staffeta con una candida Brioche sfogliata a regola d’arte, chantilly e sorbetto di uva fragola. Entrambi i dessert incitano l’ospite al gesto ludico di spalmare creme e gelati sulle superfici dei dolci degustando con le mani secondo impulsiva interazione. In chiusura a sigillare in dolcezza l’essenza emotiva che regola le pulsioni dell’intero luogo e che (non a caso) trova un rilancio pop nella recente apertura di un nuovo locale firmato dallo chef: Isotta Trattoria Cortese. Se le prospettive e la portata d’intenti sono quelli già sondati, non vediamo l’ora di andarla a provare e seguire gli sviluppi del gruppo Pulejo.