La nebbia fa paura se non la conosci. Fa paura attraversare di notte una landa piatta, infinita, silenziosa, come quella della Bassa Padana. Se non la conosci, temi a ogni curva di finire dentro un fosso o di svanire per sempre in uno di quei vasti canali immobili e oscuri che la disegnano. Li immagini ma non li vedi. E poi, all’improvviso, una musica. Liscio, ovviamente. Una festa. È autunno. Si celebra il maiale. Frattaglie. Coppa calda, trippa, ragù di interiora, fegatini ai ferri con la rete e rognoni con friggione. Non sai bene dove geolocalizzarti di preciso, ma sei nella zona di Medicina, una cittadina come tante nella Pianura Padana. In queste terre d’acqua senza confine hai solo la cucina a darti le coordinate. Che però non sono mai quelle che ti aspetti.
Siamo tecnicamente in Emilia ma la Romagna è vicinissima, con quello che ne consegue in termini gastronomici. Imola, fulcro d’attrazione, è in provincia di Bologna ma è già romagnola. Vicino c’è Ferrara, ma anche Ravenna. Argenta, nome che fa vibrare il cuore per la memoria di Giacinto Rossetti, appena scomparso, e del suo leggendario Trigabolo, è a un passo. Così come il Delta del Po, che vuol dire Comacchio. Quindi maiale, anguilla, pesce gatto, cacciagione. E poi il solito caos di tortellini e cappelletti, con le diverse forme, le farciture, le diciture, come le tigelle-crescentine-gnocchi fritti… differenze impossibili da decriptare per chi non è local.
In questa terra di confine non si sa bene l’origine di prodotti, ricette, tradizioni, ma sono tutti qui. Basta guardare le differenze tra i menu delle feste dell’Unità di Medicina e di Argenta per farsi una mappa delle differenze e delle connessioni. Senza bisogno di definirle. La nebbia confonde così ogni preconcetto di confine. L’acqua disorienta ogni idea gastronomica precotta. È così, nella notte bianca della Bassa, si fa strada un atroce dubbio: e se la cucina regionale fosse solo una sovrastruttura mentale? O più banalmente se non corrispondesse ai confini noti. C’è differenza davvero tra Emilia e Romagna?
Esistono dei micro-confini?
l dubbio è legittimo in questi tempi di revisionismo gastronomico. La furia iconoclasta di un libro come La cucina italiana non esiste (di Alberto Grandi e Daniele Soffiati, Mondadori 2024) ha spazzato via ogni certezza sulla nostra gloriosa tradizione con metodo storico-scientifico. E ogni pizza margherita o spaghetti al pomodoro o carbonara che credevamo inscritti nel nostro codice genetico risultano invece, secondo gli autori, recenti e spesso importate. Scopriamo così un ricettario nazionale di dubbissima origine.
Ma vale lo stesso anche per le care vecchie ricette regionali? Dipende. Lo spiega bene, come sempre, il professore Massimo Montanari:
“La cultura gastronomica italiana appare topograficamente polverizzata, irriducibile a tradursi in spazi politicamente determinati come quelli delle province o delle regioni”.
Questo ci rassicura. Possiamo non rinunciare del tutto all’idea rassicurante della biodiversità gastronomica dell’amato Paese, che ci piace tanto. Basta rivedere schemi predigeriti e rinunciare all’idea “amministrativa” di confine. “Il quadro che ne esce, quello di una gastronomia localmente differenziata e articolata, è perfettamente corretto e in linea con la più schietta tradizione del Paese; gratuita appare invece la scelta di costringere questa realtà entro i confini prestabiliti delle unità regionali” (sempre Montanari).

E allora sarà bello rifarsi una mappa mentale del gusto, un’idea nuova (ma anche antichissima) di una cucina dalle frontiere liquide. Aree del gusto dove tutto si mescola e si contagia. Zone bastarde. Come i cani più simpatici e gli illegittimi figli di re. Un termine, “bastardo”, dispregiativo nell’uso ma appassionante nel significato. Bastarde sono le cose migliori. Accumuli di DNA, di visioni del mondo, di migrazioni ancestrali e recenti ci hanno reso tali. Tutti. La bastarditudine sembra oggi messa a rischio dall’omologazione globale. Da un appiattimento estetico ed emozionale che marca i nostri tempi sciapiti. In tutti i campi dell’umano agire e godere. È esiziale quindi la sopravvivenza delle enclavi bastarde, dove lingue e culture, abitudini e identità si incontrano. Spesso si scontrano. Da concepire se non come riserve indiane, tipo presidi eccetera, almeno come modello intellettuale. Come prassi emotiva. Zone del pensiero dove si accolgono le cose complicate da decriptare, ma entusiasmanti. I “workshop creativi dell’arte del vivere insieme” come li chiamava Zygmunt Bauman. Da difendere con la spada e con lo spiedo. È un patrimonio meticcio della nostra cucina che ci costringe a ripensarci, anche e soprattutto politicamente. Un antidoto a quel fantoccio dell’identità nazionale, tanto scompostamente agitato di questi tempi, che non esiste. Lo dice la nostra geografia, la nostra storia, la nostra vera identità bastarda alla faccia della sovranità alimentare e della purezza dell’etnia italiana.
Diciamocelo ancora una volta: siamo il risultato gastronomico del mercante veneziano, fiorentino, genovese che riporta alla moglie una nuova spezia dall’Oriente. Della signora siciliana dell’anno Mille che si ritrova in tavola una suggestione dall’ennesima invasione araba o normanna, o di quella calabrese che ha ancora una memoria greca. Del ristoratore marchigiano che ruba una ricetta agli arbëreshë o dell’oste romano che attinge alle tradizioni della comunità ebraica.
Non è difficile quindi pensare che la peculiarità dell’identità italiana sia proprio la permeabilità, la capacità di sfruttare al meglio i suoi non-confini.
Non c’è bisogno di ripetere per l’ennesima volta la storia del pomodoro, della patata, del mais, del baccalà. Basta accogliere con gioia, anche politica appunto, questi confini bucherellati. A volte microscopici. Non solo quelle zone bastarde, fatte d’acqua e pianura, tra Emilia e Romagna, ma anche aree come la Sabina che ora è nel Lazio, ma era compresa tra Abruzzo e Umbria. O Matera, più vicina ad Altamura (pensa al pane!) che a Potenza. Oppure il Sannio e il Montefeltro, forti identità divise tra regioni diverse. E ancora quel limbo fertilissimo di contagi tra Trentino e Alto Adige. Per non parlare degli sconfinamenti nazionali tra Nizza, l’Istria, la Dalmazia e il Canton Ticino. Tutte zone bastarde. Laboratori inconsapevoli della biodiversità culturale così tipicamente italiana.
Per via dalla storia (piccoli stati, comuni indipendenti, fiere comunità) e di una geografia così variegata da creare paesaggi ibridi nel giro di pochi chilometri. Un esempio per tutti, la Lunigiana. Di questa terra esemplare già il Guicciardini diceva: “Una parte ubbidiva a’ fiorentini, alcune castella erano de’ genovesi, il resto de’ marchesi Malespini”. È stata un po’ del Ducato di Parma un po’ di quello di Modena, un po’ lucchese e un po’ granducale, con confini variabili che vanno dalle Alpi Apuane alle Cinque Terre. Montagna e mare. Il dialetto è una mescla di emiliano, toscano e ligure. La cucina vernacolare, come sempre, spiega bene la situazione. Dai poveri testaroli conditi col pesto e le torte d’erbi di ascendenza ligure ai panigacci (parenti dei testaieu genovesi) e gli sgabei (cugini degli gnocchi fritti emiliani) da mangiare con i salumi di odore parmense. E poi la torta Spongata che condivide con Parma, Modena e Reggio. E La Spezia. Il nomen omen è però quello della “lasagna bastarda”. Bastarda perché mischia farina di grano (valle) e di castagna (montagna). Rude ma buonissima. Un piatto simbolico che ci ricorda perché accettare lo sconfinamento fa bene a innumerevoli cose. Alla testa. Alla politica. Ma soprattutto alla cucina.