“Marco non lo dice ma qua dentro è veramente un pilastro, un perno” così Maria Guarracino, brand manager di In Cibum, introduce Marco Cefalo. Nella Scuola di Alta Formazione Gastronomica In Cibum di Pontecagnano è l’uomo che tiene tutto insieme, anche quando sembra impossibile. Non perché abbia superpoteri – anche se la sua “ubiquità” potrebbe farlo sospettare – ma perché riesce a essere tutto ciò che serve, esattamente quando serve. Classe 1991, un mix perfetto di energia giovane e saggezza da vecchio saggio, Marco è stato presente fin dal primo giorno della scuola, sette anni fa. Resident chef, guida, psicologo e custode silenzioso di un equilibrio umano sottile. Marco è quel tipo di persona che non ha bisogno di dire nulla: regge l’intera struttura con naturalezza, come se orchestrare caos, traguardi e umanità fosse la cosa più semplice del mondo. Non si limita a insegnare agli studenti a cucinare: li guida a trovare un senso in ciò che fanno, a crescere, a sbagliare bene. Non è un semplice docente, è una bussola. Anche quando non lo vedi, sai che c’è, sempre pronto a indicare la direzione giusta.
Lo abbiamo visto all’opera durante In Cibum Extra, dove sembrava moltiplicarsi per essere ovunque. Tra un controllo in cucina, un saluto agli ospiti e uno sguardo vigile su ogni dettaglio, è riuscito a infilarsi anche in un dialogo profondo sulla diversificazione alimentare come responsabilità collettiva. “Il tempo è il nostro nemico più grande,” ha detto con la calma di chi sembra averlo già sconfitto, per poi riflettere sulla felicità alimentare, un tema che per lui non è solo teoria ma una pratica quotidiana. Marco non si ferma mai. E, nonostante il vortice di impegni e le infinite ore spese tra studenti e fornelli, è riuscito persino a trovare il tempo per laurearsi, dimostrando che i limiti sono solo scuse per chi non vuole superarli. Marco Cefalo è tante cose. In lui convivono mille ruoli, tutti essenziali. Costruisce percorsi, accende passioni e tiene insieme i pezzi di una macchina educativa complessa e affascinante. È il cuore pulsante di In Cibum. Non lo dice mai, non ha bisogno di farlo: tutti lo sanno.
La sua passione per la cucina è nata per necessità e si è evoluta in amore, giorno dopo giorno, mettendo le mani in pasta. “Sono cresciuto in un quartiere periferico di Napoli chiamato Barra, un quartiere difficile. Ho cominciato a lavorare a 15 anni nelle pizzerie del mio quartiere, dove non c’era molta speranza, ma ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno aperto gli occhi sulla cucina. Mi sono diplomato con il massimo dei voti, 100 su 100, ma non riuscivo a trovare lavoro. Dopo aver inviato curriculum a molti alberghi cinque stelle, un giorno mi è stato detto che avrei dovuto seguire un’altra strada ed è stato proprio quel momento che ha cambiato la mia carriera. Ho iniziato a lavorare in un albergo cinque stelle a Firenze, dove ho avuto l’opportunità di imparare la cucina di alta qualità e di avvicinarmi alla guida Michelin e ai ristoranti stellati”. La fame di imparare lo porta nelle cucine di alcuni dei ristoranti più visionari del mondo: prima a Londra al Fat Duck di Heston Blumenthal, poi il Noma a Copenaghen, “dove ho imparato a lavora con una libertà che ti dava una grande responsabilità”. Poi Roma con Oliver Glowig, “ho imparato molto da lui, soprattutto la precisione, l’ordine e la rigidità. Valori fondamentali che applico anche nella formazione dei giovani cuochi”.
E ancora – e prima dei venticinque anni – lavora con Feudi di San Gregorio per quattro anni iniziando con un progetto all’interno dell’aeroporto di Capodichino, poi ancora Salerno con Paolo. dove ho ricoperto il ruolo di chef per due anni e poi grazie ad Alessandro Romano – “un papà lavorativo” – l’incontro con In Cibum e la vocazione di “entrare nel mondo della formazione gastronomica, in cui ho visto l’opportunità di poter guidare i ragazzi”. Aveva soli 27 anni e spesso i suoi corsisti erano suoi coetanei o addirittura più grandi (“la fascia d’età della nostra scuola va dai 20 ai 35 anni”).
Una scuola di vita attraverso la cucina
Il lavoro di resident chef e mentore è un altro paio di maniche rispetto alla classica vita da cuoco: “È molto stimolante, soprattutto perché ogni quattro mesi abbiamo una brigata nuova”. La giornata tipo di Marco è una combinazione di pratico e teorico: presenza costante nei laboratori e contatto diretto con gli studenti. “Ascoltare i loro feedback, positivi o negativi che siano, dimostra quanto ci tieni a loro”. L’approccio informale ma coinvolgente consente di abbattere le barriere tra docente e studente, creando un ambiente dove i ragazzi possono esprimere dubbi, idee e opinioni senza timore. In Cibum è un posto sicuro, in cui tutti si sentono parte di un ambiente che mette l’accento sulla qualità, sull’umiltà e sul supporto reciproco. La forza della scuola, infatti, è quella di non solo insegnare tecniche culinarie, ma di creare un’atmosfera di collaborazione e di cura del fattore umano. Gli chef esterni vengono accolti con calore, i ragazzi sono incentivati a sostenere i docenti nel loro lavoro e anche loro imparano a prendersi cura dell’ambiente in cui si trovano. Questo approccio ha fatto sì che la scuola si distinguesse per l’umanità che la caratterizza, un valore che viene trasmesso ai ragazzi, che, una volta pronti, si inseriscono con facilità in brigate di ristoranti di alta qualità e il rispetto tra i membri della brigata è fondamentale. Gli allievi imparano sia una professione sia a essere professionisti. La formazione parte dalla base, ovviamente, ma poi ci si spinge oltre, lavorando sulla psicologia, sullo sviluppo emotivo e sul rafforzamento della loro autostima. I ragazzi sono accompagnati anche da un mental coach. Non è solo questione di imparare a cucinare bene, ma di imparare a gestire lo stress, la pressione, a sentirsi sicuri di sé in un ambiente che può essere davvero intenso.
“L’approccio che adottiamo qui è quello di formare cuochi che non siano solo competenti, ma che abbiano la capacità di adattarsi e di crescere professionalmente in qualsiasi luogo. Alla scuola cerchiamo di far capire ai ragazzi quello che è stato un po’ anche il mio percorso: la fortuna di essere guidato da persone che mi hanno mostrato il mondo del lavoro di qualità, ma anche la perseveranza di andare avanti, di voler provare e cercare quei posti. Ci impegniamo a trattarli come se fossero in un vero luogo di lavoro, cercando di farli sentire pronti ad affrontare una cucina dove dovranno stare in un ritmo vero e proprio di ristorante, ma senza lasciarli completamente alla deriva”. E poi il legame continua anche dopo la consegna del diploma: i ragazzi continuano a relazionarsi con Marco per consigli e per mantenere vivo il rapporto, proprio come si fa con le persone importanti nella vita, quelle che lasciano il segno.
“Per me, il ruolo di docente non finisce mai. Non si ferma al termine di un corso, ma continua anche dopo, con un supporto costante, ed è proprio questo che mi motiva. Quando vedo un ragazzo che cresce e va avanti, è la soddisfazione più grande. La scuola è il posto ideale per me, perché ogni giorno è diverso, non c’è monotonia. Ogni quattro mesi ci sono nuovi ragazzi, nuovi docenti, nuove sfide. Non c’è mai un giorno uguale all’altro e questo mi stimola sempre. Ogni volta è come ricominciare da capo, in modo sempre positivo”.
Felicità Alimentare Applicata
“Recentemente mi sono laureato” dice Marco con una naturalezza impressionante, che fa subito sorgere spontanea la domanda: in che senso? “A18 anni avevo provato a entrare a dietistica, ma non ero riuscito a superare il numero chiuso, così ho messo da parte quella strada per seguire la mia passione per la cucina. Però quella voglia di studiare non è mai sparita e così tre anni fa ho deciso di frequentare l’Università Telematica San Raffaele studiando durante i miei spostamenti (due ore di auto giornaliere tra andata e ritorno). È stato impegnativo, ma alla fine, dopo due anni e mezzo, ho ottenuto la Laurea in Scienze dell’Alimentazione e Gastronomia con una tesi dal titolo: Convivialità e Alimentazione del Benessere”. Quindi ricapitolando: chef, mentore, docente e dottore. E un nuovo modo di guardare al cibo: “Quello che mi ha colpito di più in questo percorso universitario è stato l’incontro con il professor Alex Revelli, un vero mito. Con lui, con il suo approccio molto pratico ho capito la felicità alimentare. Ho sempre voluto fare qualcosa di nutrizionale, ma il suo approccio educativo mi ha portato a riflettere su come alimentare il benessere delle persone e mi ha spinto a integrare questo concetto anche nel mio modo di insegnare ai ragazzi con un’educazione alimentare che guardi anche al benessere psicofisico”.
La felicità alimentare è al centro del neonato progetto di In Cibum: il Food Center, un luogo in cui applicare molti dei concetti cari a Marco e alla Scuola nato per amplificare la portata del lavoro di sensibilizzazione sull’alimentazione sana, anche per i più piccoli, che sono i veri portatori di cambiamento per il futuro. “Per me rappresenta un punto di svolta. Da quando abbiamo inaugurato abbiamo iniziato a preparare pranzi per bambini, utilizzando cibi alternativi come pasta di farro, pasta di kamut, passati di verdure come broccoli e cavolo viola, e persino cheeseburger fatti con una crema di broccoli al posto della maionese. Questo è stato solo l’inizio, perché da gennaio amplieremo il tema della convivialità, creando uno spazio dove i bambini possano mangiare insieme, non più separati e dove i dipendenti della scuola possano godersi un pasto condiviso. È un’iniziativa che ci sta molto a cuore, perché credo che il cibo non debba essere solo nutrimento, ma anche un’occasione per stare insieme”.
Una volta raggiunto un obiettivo, Marco ne fissa subito un altro: “Adesso, il mio sogno per la scuola è riuscire a preparare ancora meglio i ragazzi prima degli stage (tutti retribuiti per regolamento della scuola, un passo importante per valorizzare il loro impegno, ndr) voglio che arrivino preparati, consapevoli del lavoro che li aspetta. Siamo in un momento difficile per la ristorazione, perché c’è una grande difficoltà nel trovare personale qualificato. Gli chef oggi hanno bisogno di una brigata solida e la cucina non è mai un lavoro individuale, ma di squadra. È un settore che ha bisogno di persone preparate e motivate. Noi come scuola dobbiamo formare professionisti completi, che siano pronti a lavorare con passione e a dare il massimo. È bello vedere che tanti ragazzi che sono passati da noi ora stanno lavorando in ristoranti importanti, con grande soddisfazione. La ristorazione di alta qualità richiede impegno, sacrificio, ma anche una grande passione. E quando vedo che capiscono questo, sono contento, perché significa che sono mentalizzati nel modo giusto. Se un ragazzo è motivato a imparare, allora il sacrificio diventa più sopportabile”.
Il Food Center diventa quindi un luogo cruciale per mettere in pratica la teoria, dove i ragazzi possono fare esperienza diretta, imparando a lavorare in un ambiente professionale e a gestire un servizio vero, con clienti reali. “Imparano a lavorar insieme, a relazionarsi con i colleghi, ma anche a reagire sotto pressione, con la consapevolezza che ogni piatto che preparano è destinato a essere consumato da una persona che paga per quel servizio. Questa è un’altra responsabilità che li aiuta a crescere non solo come professionisti, ma anche come persone”.
C’è un – altro – aspetto che distingue Marco Cefalo: la capacità di leggere le persone. Per lui, la sfida più grande non è tecnica, ma emotiva. Ogni studente che entra nella sua brigata porta con sé sogni, insicurezze e talvolta fragilità. Marco è più di uno chef: è un mental coach che sa adattarsi alle esigenze di ciascuno, trovando un equilibrio tra regole e libertà creativa.
“Uno chef deve essere un condottiero,” dice ma per lui il comando non è mai autorità pura: è empatia. Questa capacità di trasformarsi – di essere camaleontico – lo rende un educatore unico. Ogni lezione non è solo un insegnamento tecnico, ma un’opportunità per crescere. “Quello che facciamo qui è più di insegnare una professione; è cercare di costruire un futuro migliore attraverso l’alimentazione e la qualità della vita, e sono felice di far parte di tutto questo. Non si tratta solo di dare loro le competenze, ma di farli crescere come persone, di aiutarli a credere in sé stessi. Quando vedo questi cambiamenti, so che stiamo facendo qualcosa di grande”.