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Reportage
viticultura eroica
Tutte le strade (scoscese) portano a Possa
Le vocazioni agricole di Heydi Samuele Bonanini
Da Cook_inc N. 38
Tutte le strade (scoscese) portano a Possa
13 minuti

La scala scoscesa che conduce ai vigneti di Possa è impossibile da vedere percorrendo la strada che scende fino a Riomaggiore e non c’è nessuna indicazione. Il solo cartello nei pressi dell’ingresso ha la forma di un triangolo – pericolo! – e mostra la figurina stilizzata di un uomo che fa pipì con una croce sopra e un paio di forbici a chiarire sinistramente il senso del messaggio. Già da questo dettaglio – altro che promuoversi, qui meglio passare inosservati – si intuisce qualcosa della pressione che il turismo di massa mette sulle Cinque Terre

Varcata la soglia del vigneto, due oche grigie starnazzano, allertate dal nostro arrivo: richiamano una donna che ci fa un cenno di saluto, ci chiede se siamo lì per incontrare Heydi e aggiunge: “È un po’ in ritardo, doveva portare i campioni di vino alla commissione della DOC! Io sono sua mamma”. Poi prende una delle due oche sottobraccio (“vuole che la riporti io nel pollaio, altrimenti non ci viene”) e sparisce. Fuori dalla casupola che funziona da punto d’appoggio per la vita nel vigneto, è in allestimento un piccolo buffet, destinato ai volontari che trascorreranno la giornata “legando le vigne” (cioè collegando il tralcio di vite al filo dell’impianto di palificazione) di Possa. Per ora c’è solo il loro coordinatore: è un uomo sulla settantina, si chiama Mark Hardgrove e vive in California. Mi allunga un biglietto da visita che descrive il suo job title come Director of field operations del Conservation Volunteers International Program. Dopo una carriera nel settore della tutela ambientale – lavorava per i Parchi statunitensi – Mark ha deciso di proseguire con un impegno pro bono in questa associazione che recluta uomini e donne, in genere dalle parti della pensione, che partecipano a viaggi per lavorare come volontari in parchi naturali in tutto il mondo. Vengono alle Cinque Terre ogni anno, mi spiega Mark: è una delle dieci destinazioni del programma (alcune delle altre: Galapagos, Machu Picchu, Costa Rica) accomunate da un ambiente fragile, sottoposto a grande pressione umana e turistica. Finora hanno lavorato sempre nelle vigne di Possa, facendo quel che c’è da fare, ricompensati – oltre che dal pranzo al sacco – dalla vista unica al mondo che si gode dall’alto dalle pendici scoscese, interamente terrazzate e vitate, dell’azienda agricola. Per il prossimo anno, mi spiega Heydi – nel frattempo congedato dalla commissione della DOC – il piano è abbinare al lavoro in vigna alcune giornate in cui puliranno dalla vegetazione sentieri in stato di parziale abbandono nell’entroterra di Riomaggiore. “Quest’anno sono un po’ più giovani, in media – mi dice – il che è un bene perché gli voglio far ricostruire dei muretti a secco”. 

Costruire i muretti a secco è uno dei molti lavori che Heydi ha fatto – è stato camionista, anche, mentre era già vignaiolo – e che ha imparato quasi per osmosi: come si dice che un terreno sia “vocato” per la vite, così Heydi sembra un uomo soggetto alle vocazioni. A 16 anni – oggi ne ha 46 – era caduto rompendosi un piede quando un muretto a secco su questi terreni era franato e aveva deciso di sua iniziativa di provare a sistemarlo. Un muratore – “uno degli ultimi”, dice lui – vide il suo lavoro e gli chiese da chi avesse imparato: da nessuno, rispose lui. E l’altro: “Si vede che ce l’hai nel sangue”. Quando i muretti a secco si sgretolano, non è perché – come si potrebbe pensare – abbia ceduto la struttura: sono, invece, le pietre che si deteriorano e si sbriciolano. Ne consegue che per riparare un muretto a secco servono nuovi sassi e Heydi si faceva portare in auto per i dintorni cercando punti dove il terreno fosse franato, per prendere i sassi da usare per i muretti. “Al massimo cinque per volta, altrimenti l’auto rischiava di ribaltarsi per il peso” dice ridendo. Da questo primo muretto a secco inizia la ristrutturazione delle terrazze, dove i genitori allora coltivavano frutta e ortaggi. Lui vuole fare altro: vuole piantare la vigna. Nel frattempo, di mestiere fa il rocciatore: cioè l’operatore su funi. Lavora nelle bonifiche ambientali, facendo i “disgaggi”: quando c’è stata una frana, il primo passo per mettere in sicurezza la parete rocciosa o la scarpata è far cadere ciò che è rimasto in bilico, a rischio di distacco e di caduta. Un giorno sta appunto disgaggiando un terreno quando un uomo esce di casa rimproverandolo perché non stava lavorando in sicurezza: è – colpo di scena – Elio Altare, storico produttore di Barolo, che diventerà il suo mentore nella vita da vignaiolo. 

Lui vuole fare altro: vuole piantare la vigna.

Nel 2004 la prima vendemmia, da cui ricava 465 bottiglie di vino e 25 litri di sciacchetrà, il celebre, sublime passito delle Cinque Terre: l’appassimento delle uve, in quell’anno di debutto, avviene in soffitta, su reti di letti che Heydi ha trovato nella spazzatura (nella “rumenta”, dice lui), tenute sollevate da terra grazie ai libri scolastici delle scuole superiori che per la prima volta in quella occasione vengono messi, dice ridendo, a buon uso. L’inizio di Possa è anche l’attuazione di un ideale, una volontà di presidio e di recupero di un territorio.

“Abbiamo cominciato – al plurale perché parla di sé e della madre Concetta – a fare vino quando tutti erano in procinto di abbandonare: nessuno qui viveva più di vino”.

Non è difficile capire perché: le proprietà dei terreni sono spezzettate, molte sono grandi come un francobollo. I tre ettari dove crescono le vigne di Heydi a Possaitara (la bellissima collina a strapiombo da cui deriva il nome dell’azienda, ndr) appartengono a 74 proprietà diverse. Il tentativo di concentrare tutti i vigneti in una sola valle si è arenato di fronte all’impossibilità di comprare da tutti: anche perché spesso il costo dell’atto di acquisto dal notaio è superiore al valore della proprietà. Così si è rassegnato a essere un po’ nomade, ad avere vigne in vari luoghi: una in gestione anche a Palmaria, l’isola di fronte a Portovenere; e un’altra a Santa Margherita Ligure, piantata a Bianchetta genovese. Anche se molti dei suoi terreni sono in comodato d’uso, Heydi ha però comprato, strategicamente, tutti i terreni che ospitassero ruderi, o anche solo resti di edifici in muratura: quelle mezze pareti pericolanti ricoperte di rampicanti corrispondono però ad altrettanti diritti di edificazione e Heydi non vuole rischiare di trovarsi certi vicini di casa. Non si tratta della malignata ostilità ligure verso i “foresti” (non solo, almeno) ma dello scarso rispetto del luogo che mostra in genere chi intende abitarlo solo da turista: “Qui l’acqua a disposizione è molto limitata. C’è gente che compra casa qui sopra e si fa la piscina”.  

Quando, poco prima del nostro incontro, sono passata di prima mattina nella via principale del paese di Riomaggiore in cerca di un caffè, ho oltrepassato una sfilza di pokerie, focaccerie, bar da Spritz: l’offerta che ha reso tutti identici i luoghi d’Italia che subiscono un afflusso massiccio di gitanti. Intorno a me, i turisti scendevano dalle auto, dagli NCC, dai bus delle escursioni dei croceristi e ascoltavano le loro guide cominciare la storia di Riomaggiore: “La strada su cui stiamo camminando era in realtà il fiume che scendeva fino al mare, che dà il nome a questo borgo…”. È questo, secondo Heydi, il paradosso delle Cinque Terre: note in tutto il mondo, eppure sconosciute per il vino; associate sempre e solo ai cinque piccoli borghi sovraffollati che devono gestire un afflusso di quattro milioni di turisti ogni anno, accalcati su un territorio fragile e spesso in cattivo stato di conservazione; mentre l’entroterra resta abbandonato. 

Heydi collabora con l’Ente Parco per il ripristino dei sentieri secondari (il progetto cui contribuirà dal prossimo anno l’equipe di volontari, compatibilmente con gli acciacchi dell’età) e a un progetto che coinvolge Manarola, il secondo borgo più piccolo delle Cinque Terre dopo Corniglia. “Dopo l’alluvione che nel 2011 colpì Vernazza e Monterosso, facendo tredici vittime, Manarola ha creato una Fondazione per affrontare l’abbandono dei territori: grazie a finanziamenti europei, ha un piano per recuperare cinque ettari e mezzo di terreno, che andrà ripulito, allestito con i muretti a secco e destinato a progetti agricoli”. Heydi si è candidato a prenderne un lotto: Manarola ha però ricevuto così poche candidature adeguate al bando, che l’ha pregato di intestarsene invece due. Come dimostra questa penuria di richieste, prima che le Cinque Terre possano immaginare per sé un futuro di agricoltura e di vino, serve un lavoro comunitario, che coinvolga anche le nuove generazioni.

Per i bambini di Riomaggiore, Heydi ha creato il progetto Fanti enti cian (ovvero “bambini nei campi”): di una delle sue vigne si occupano quarantadue bambini, che hanno ciascuno la responsabilità di tre piante: quando l’uva è pronta, i bimbi vendemmiano, pigiano l’uva con i piedi e alcuni mesi dopo portano a casa una bottiglia ciascuno. 

La manodopera qualificata, ovviamente, serve: così dal 2015 Heydi collabora con la Caritas per progetti di formazione e integrazione dedicati a persone in condizioni di fragilità come migranti, persone che hanno scontato una pena in carcere, o da tempo inoccupate. Insegna loro un lavoro; anzi due: la viticoltura e la costruzione dei muretti a secco. Il corso in principio durava un mese e mezzo: poco, secondo Heydi, che aveva la sensazione che questo percorso non offrisse continuità e mancasse quindi di efficacia. Ha deciso allora di prendere in gestione mezzo ettaro sopra Riomaggiore, dove impiega in vigna migranti – soprattutto centrafricani – ospitati nelle strutture di Caritas di La Spezia. Il progetto si autofinanzia: 400 bottiglie di sciacchetrà vendute a 50 euro ciascuna – lo Sciacchetrà del migrante, si chiama – sono sufficienti. Tra i ragazzi migranti di questo corso ha trovato lui stesso la manodopera che cercava: per i primi 10 anni si erano occupati di tutto solo lui e Concetta, “ma la mamma ormai ha 65 anni ed è anziana” dice abbassando la voce, per non farsi sentire da lei. Trovare chi lavori queste vigne è estremamente difficile: “Preferiscono i colli di Luni”, dice lui e non si fatica a capire perché. Il dislivello tra le vigne più alte e quelle più basse – che arrivano letteralmente fino al mare – è di 150 metri e la pendenza è quasi verticale. Alle Cinque Terre, i primi trenini monorotaia per trasportare le uve in cantina sono arrivati nel 1982, e inizialmente furono accolti con molte resistenze: a testimoniare l’antico scetticismo rimangono i percorsi convoluti di alcune linee – le anse come quelle di un intestino – progettate per evitare di passare sul terreno di chi non voleva aver niente a che fare con questa innovazione. Il “trenino” di Heydi ha l’aspetto e il suono di un tagliaerba, montato sulla struttura in metallo della monorotaia e corredato solo degli elementi di base: un seggiolino dove siede il guidatore e due assi, senza nemmeno una sbarra a proteggere i passeggeri sui lati. Heydi mi fa segno di prendere posto, e mi spiega come puntare i piedi contro il bordo del cassone per mantenere l’equilibrio nella discesa ripidissima. Sfidando il ridicolo, gli chiedo se sia un mezzo sicuro: “Non è mai morto nessuno!” risponde gioviale (solo al ritorno, sbarcati al termine della risalita, Heydi aggiunge che una volta qualcuno ha in effetti perso “un piede, ma solo un pezzo”). La monorotaia ci conduce all’ultimo terrazzamento e alle ultime vigne, pochi metri più in alto della spiaggia di ciottoli: questi filari oggi sono monchi dove la mareggiata dello scorso anno ha creato cavalloni così alti da schiantarsi contro le viti, distruggendole. Dal 2018 questi fenomeni sono diventati più frequenti, racconta Heydi ed è da allora che sta cercando di capire come proteggere le vigne più esposte, quelle che il mare “gratta via”. 

Prima della monorotaia, risalire il fianco della montagna con le ceste cariche d’uva era un lavoro massacrante: meglio assecondare la gravità, allora, e vendemmiare dal mare. Heydi ha simbolicamente ripreso questa tradizione, un piccolo rito che svolge il primo giorno di ogni nuova vendemmia: lui e il figlio Edoardo – 12 anni – caricano sulla barca le ceste cariche d’uva, scendono alla marina di Riomaggiore e risalgono la strada fino alla cantina, percorrendo a piedi i carruggi del paese. Heydi mi mostra un video dell’Istituto Luce del 1942 che ritrae la vendemmia via mare, insieme ad altri momenti di vita contadina alle Cinque Terre. Altro che “viticoltura eroica”: era l’intera vita di campagna nelle Cinque Terre a costare una fatica proibitiva. Il video mostra donne mentre raccolgono la terra nei panieri, da usare per la costruzione delle terrazze; e trattano le vigne con lo zolfo: il fatto che siano le donne a svolgerli, mi spiega, dimostra che questi erano considerati i lavori più leggeri in campagna. 

Forse è proprio questa ancestrale fatica a essere il cuore della sua vocazione: tanto che in questi ultimi vent’anni di ascesa dei vini liguri – con la bella nota salata, e la grande personalità – Heydi ha continuato a preferire per sé e per i suoi vini una strada irta e stretta, un po’ abbandonata, come quelle del Parco sopra Riomaggiore. Niente vermentino (o quasi), il cuore del suo progetto vinicolo sono i vitigni autoctoni (ne ha recuperati 19): albarola, moscato rosso, bosco, rossese bianco, bonamico, piccabon… – e per trovarne altri Heydi “ha battuto tutti i vigneti delle Cinque Terre” spiega.

“Trovavo una vigna strana, me la segnavo, chiedevo ai proprietari del terreno se sapessero cosa fosse. Spesso non ne avevano idea: qui la vite era ovunque, perché le Cinque Terre sono un luogo vocato: poca terra, tanta roccia, il clima ventilato che protegge le vigne dalle malattie. Un tempo era comune piantare nello stesso filare vitigni diversi e a fine ‘800 nelle Cinque Terre c’erano almeno 24 varietà autoctone. Una biodiversità così grande in un’area così piccola è un patrimonio da tutelare e dà la misura dell’importanza che il vino ha avuto in questo luogo: la Vernaccia di San Gimignano si chiama così perché viene da Vernazza” dice.

Controllando, scoprirò che questa è una delle etimologie possibili, ma non la più accreditata. 

Oltre alla varietà di vitigni, Heydi ha un approccio massimalista anche ai vini: fa molte etichette diverse, con blend differenti delle uve, vinificazioni in acciaio oppure a volte un po’ di legno, o macerazione; per un periodo ha fatto un ripasso, ma ora ha smesso; c’è un vino da uva rossese bianco che sta in un tino d’acacia per cento giorni e viene imbottigliato al centounesimo, lo descrive come “un po’ georgiano”. Da alcuni anni ha cominciato a utilizzare anche le anfore per vinificare, lo stile che in Italia associamo soprattutto a Josko Gravner e al Collio italiano. Ma non era questo il punto di riferimento di Heidy. “Nel relitto di una nave romana affondata nel Mediterraneo è stato trovato del vino conservato in anfora, e sembra provenisse dalle Cinque Terre”. Come per l’etimologia che vorrebbe la Vernaccia da Vernazza, anche questo non è certo: ma ogni strada che Heydi ha percorso – le centinaia di migliaia di km sulle autostrade, nella sua vita da camionista; la ripida mulattiera che in dieci minuti d’agonia conduce dal mare alla sommità delle vigne; i sentieri mangiati dai rovi dentro al parco – l’ha riportato qui, in questo luogo senza strade, da cui si parte per mare; e dove sempre si torna. 


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