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Mini-storia
viticoltura umanista
Joško Gravner
Il primo vignaiolo del mondo 
Joško Gravner
16 minuti

“Considera come non ci preoccupino minimamente le età interminabili trascorse prima della nostra nascita. È uno specchio che la natura ci porge del tempo che seguirà la nostra morte” 
 Lucrezio De rerum natura (I sec a.C.)                                                                                                      

Quando Luigi “Gino” Veronelli definì Joško Gravner “il primo vignaiolo del mondo” non fu immediatamente chiara la portata di tale definizione né, tantomeno, la prospettiva che quelle parole suggerivano. Era, più o meno, il 2003, un anno prima della morte del gastronomo anarchico le cui ultime battaglie furono condotte in nome dei contadini e degli artigiani contro l’industrializzazione pervasiva del cibo e del vino che, allora, sembrava inarrestabile. L’incomprensione verso le posizioni antagoniste di Veronelli era la stessa che circondava Gravner, il quale, sulle colline di Oslavia nei pressi del confine sloveno del Friuli-Venezia Giulia, aveva innescato un cambiamento metodologico destinato a influenzare per sempre il mondo del vino e scardinare il sistema geografico-temporale dell’enologia occidentale costruito sulla piena fiducia nel progresso tecnologico.

Il significato del lavoro viticolo di Gravner, proiettato nella linea storica della sua esperienza, trascende l’enologia così come è stata studiata, insegnata e divulgata per confluire in ambiti complessi nei quali il pensiero intreccia e indaga storia, filosofia ed esperienza, in sintesi una viticoltura umanista che ha amplificato la semantica del vino contemporaneo.

Joško proviene da una famiglia di agricoltori che, fin dall’inizio del secolo scorso, ha lavorato sul fragile confine italo-sloveno, un territorio collinare denominato Collio, in Italia, e Brda, in Slovenia. Non è affatto facile seguire i margini frastagliati di queste due nazioni che la Storia ha separato politicamente, ma i cui lembi fisici evidenziano una continuità geografica e umana indissolubile. Molti agricoltori raccontano di avere anziani che nel corso di una vita sono stati cittadini austriaci, sotto l’impero, italiani dopo la fine del primo conflitto mondiale, jugoslavi, con la fine del nazismo e, infine, sloveni in seguito al crollo dell’Impero sovietico, il tutto senza mai spostarsi di casa. Non stupisce che i Gravner parlino sloveno benché la casa/cantina aziendale sia collocata in Italia, presso la località Lenzuolo Bianco di Oslavia, fronte della Prima guerra mondiale e oggi a una manciata di metri dall’attuale confine. Suo nonno e suo padre facevano parte di una generazione agricola antica che basava il proprio lavoro sull’aiuto del sole, su risorse naturali (letame e acqua) e su uno spirito di osservazione tramandato da esperienze secolari. Il Dopoguerra segnò un drastico cambiamento per i contadini italiani. La diffusione della meccanizzazione agricola e l’avvento della chimica distorsero la relazione tra uomo e terra immettendo nel ciclo del lavoro agricolo elementi esterni alla natura. Come scrive il giornalista americano Michael Pollan nel libro Il Dilemma dell’Onnivoro (Adelphi, 2008): “Quando l’uomo ha acquisito la capacità di fissare l’azoto, la fertilità del suolo ha cessato di dipendere esclusivamente dall’energia solare ed è entrata nell’orbita dei combustibili fossili”. A differenza di suo padre, il giovane Joško, unico maschio cresciuto con quattro sorelle più grandi, ebbe l’opportunità di studiare all’Università e laurearsi in Viticoltura ed Enologia. La frattura con il passato apparve allora inevitabile; da una parte una scuola secolare di contadinità, dall’altra la nuova scienza agronomica ed enologica che mirava al massimo utile con il minimo impiego di energia umana.

Oggi Gravner ricorda sovente suo padre. Mentre beviamo in soggiorno il Rosso Breg 2007, uva pignolo in purezza, il vignaiolo racconta della conflittualità generazionale che contrapponeva la sua fiducia nel progresso tecnologico allo scetticismo del genitore sulla deriva futura della viticoltura di stampo industriale. Gli aneddoti raccontati intorno al bicchiere ricordano le discussioni riguardo le varietà da piantare, i trattamenti da fare o la gestione della cantina; emerge l’aspro confronto tra la visione generazionale del giovane e quella storica dell’anziano contadino. La chiosa di ogni ricordo di tali discussioni, oggi, è quasi sempre la stessa:

“Aveva ragione lui”.

Ma in quegli anni (1965-1970) Joško, che era animato dalla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, non voleva e non poteva pensare a una prospettiva che giudicava passatista. Concimazioni chimiche, l’inclinazione verso i vitigni internazionali, l’introduzione in cantina di acciaio per le fermentazioni e barrique per gli affinamenti, il ricorso a lieviti selezionati, filtrazione e chiarifiche sui mosti rappresentarono le azioni più evidenti della discontinuità con il passato. In quel periodo il vino italiano cominciò a imporsi sui mercati internazionali grazie all’indubbia vocazione territoriale e a una diffusione della tecnologia che consentiva la riproducibilità di modelli enologici internazionali. Il successo dei vini di Gravner fu eclatante e perentorio, sembrò che la strada fosse ormai tracciata. In realtà la rigorosa etica del fare agricoltura, lo spirito contadino ereditato e il confronto con il mondo, lavorarono sul pensiero di Joško stimolando continui interrogativi sul percorso futuro. Un viaggio nel 1987 in Napa Valley rappresentò un punto cruciale per il vignaiolo. Gravner realizzò come la tecnologia applicata alla viticoltura sottraesse anima al vino, privandolo dell’elemento umano. Come era possibile, infatti, che i vini californiani fossero così simili ai suoi? Fu una svolta fondamentale per il futuro della sua azienda e non solo.

Secondo lo storico inglese Edward H. Carr “la storia è progresso in quanto le capacità acquisite da una generazione vengono trasmesse a un’altra”. Nell’agricoltura italiana la continuità storica si è lacerata con il periodo dell’industrializzazione intorno agli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso. L’applicazione della tecnologia in campo agricolo ha ovviato alla fuga dalle campagne da un lato garantendo la produttività, dall’altro depauperando le conoscenze e le pratiche tradizionali maturate nel corso dei secoli. La rinuncia di Gravner a operare secondo il canone dell’ottimismo tecnologico rappresenta il primo netto rifiuto nella storia della viticoltura italiana verso la pervasività del modello industriale. La rivendicazione del pensiero umano nel processo di maturazione e vinificazione delle uve è un’idea di progresso in linea con il tempo biologico e fortemente critica verso quello tecnologico. Il recupero temporale del passato si concretizzò in pratiche di consapevolezza contadina. La monocultura viticola fu vivificata attraverso la reintroduzione di alberi da frutto tra i filari, fu incentivato il ritorno di numerose specie di uccelli grazie alla costruzione di nidi artificiali e furono creati, nei pressi dei campi vitati, piccoli specchi d’acqua per incentivare lo sviluppo della microfauna acquatica. Camminare in questi luoghi riportati in vita e custoditi con amore dona un’esperienza armonica, quasi terapeutica. Come anticipato a Veronelli con il quale il confronto non era mai mancato, Joško decise di eliminare le varietà internazionali piantate concentrandosi solo su quelle che l’esperienza contadina passata aveva eletto come tradizionali: scelse ribolla gialla e pignolo. Ancora oggi, nel vigneto di Hum appena passato il confine sloveno, sopravvivono alcune viti di merlot piantate nel 1963. In cantina il percorso fu in totale sottrazione: eliminazione dei lieviti industriali, eliminazione dell’acciaio e del controllo della temperatura, eliminazione della pressa a favore del torchio verticale. Il processo di purificazione dalle sovrastrutture enologiche innescò in Gravner uno studio sulle origini del vino basato su testi molto antichi; l’attenzione del vignaiolo si stava spostando dalla riproducibilità di tecnologie verso una lavorazione umanistica che tenesse conto della storia del vino e del suo valore culturale, antropologico e filosofico. Nel 1987 Joško, al ritorno dalla deludente esperienza americana, maturò l’idea di andare in Georgia; un viaggio che si realizzerà per vari motivi soltanto tredici anni dopo, ma che segna un’altra svolta epocale per il vino italiano. 

La Georgia è uno Stato collocato a sud della catena del Caucaso e a est del Mar Nero formatosi politicamente nel 1991 dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Secondo la geografia fisica la nazione appartiene all’Asia occidentale, ma la sua posizione lo rende un Paese storicamente di passaggio tra la cultura orientale e quella occidentale. Per i geologi la Georgia insieme ai paesi limitrofi, Azerbaigian e Armenia, rappresenta un luogo fondamentale; è qui, infatti, che gli studiosi hanno individuato il cosiddetto “rifugio pontico” ossia una vasta area geografica non sommersa dalle conseguenti inondazioni seguite al disgelo alla fine dell’ultima glaciazione, più o meno 14.000 anni fa. Numerose specie di piante, tra cui la vite, riuscirono così a sopravvivere in questo luogo e formare una sorta di dispensa vegetale a disposizione delle comunità umane. Si ritiene che la viticoltura europea derivi dagli innumerevoli viaggi che le comunità nomadi intrapresero a partire proprio dal rifugio pontico. Un gruppo di archeologi riuscì a datare i resti di un’antica vinificazione ritrovati in Armenia, presso il sito Areni-1: anfore e vinaccioli che risalgono a 6000 anni fa, si tratta della più antica cantina del mondo! 

Quando nel 2000, Gravner andò in Georgia nella regione del Kakheti, vide ciò che stava cercando; una sorta di epifania di un pensiero maturato in anni di riflessioni. Oltre a un Paese ospitale e ricco di tradizioni legate al rapporto simbolico-spirituale con la vite, vide anfore di terracotta interrate, le qvevri, che ospitavano liquidi ambrati ottenuti dalla fermentazione sulle bucce di uve a bacca bianca. Vini condotti dalla mano dell’uomo senza alcuna aggiunta o sottrazione. Quel sapore confortò Joško e lo convinse sulla futura strada aziendale. Se rifiutando il progresso tecnologico il produttore friulano aveva operato uno scarto temporale di riconciliazione contadina; volgendo lo sguardo alle vinificazioni ancestrali verso Oriente, Gravner mise in crisi il paradigma geografico dell’enologia occidentale. Da fine Ottocento in poi le Università di Bordeaux in Francia e di Davis in California avevano formato i migliori tecnici internazionali che a loro volta svilupparono una metodologia protocollare di vinificazione, riproducibile ovunque e con qualsiasi uva. I mercati mondiali, con riviste specializzate, soprattutto di Paesi di lingua inglese, sempre più influenti, erano ormai assuefatti a tali modelli enologici. Gravner dimostrò che altrove si poteva trovare una via diversa, più originale, più pura, più umana. Al ritorno in Italia decise di applicare la vinificazione in anfora a tutta la produzione, senza mezzi termini. Fu una sorta di movimento tellurico per il piccolo mondo del vino italiano il cui epicentro era collocato in Località Lenzuolo Bianco 9 a Oslavia.

“I precursori sono destinati a essere soli per un bel po’ di tempo” dice Joško oggi seduto al tavolo con l’agronomo Andrea Pittana che da qualche anno rappresenta un utile confronto per le scelte delle operazioni in campagna. In effetti l’accoglienza in Occidente di pratiche enologiche non conformi fu alquanto algida. La vinificazione integrale in anfora spiazzò totalmente la critica del vino; la maggior parte degli esperti degustatori non aveva la minima idea di cosa stesse succedendo, quali le motivazioni profonde che avevano indotto il cambiamento e, fidandosi di un palato assuefatto al canone tecnologico occidentale, rimase per molto tempo scettica, delusa e interdetta. Il mensile Gambero Rosso, allora casa editrice leader della critica enologica, dedicò addirittura un severo editoriale alla “involuzione” di Gravner. Veronelli fu probabilmente uno dei pochi a capire l’importanza epocale della strada intrapresa dal “primo vignaiolo del mondo”. Vale la pena riprendere questa splendida definizione e analizzarla alla luce di quanto detto fino a ora. Agli inizi degli anni Duemila, l’Italia del vino aveva affermato nel mondo la qualità della produzione enologica basata sulla tecnica di cantina. La figura di vignaiolo era stata scomposta in due professionalità: il responsabile agronomico, addetto alle vigne, e l’enologo occupato in cantina. Tale impostazione prevedeva una forte separazione dei ruoli in un’ottica produttivista che seguiva lo spirito industriale con il quale alla fine degli anni Sessanta si erano create le denominazioni di origine (Doc e Docg). La scelta di Joško portava sulla scena italiana un’alternativa possibile basata sulla centralità del contadino nel processo produttivo e nel risultato estetico del vino. Nel corso del primo Critical Wine, organizzato da Veronelli al Centro Sociale Leoncavallo nel dicembre 2003, l’intervento di Gravner sul significato del lavoro artigianale resta uno dei momenti più importanti della storia contemporanea del vino italiano. Il successo attuale del movimento del vino naturale, il cui presupposto basilare è la centralità dell’essere umano, dimostra quanto le lontane parole del vignaiolo friulano avessero un valore seminale. Lo stesso dicasi per la vinificazione in anfora. Dato che non vi era una specifica normativa legata all’utilizzo della terracotta in vinificazione e l’argilla usata per le anfore era risultata purissima, il loro impiego fu autorizzato dalle istituzioni preposte.

L’apice di una cognizione raggiunta attraverso un faticoso percorso individuale si trasformò con il tempo in una metodologia produttiva che, lentamente, fece breccia in molte aziende italiane fino a diventare, nel tempo presente, una pratica diffusa a livello globale.

Il lavoro del vignaiolo è individuale, conduce all’isolamento e alla distanza dalle cose del mondo. Per questo è più facile svolgerlo quando cominci a invecchiare”. Il pensiero di Joško sulla professione del vignaiolo nel tempo è esemplare per comprendere il lavoro attuale dell’azienda. I profondi mutamenti delle idee personali che Gravner ha maturato nel trascorrere degli anni, le cui conseguenze, abbiamo visto, hanno inciso profondamente sul concetto globale di vino, sono frutto di rigore ed etica lavorativa. Tali inclinazioni hanno generato una visione spirituale della natura e del vivente. L’incremento della biodiversità in ogni vigna aziendale è una naturale conseguenza di questa sensibilità. Da molti anni si pratica viticoltura biodinamica ispirandosi ai principi steineriani sull’agricoltura. In azienda sono ormai da tempo bandite le irrigazioni e le concimazioni chimiche. I cicli vitali antroposofici sono seguiti anche in cantina; dalla vendemmia 2005, i vini affinano sette anni prima di essere messi in commercio; per Gravner il settennio è il periodo di tempo minimo indispensabile perché i vini possano essere presentati agli appassionati.

La continua indagine scaturita dall’osservazione della natura e delle forze sottili regolate dall’universo ha condotto negli ultimi anni alla realizzazione del giardino delle anfore. Si tratta di uno spazio ricavato di fronte alla cantina dove le anfore interrate sono poste a cielo aperto al fine di connettere le energie del vino con quelle del cosmo.

Lo iato tra la forza dirompente dei pensieri di Joško – declinata in vini di estrema originalità espressiva – e il pubblico ha rischiato di isolare l’azienda di Oslavia. La distanza dal mondo, concepita dal vignaiolo come essenza necessaria del mestiere agricolo, non è sostenibile in chiave economica dato che divulgazione e vendita sono necessarie al sostentamento dell’organismo agricolo e delle persone a esso connesse. Mateja è tornata in azienda nel 2014 anche per questo motivo. La figlia di Gravner ha avuto il ruolo cruciale di raccogliere le stratificazioni del pensiero paterno e, attraverso una narrazione reale e pragmatica, raccontarle al fine di rendere consapevoli i clienti e gli appassionati riguardo la trasformazione del lavoro svolta dall’azienda.

“Un compito non facile all’inizio – racconta – soprattutto perché mio padre aveva vissuto la sua evoluzione personale in intimità. Fuori da questa cantina nessuno conosceva il lento processo di mutazione dei vini. È stato necessario educare le persone al cambiamento. Al contempo mi sono accorta che il mondo del vino era già posto nella direzione presa da mio padre venti anni prima. Pensate alla cura della vita del suolo, alla macerazione su uve dalla buccia spessa come la ribolla o a contenitori neutri per la maturazione dei vini; sono intuizioni di Joško che oggi caratterizzano la viticoltura di qualità mondiale; lui le ha pensate e messe in pratica, ma non ha mai reputato necessario raccontarle”.

Mateja descrive ogni vigneto di proprietà con perizia empatica. Gli appezzamenti, a cavallo tra Slovenia e Italia, sono stati individuati in seguito a lungo confronto generazionale tra Joško e suo padre. Hum e Dedno sono due appezzamenti in territorio sloveno. Il primo risale al 1990, l’altro al 2009, anno in cui morì, in un tragico incidente stradale, Miha l’unico figlio maschio di Joško. Non è possibile nemmeno immaginare cosa abbia significato per la famiglia terminare la vigna, di una bellezza abbacinante, nel 2017. Vicino all’azienda sorgono i filari di Runc. Camminiamo immersi in una pillola di ecosistema dove le viti crescono in armonia con altre specie vegetali, ideale rifugio per insetti e uccelli. In tutti gli appezzamenti di proprietà, la traccia antropica è intrisa di elementi naturali in una sorta di diorama vivente. Osserviamo due esemplari di Ginkgo biloba, “Li ha piantati Joško – ci dice Mateja – sono alberi che hanno resistito alle bombe nucleari sul Giappone. Per lui hanno un valore simbolico”. 

A pranzo ci raggiunge Gregor, il figlio di Mateja. Il suo ingresso in azienda è stato un momento importante per tutta la famiglia, un contributo in grado di nutrire il futuro. Gregor è un ragazzo giovane, serio e molto appassionato. In questo lungo apprendistato dal nonno si è distinto per la sua capacità di adattamento alla vita contadina. Scopriamo con lui un’infinità di dettagli legati ai mezzi agricoli; sono nozioni tralasciate dalla divulgazione enogastronomica ma fondamentali per una realtà come questa nella quale il suolo, e quindi la sua lavorazione, ha un ruolo vitale. Mentre parliamo, sul tavolo vi sono due annate di Ribolla, 2008 e 2010. Le beviamo nel calice di vetro studiato da Joško per celebrare l’ispirazione georgiana del suo percorso. Sono bicchieri senza stelo che ricordano la coppa caucasica. La mano afferra il vetro cingendolo, è un gesto accogliente, simbiotico, lontano dalla distanza che la prossemica dello stelo crea tra uomo e vino. I vini sono color ambra, limpidi. La 2008 ha profumi di sottobosco e incenso; la dinamica al palato è ampia, profonda e misurata con echi balsamici. La 2010 è complessa con note di albicocca passita e liquirizia. Ha palato di estrema concretezza con tannino e acidità a reggere un corpo concentrato e succoso; il finale lungo e agrumato è di estremo conforto gustativo.

Il vigneto Poye è l’ultimo scasso realizzato. Mateja ci fa strada tra barbatelle e zolle di terra argillosa, tra le quali affiora la “ponca”, una marna arenaria che rappresenta l’identità geologica del Collio/Brda. In lontananza vediamo due uomini che stanno realizzando un drenaggio; uno è sopra l’escavatore che agisce sul solco profondo, l’altro, con una sorta di avvitatore, sta unendo i tubi destinati a regimentare le acque piovane. Ci avviciniamo, l’uomo nella trincea scavata dalla benna è Joško. Ci saluta. “Dobbiamo stendere i tubi e ricoprire – ci dice – in giornata è prevista pioggia”. Sorride e ha uno sguardo felice nell’aria mattutina.

Il vignaiolo che ha cambiato la visione occidentale della viticoltura, unito i margini della storia lacerata e stretto il valore di una bottiglia al gesto umano è ora, in questa vigna futura, una figura a contatto con la terra, ne è parte integrante. Lo guardiamo in silenzio rispettoso, in devozione del suo lavoro così duro, prezioso e unico che ha riscattato nell’era industriale la dignità dell’epopea contadina.


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