Saggio
Tech virtuose
Chi controlla il controllore
La blockchain nell’industria alimentare, spiegata bene
Illustrazioni di
Virginia Giurlani
Da Cook_inc N. 35
Chi controlla il controllore
14 minuti

“Il problema alla base delle valute convenzionali è dovuto alla quantità di fiducia necessaria per far funzionare il sistema. Dobbiamo fidarci del fatto che le banche non svalutino la moneta […] che conservino i nostri soldi […] dobbiamo riporre in queste istituzioni la nostra fiducia in termini di privacy, e fidarci del fatto che i ladri d’identità non svuotino i nostri conti correnti”.

Tutto comincia qui, con le parole di Satoshi Nakamoto (nome con il quale è conosciuto il creatore della criptovaluta Bitcoin) che, ponendosi il problema di doversi fidare di istituzioni – e di chi agiva per conto di queste – costruisce un sistema dove la fiducia viene riposta nel sistema stesso, e non nei suoi attori, quindi un sistema idealmente privo di condizionamenti umani: è la tecnologia dei “libri mastri distribuiti”, ovvero DLT-Distributed Ledger Technology, e della blockchain

I primi settori extra finanziari ad averne beneficio sono stati l’industria del lusso e quella alimentare; quest’ultima, soprattutto, vedeva così la panacea per ristabilire quel patto di fiducia con il consumatore, vistosamente compromesso da scandali di vario tipo sulla qualità, la filiera, la sostenibilità e gli sprechi. I primi players a presentare sul mercato la risposta a questa emergenza furono IBM – con l’IBM Supply Chain Intelligence Suite “Food Trust” – e l’italiana Foodchain.

Ma per capire il perché, prima del come, la tecnologia possa garantire la fiducia, è necessario esplorare innanzitutto il concetto di fiducia.

Fiducia: dal latino fides, differisce dalla fede che è un atto assoluto, ma implica un riconoscimento che si è guadagnato sul campo.
Trust: fiducia in inglese. Dal nordico antico traust, condivide la radice con la parola tree (albero) per il significato di solido, duraturo.

Nel leggere le due etimologie l’idea di fiducia può essere espressa come un consenso che si costruisce sul riconoscimento della solidità altrui. Ma quali canali segue quel consenso per consolidarsi? 

Qui torna utile un veloce excursus sulla storia della fiducia nei secoli: 

1) in un passato remoto il “chi siamo” era la condizione che creava fiducia o sfiducia: mi fido di te perché sei il figlio o la figlia di, ed ecco perché tanti cognomi sono di origine patronimica.
2) in un passato prossimo al “chi siamo” si è aggiunto il “chi conosciamo”: una lettera di presentazione era il viatico per essere accettati in una nuova situazione. 
3) infine, negli ultimi anni un terzo canale si è imposto velocemente sugli altri, ed è quello del “cosa abbiamo in comune”: siamo tutti propensi a concedere la nostra fiducia – a più livelli – anche a sconosciuti se ravvisiamo di appartenere allo stesso insieme, o meglio di essere parte di una stessa community.

Va da sé, quindi, che la community diventa uno strumento estremamente importante per chi ha bisogno di generare consenso, in primis aziende, politica, media e organizzazioni non governative. Esaminando i risultati pubblicati negli ultimi tre anni nei report dell’Edelman Trust Barometer, le aziende sono percepite come le istituzioni più affidabili sul piano etico e quello della competenza. Forti di questo dato, le imprese sono sempre più consapevoli delle responsabilità verso il bene comune e la società e che dal consenso di quest’ultima dipende la loro reputazione.

Reputazione è l’altra parola chiave, insieme alla fiducia, che sta connotando il XXI secolo. Laddove un tempo l’azienda puntava sulle caratteristiche del prodotto, oggi si punta sulla ricaduta che la produzione e il consumo di un bene hanno su persone e luoghi. La reputazione, differentemente dall’immagine di un brand, non è basata su indicatori di gradimento, ma su misuratori di interesse economico e politico. Si chiamano drivers di reputazione, sono sette e fra questi uno è concentrato su innovazione tecnologica e protezione dati.

Eccoci arrivati allora vicini a intuire perché

le tecnologie DLT e blockchain entrano prepotentemente come garanzia di un concetto così umanistico come la fiducia

perché si pongono come strumenti che, una volta messi in atto, sono volti a garantire sicurezza, immutabilità e inattaccabilità dei dati. Ora proviamo a capire come lo fanno (e che i guru mi perdonino poiché macino grosso i concetti).

DLT-Distributed Ledger Technology: pensate a dei libri mastri (se avete più di 50 anni questo facilita) con i registri distribuiti, invece di avere una singola copia del libro mastro in un luogo centralizzato, ogni parte in causa ne possiede una e ogni volta che una transazione viene effettuata o un dato viene modificato, tutti i partecipanti aggiornano le loro copie del registro in modo concorde. Questo avviene automaticamente (giusto per evitare fraintendimenti: non c’è un impiegato con occhialini e manicotti a farlo) e rende i registri distribuiti resistenti alla manipolazione, alle frodi e ai rischi di intermediazione. Questo sistema può essere poi perfezionato, a seconda delle necessità, attraverso diverse tecnologie, come la blockchain.

Blockchain: le transazioni registrate nei registri distribuiti sono raggruppate in blocchi di dati, ogni blocco contiene il riferimento al blocco precedente con il quale è collegato formando una catena di blocchi. Una volta che una transazione viene validata (registrata) nella blockchain, diventa quasi impossibile modificarla o cancellarla perché si dovrebbero modificare gli altri blocchi della catena e le modifiche dovrebbero avvenire prima della creazione di un successivo blocco ed essere approvate dal 51% degli altri attori che appartengono a quella blockchain (processo che si chiama consenso). Questo rende idealmente la blockchain un sistema incorruttibile. Bene da un lato, meno bene sul fronte diritto all’oblio e alla cancellazione dei dati, ma questa è un’altra storia.

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