Una passeggiata
Se volete conoscere Valgiano dovrete prima camminare lungo la strada che separa le due vigne alte della proprietà: Cima e Orfeo. Non si capisce perché la vigna Cima sia chiamata così, Cima sta sotto Orfeo e non viceversa come il suo nome farebbe intuire; ma questa è un’altra questione. Si tratterà di due passi soltanto che vi porteranno oltre il torrente Sana, fondamentale come vedremo per la vita stessa di Valgiano e, a un certo punto, sarete ai muri della Tenuta San Pietro nella piccola frazione di San Pietro a Marcigliano. Qualche anno fa, a San Pietro, arrivò un cuoco stellato norvegese Dag Tjersland che fece dell’edificio in mattoni rosso, dove siete giunti, una sala di essiccazione del merluzzo. Peccato che i lucchesi non abbiano capito l’ottima idea di cucina espressa da Dag, il quale, dopo poco tempo, dovette rinunciare al ristorante sulle colline che tanto lo avevano incantato; oggi la Tenuta San Pietro è ritornata sui canoni classici così graditi alla popolazione locale.
Ecco esattamente dalla vecchia stanza degli stoccafissi, se vi girate, apparirà Valgiano e la sua fisionomia. Quello che vedrete è armonia estetica di un luogo. La villa domina la Tenuta con la geometria squadrata del suo corpo centrale circondato da massicce mura perimetrali che occupano il crinale della collina in posizione perpendicolare quasi a chiudere l’accesso alla parte superiore del paesaggio. È una presenza importante, voluminosa, chi l’ha costruita lo sapeva. Il profilo della collina è poi reso bello da una serie di pini dalla chioma folta che guidano lo sguardo verso un piccolo oliveto e l’incantevole “chiesina” di San Quirico in Petroio, esempio di architettura arcaica lucchese menzionata, in alcuni documenti, già nell’847.

Tra il profilo appena descritto e voi che, ricordo, siete su un altro crinale con le spalle allo stoccafisso, c’è un versante aperto, disteso e colmato di luce dove crescono le vigne dell’azienda. Dall’alto Orfeo, poi la stradina che avete camminato (appena sotto, quasi nascosta, una piccola fonte con un rubinetto dove d’estate gli operai si dissetano all’ombra di un paio di cipressi), poi Cima, Cesari, Cavalli e, un po’ nascosta alla vista, nei pressi del borro scavato dal Sana, Palistorti. Secondo la stagione vedrete queste vigne in modo diverso. Se capitate in inverno la nudità lignea di centinaia di individui vegetali apparirà come un vivido e gigantesco spartito musicale con note sghembe tracciate su linee argentee che sono i fili tesi tra un capo di filare e l’altro. A primavera il sovescio in fiore nasconderà per qualche settimana i filari; senape e favino, giallo e viola a perdita d’occhio. L’estate è della vigna; il frinire delle cicale accompagna la maturazione dei grappoli che, se guarderete bene, a un certo punto saranno dei piccoli puntini blu in un mare abbacinante di verde. In autunno il bosco pare scendere sopra le viti coprendole di un colore nostalgico profumato di funghi.
Solo una volta negli ultimi 60 anni il centro di questo paesaggio vitato è stato modificato. L’espianto della vecchia vigna di Cesari che ospitava antiche viti di sangiovese ormai troppo rade per essere coltivate fu l’occasione, nel 2009, per organizzare una preparazione del suolo al successivo reimpianto. Si decise di piantare una varietà di grano antico che con le lunghe radici poteva muovere con efficacia il substrato del suolo senza compattarlo e quindi rispettandone la vita. Quell’estate un grande tappeto giallo illuminava la collina; dopo la trebbiatura ci fu una cena in mezzo a quel campo con tutti i prodotti ottenuti dalla lavorazione del grano.
Poi gli animali; sopra Orfeo vedrete pascolare capre; accanto al Sana nel folto del bosco ci sono i maiali. Per qualche tempo tra le vigne Palistorti e Cavalli fecero la loro comparsa due vacche ma per stupidi problemi burocratici si dovettero togliere. Durante una vendemmia una manzetta scappò via; i vendemmiatori si dettero alla ricerca e non fu facile riportarla a casa. Da questo punto di vista privilegiato si apprezza forse la cosa più importante del sistema agricolo: l’assoluta continuità paesaggistica. La coltivazione di vite e olivi emerge con dolcezza al centro di uno scenario dove tutto pare al suo posto; la villa con il suo giardino chiuso dal muro di pietra, la rimessa dei trattori, il gruppo di case del borgo di Valgiano, i campi incolti, i poggi erbosi e poi il bosco che sale, appena sopra Orfeo e intorno al Sana, verso le Pizzorne, altopiano pre-appenninico zeppo di castagni. Si può percepire attivamente come lo spazio architettonico, lo spazio antropico e quello naturale siano qui in relazione reciproca. I legami costruiti tra tali ambiti sono uno dei risultati dell’agricoltura biodinamica. Per capire come il tipo di agricoltura svolta possa influire sulle relazioni tra i viventi bisogna lasciare il nostro punto di osservazione e avvicinarsi di nuovo alla Tenuta per conoscere una storia che ha inizio quasi venti anni fa, prima di Dag il norvegese, prima delle capre, dei maiali e della mucca fuggitiva.

Una storia
Moreno Petrini e Laura di Collobiano arrivarono a Valgiano nel 1993. L’acquisto della tenuta fu un piccolo evento per le colline lucchesi, non tanto per l’economia dell’operazione, quanto per la portata storica dell’evento. La villa padronale era stata proprietà della nobile famiglia Compagni e poi della famiglia Vidau. Moreno e Laura sono i terzi proprietari in 700 anni, più o meno, di storia. La particolarità della villa, oltre alla posizione quasi fortilizia nel dominare la collina, è che si trova al centro di un complesso e geniale sistema idraulico settecentesco fatto di chiuse e invasi d’acqua che dalle Pizzorne garantisce un continuo fluire di acqua pura all’interno delle mura perimetrali, in una sorta di feng shui naturale. Furono i Vidau a tracciare per questo luogo la prospettiva enologica piantando varietà alloctone come syrah e merlot di chiara influenza francese. D’altronde questo tipo di storia enologica è abbastanza comune in lucchesia. La dominazione francese con il regno di Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone, aprì la strada a continui contatti tra Lucca e Parigi che inevitabilmente contagiò tanti aspetti della vita quotidiana compresa l’agricoltura. I nuovi proprietari portarono sulle colline una sorta di umanesimo contemporaneo costituito da cultura storica, buon gusto e conoscenza del mondo.
Da tali presupposti nacque anche l’approccio alla viticoltura che vide impegnato Moreno in prima persona. La passione per il vino lo portò a progettare un’azienda moderna puntando sulla tradizione della viticoltura lucchese con in testa, e nel palato, un modello di eleganza e profondità a quel tempo simboleggiata dal terroir bordolese come riferimento. Forse nemmeno lui riuscì a prevedere allora quello che, da lì a poco, Valgiano avrebbe rappresentato nel panorama enologico internazionale. Fondamentale fu l’incontro, qualche anno dopo l’acquisto, con Saverio Petrilli, enologo appena uscito da un’esperienza di lavoro a Volpaia in Chianti Classico. Si conobbero a Milano e poco dopo Saverio si mosse a Valgiano.


Il primo dato che balza all’occhio di quegli anni, intorno alla fine del primo millennio, fu l’affinità tra proprietari ed enologo. In quell’epoca di prestigiose consulenze esterne alle aziende che affermarono vini internazionali da tecnologia raffinata ma viticoltura poco praticata, a Valgiano si gettarono le basi per costituire un nucleo direttivo coinvolto quotidianamente nel lavoro agricolo. Saverio si stabilì da residente a Valgiano dove lo troviamo ancora oggi. Inizia in quel periodo un radicamento senza paragoni tra la viticoltura svolta, il luogo inteso in senso geografico e sociale e la qualità del vino imbottigliato. Sono anni cruciali per comprendere il percorso contemporaneo dell’azienda. Il doppio passaggio, in poco più di cinque anni, dalla pratica convenzionale a quella biologica (1997) e poi biodinamica (2002), indica una forza creativa primordiale propria di una genesi. L’energia di quegli anni coincide con la scoperta di essere custodi di un luogo a estrema vocazione enologica che andava oltre, addirittura, alle intenzioni dei fondatori.
Grazie alle vendemmie di fine anni novanta si cominciò a delineare il profilo di un’azienda di territorio – per quanto marginale – che stravolgeva i canoni dello stesso proiettando i vini prodotti verso il consenso internazionale e affermare un lavoro agronomico seminale di cui oggi, a distanza di venti anni, capiamo la portata.
Per la prima volta in Toscana si parlò di qualità enologica, fino ad allora un valore assoluto quasi scisso dalla natura agricola del produrre vino, collegata alla precisa attenzione alla vitalità del suolo, alla microbiologia della vigna e alle connessioni tra impianto vitato, elemento antropico, paesaggio, elemento architettonico ed etnobotanico e, infine, natura. La rinuncia alla chimica di sintesi in vigna nel 1997 porta a un lavoro molto puntuale nei vigneti esaltando le peculiarità di ogni singolo appezzamento. I suoli di Valgiano sono di origine alluvionale, terrazze di ciottoli di arenaria e di argille su alberese che il Sana nel suo lentissimo ritiro ha depositato su questo versante a circa 250 metri di altitudine. Le vigne vecchie su matrici vive danno uve eccellenti che suggeriscono l’ambizione di produrre un vino che possa far coincidere la bontà dell’agricoltura svolta con l’idea di precisione, finezza e grazia gustativa che muovono la passione di Moreno. Da queste due istanze nasce nel 1999 il Tenuta di Valgiano, il vino più importante dell’azienda. Il sangiovese della vecchia vigna di Cesari costituisce la spina dorsale di un vino senza precedenti per le colline lucchesi, rivendicate con orgoglio dall’appartenenza alla denominazione. Insieme al sangiovese, l’azienda individua nel syrah e nel merlot provenienti dalle vigne di Cima e Orfeo, presenze storiche su questi versanti, i vitigni che donano profondità e ampiezza al rigore del vitigno autoctono. Il Tenuta di Valgiano affianca il Palistorti Rosso e il Palistorti Bianco e sostituisce Cesari che sarà prodotto fino alla vendemmia 2000.


Saverio introduce a Valgiano metodi di vinificazione artigianali ed efficaci imparati nelle sue numerose esperienze all’estero. Le fermentazioni sono parcellari. Solamente poche quantità di uva raccolta al momento giusto che fermenta spontaneamente in bins di plastica di massimo 10 quintali. La selezione delle uve è fatta a mano grazie a un ingegnoso metodo di un doppio nastro trasportatore che fa scorrere prima i grappoli e poi, una volta diraspati, i chicchi. Gli acini interi cadono nei recipienti e la pressatura è uno spettacolo. Si pigia l’uva con i piedi, come una volta. La pressione umana rompe gentilmente il chicco senza lesionare le preziose componenti fenoliche dando il via a fermentazioni spontanee, senza utilizzo di lieviti industriali, che ogni giorno il team di cantina controlla per eventuali operazioni come follature, rimontaggi ecc. Il metodo di Saverio scompiglia i normali protocolli enologici. Si arrivano ad avere più di venti vinificazioni separate. La vendemmia diventa uno spettacolo di colori, profumi e persone. Saverio chiama amici enologi e produttori e ogni anno a Valgiano arrivano ragazzi da tutto il mondo a vendemmiare. I pranzi e le cene di vendemmia diventano lezioni di viticoltura, enologia e degustazione. Operai dipendenti, vendemmiatori stagionali, amici in genere, Saverio, Moreno e Laura si siedono allo stesso tavolo con bottiglie, dall’etichetta coperta, per assaggiare, capire, conoscere e condividere. Svolta la fermentazione alcolica, il vino andrà in piccole botti di rovere francese per la fermentazione malolattica dove passerà l’inverno nel quale i continui assaggi porteranno i lotti migliori a comporre il Tenuta. Tutto molto semplice e naturale. Grazie all’impegno di Moreno e Laura il Tenuta di Valgiano diventa un vino apprezzato e ambito dal forte respiro internazionale fin dalle prime annate. La sua apparizione coincide con un momento fortunato per l’enologia italiana che circa dieci anni dopo lo scandalo del metanolo sta finalmente diventando protagonista nel mercato internazionale.

Tutto molto semplice e naturale.
Se il Tenuta di Valgiano rappresenta la prima svolta aziendale è con il passaggio alla biodinamica che Moreno, Laura e Saverio compiono un approfondimento decisivo sulla comprensione della natura del luogo che abitano, modificandone l’anima e, di fatto, inaugurando un tipo di agricoltura complessa che oggi, a distanza di venti anni, rappresenta un modello di riferimento. Gli inizi della pratica biodinamica hanno qualcosa di epico. Le dinamizzazioni dei preparati sono fatte utilizzando una barrique e un manico di scopa. I rigidi orari imposti dalla disciplina costringono gli operai a levatacce mattutine ma Saverio è talmente carismatico che presto il “popolo” di Valgiano è coinvolto nell’avventura e poi il caffè caldo delle 4 di mattina ha un sapore buonissimo così come il panino al prosciutto crudo e il vino spillato dalla botte che aspettano i prescelti un paio d’ore dopo aver spruzzato i preparati in vigna. Valgiano comincia a cambiare. Saverio crea una squadra fissa di operai e cantinieri che costituiscono in quei primi anni duemila una vera e propria famiglia. Si costruisce un pollaio, si produce miele, tornano in collina maiali e vacche. L’eccellenza enologica, ricordiamolo obiettivo principale della Tenuta, si amplifica di contenuti spirituali e affettivi. È in quel periodo che la geografia dell’azienda comincia a espandersi oltre la vigna; la continua osservazione dei segnali vegetali sono sempre più incoraggianti, i suoli tornano a una vitalità primordiale, le piante assumono un portamento verticale e simmetrico: la vigna così “spettinata” ma viva e vigorosa comincia ad assomigliare al paesaggio che la circonda diventandone elemento di continuità. Le annate si succedono e vendemmie come la 2002 e la 2003 mettono a dura prova il metodo appena cominciato; nel loro andamento estremo – umida a dismisura la 2002, arida la 2003 – confermano però la bontà della viticoltura praticata. Nello scorrere delle vendemmie il TdV (così è chiamato in azienda il vino) dimostra un carattere sempre più deciso e senza compromessi. La trasparenza è una dote rara almeno per quella decade. Il vino si impone per la capacità di sottolineare l’andamento vendemmiale senza particolari filtri enologici.
Valgiano comincia a cambiare.
Nei primi anni di viticoltura naturale, nell’intenzione di rendere il vino sempre più autentico, i tratti espressivi affidati alle poderose estrazioni della prima vendemmia lasciano il campo ai cenni di volatile – all’inizio del 2000 – e complessive sensazioni selvatiche. Tali caratteristiche non incidono la personalità di un liquido che trova l’armonia più compiuta a partire dalla vendemmia 2005. Gli anni che portano a oggi sono contraddistinti dall’esplosione del vino naturale. La narrazione del vino è cambiata abbastanza rapidamente e la sensibilità ecologica invade il mondo enologico. Il lavoro iniziato venti anni fa alla Tenuta di Valgiano oggi è replicato e rivendicato a dismisura in ogni ambito di comunicazione sul tema. I famosi modelli di riferimento dell’eccellenza enologica, come quello bordolese o borgognone, sono incalzati da vini senza rivendicazione di origine ma che portano in dote almeno due caratteristiche principali: la naturalità della lavorazione e la leggerezza gustativa a scapito, dobbiamo dirlo, della complessità e, sovente, almeno per l’inesperienza di molte realtà produttive emerse di recente, di eleganza. In questa sorta di ribaltamento dei valori i vini di Valgiano sono diventati nel frattempo un classico di riferimento. Moreno e Laura hanno un gusto superiore che ha saputo formare i caratteri organolettici dei vini prodotti. Poco attenti alle mode passeggere il loro rapporto con il vino è dettato da esperienze gastronomiche formative stratificate in infinite declinazioni. In una parola il loro è un approccio al bere competente e maturo.

Per questo i vini di Valgiano rappresentano oggi un modello enologico completo, ottenuto da anni di messa a punto dell’approccio biodinamico in vigna e la conseguente attenzione a trasformare uve nella maggiore trasparenza possibile. Insegnano in poche parole la finezza dei dettagli aromatici, della maturità dei tannini e dell’armonia tra i componenti estratti dall’uva.
Dopo aver proposto e divulgato il metodo biodinamico in viticoltura diventandone paradigma internazionale, l’azienda ha dimostrato come una vigna in equilibrio naturale origini uve armoniche e complesse: unica condizione imprescindibile per ottenere vini fini. Un insegnamento valido per tutti i vini che verranno.