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La Chiesa del latte
Le mille attività di Cascina Lago Scuro, il luogo agricolo di socialità della famiglia Grasselli
Da Cook_inc N. 28
La Chiesa del latte
12 minuti

Girovagando per le campagne della Bassa, tra Mantova, Cremona, Parma, Piacenza, il numero di cascine di irresistibile fascino cadute in rovina è sorprendente. Sono state il set di quel mondo contadino che Bernardo Bertolucci nel suo Novecento narrò in maniera straordinaria trasformando la parmense Corte degli Angeli nel teatro del conflitto tra latifondisti e contadini.

Per questo quando approdiamo alla Cascina Lago Scuro nella campagna cremonese il cuore si allarga nell’osservare come una di queste immense proprietà, così spesso abbandonate o, peggio, circondate da un ignorante e orrido villettume, sia stata invece sottratta al declino e stia oggi riscrivendo un nuovo capitolo. Non che sia facile senza aiuti pubblici mantenere in piedi un complesso che conta una chiesa, la casa del fattore, la villa padronale, stalle, abitazioni dei contadini, barchesse, parco… eppure la famiglia Grasselli ce l’ha fatta. Senza stravolgere con ristrutturazioni smaniose e inappropriate quelle atmosfere un po’ decadenti che rispettano la verità del borgo.

Le dinamiche novecentesche di conflitto tra proprietari terrieri e lavoratori lasciano qui il passo a dinamiche più virtuose dove “l’ortolano” Ahmed, il ragazzo egiziano arrivato in Italia con i barconi, in appena tre anni si è messo alla guida di orto e trattore come solo chi ha fame di riscatto può ingegnarsi a fare. Naturalmente come in ogni storia c’è un incipit e il clic questa volta è arrivato da papà Fabio (o nonno come qui lo chiamano. Di quattro nipoti che porteranno, si spera, il futuro dell’azienda verso altri traguardi). Nella più classica delle sliding doors, Fabio, all’epoca giovane studente di medicina, dopo quattro anni di studi, abbandona per fare, udite udite, il bergamino, ovvero il mungitore di mucche. L’aristocratica famiglia si danna (gli stemmi a suggello del casato sono impressi sulle stoviglie sopravvissute al passato) ma Fabio porta avanti la sua personale rivoluzione sottraendosi ai doveri codificati di buon rampollo. Quel che si diceva ai tempi, un alternativo. Poi dal mungere le mucche, passa ad allevarle venendo a patti con l’eredità di famiglia e decidendo, fors’anche sull’onda di quel riflusso che ha segnato un’intera generazione fuggita dalla politica e sciamata in campagna, di aprire nell’antico palazzotto nobiliare il suo agriturismo. Che, per un adepto al culto de La Gola (indimenticabile rivista cult degli anni Settanta), non poteva che rispondere al credo sloowfoodista & sostenibile. Si piazza in cucina e guai a chi gli sta tra i piedi. Vuole e deve fare tutto da solo. Formaggio compreso cui inizia presto ad appassionarsi con il latte di cinque vacche che munge personalmente con il secchio. La base delle sue preparazioni culinarie sono invece le ricette di sua madre Germana così romanticamente raccolte in un ricettario di carta di riso. “La mia era una famiglia di possidenti ma nessuno di loro ha mai lavorato la terra. Io mi sono dovuto inventare tutto”. In cucina nonno Fabio si industria, rigorosamente sempre da solo, dal 1996 al 2006 lasciando poi mano libera al figlio Luca e divertendosi oggi a cucinare solo per i nipoti senza più lo stress di clienti giudicanti.

Burbero solitario sognatore Fabio trova ora pace ed essenza poetica nel piccolo aristocratico mondo del suo caseificio, la sua “chiesa del latte”, come l’ha dipinta su un murales l’artista Alex Todaro, e alla cui devozione partecipano solo la moglie Paola e un’altra giovane donna, Marta. Nel frattempo, l’azienda agricola ha preso la strada della riconversione a quel biologico che in anni passati mostrava tutt’altra allure.

“Oggi di poesia ne rimane ben poca, resta piuttosto un mare di burocrazia”

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