Reportage
Tra Mare e Oasi
L’Isola Sacra dei Sapori
Da Macchia Grande al Lago di Burano: con Gianfranco Pascucci nelle Oasi WWF, foraging tra mirto, alloro e rosmarino.
Da Cook_inc Nr. 15
L’Isola Sacra dei Sapori
17 minuti

Il maestrale spazza l’aria e sferza i colori trasformando il litorale romano ai margini dell’aeroporto di Fiumicino in un paesaggio primordiale. Se non fosse per i due surfisti che approfittano del forte vento per cavalcare le onde potresti ancora immaginare il deserto dei secoli a ritroso, quando l’imperatore Traiano decise di costruire lì, poco all’interno, un porto artificiale, un bacino perfettamente esagonale, chiamato appunto il lago di Traiano. 

Con Gianfranco Pascucci camminiamo lungo quel che resta delle antiche dune riempite dal mare in una discarica di plastica. Di fatto stiamo battendo un’area archeologica: “Tra la sabbia puoi ancora trovare pezzi di anfore, resti di muretti romani. Fossimo in America dovremmo pagare per fare questa passeggiata”. Ma non siamo in America e non siamo in loco per ragioni storico archeologiche bensì botaniche. Scrutiamo tra la sabbia per individuare quelle piantine pioniere che hanno il loro habitat nella duna: Cakile maritima (che ricorda incredibilmente il wasabi), Echinophora spinosa (il Finocchio marino o litorale), Salsola kali, Salicornia perenne… Piantine costrette, poco più in là, a trovare ripari di sopravvivenza tra il cemento e le costruzioni. Gianfranco le sta studiando da tempo, da quando ha preso a cuore l’ecosistema fuori e dentro l’Oasi del WWF di Macchia Grande, luogo di immensa suggestione tra Fregene e l’aeroporto di Fiumicino, a mezz’ora di macchina da Roma, a un chilometro dalla foce del Tevere. 280 ettari di archeologia botanica e di biodiversità, a due passi dalle piste, nell’area dove si sta giocando la partita dell’allargamento dello scalo romano che, speriamo, non inauguri un altro filone di Mafia Capitale. Il via vai degli aerei non sembra intanto disturbare questo piccolo paradiso della fauna protetta, assediato tutto intorno dalla speculazione edilizia. 

Ci sono anche due testuggini di 120 e 130 anni, che Riccardo Di Giuseppe, il giovane laureato custode dell’Oasi e nostra guida, accudisce come fossero vecchie zie: “Se le segui, Gina e Piera ti indicano tutti i germogli commestibili”. Giusto per mettere insieme un’insalatina slow. Gianfranco avrebbe in realtà tempi un po’ più frenetici di quelli delle tartarughe, ma ogni tanto si regala i loro per venire a camminare nella lecceta a penetrare il tesoro di sapori che l’Oasi custodisce e che nessuno sin qui si era preso la briga di mettere gastronomicamente in valore. È stato Riccardo a traghettarlo verso questo mondo, incrociando il bisogno professionale dello chef di lavorare su una sua nuova identità professionale.

“Mi sono spesso interrogato sul mio ruolo di ristoratore. Sono un informatico ma ho sempre coltivato le mie passioni in campo umanistico e sento tuttora la necessità di dare un senso più ampio alla mia cucina”.

Il ristorante Pascucci al Porticciolo è a sua volta una piccola oasi proprio alla fine del porto canale di Fiumicino, a sinistra della linea del mare. Indicazione non superflua in quanto chi ci arriva può trovarsi a compiere ottomila giravolte sul lato destro del canale e sarebbe un vero peccato sedersi a tavola un po’ spazientiti. Meglio studiarsi la geografia. Il porto canale altro non è che l’antica fossa traianea costruita dall’imperatore per collegare il lago interno al mare fornendo così il Tevere di uno sbocco artificiale, mentre la foce naturale è poco più a sud, sul litorale di Ostia. I due bracci del fiume delimitano l’Isola Sacra dove sta per l’appunto il Porticciolo. Ma la darsena non la vedi. E neppure il mare. Occultato da un enorme capannone, un rimessaggio di barche che ogni amministrazione si impegna ad abbattere o spostare. Nulla ovviamente accade. Che importa poi se da Pascucci fa scalo, in attesa di un aereo (ha anche sette stanze), una clientela internazionale sempre più preparata e informata e il ristorante è da tempo nel trending topic gourmet? Si spera ora nel sindaco Esterino Montino che però da produttore di vino non ha poi così brillato per sensibilità ambientale nella costruzione della sua cantina di Capalbio. 

Non c’era quel capannone ai tempi di nonno Pompeo quando, prima della guerra, da Magliano Sabina scelse di approdare all’Isola Sacra seguendo il tam tam di una possibilità di fortuna, al pari dei tanti veneti richiamati qui dalla bonifica mussoliniana. Erano così numerosi i veneti, che a lungo nei bar del porto rimase l’abitudine dei cicchetti. Anche Pompeo aprì un punto di ristoro. La fortuna arrivò davvero con la ferrovia che iniziò a scaricare a Fiumicino schiere di villeggianti, i cosiddetti fagottari che si portavano in spiaggia il loro fagotto di provviste concludendo il pasto con un po’ di vino nella fraschetteria. “Era un affabulatore. Ricordo i suoi racconti su Fiumicino mentre mi accompagnava al faro. Morì mangiando, un boccone gli andò di traverso, ma morì come voleva morire, a tavola”. La trattoria passò di mano con gestioni alterne che la portarono poi al fallimento. L’immobile restò dei Pascucci, ma la gestione finì all’asta e qui successe quel che era scritto dovesse succedere.

Il giovane Gianfranco, neo-diplomato in informatica, passa le sue vacanze arrotondando come insegnante di windsurf nel villaggio di Pugnochiuso. Lì conosce Vanessa, anche lei miracolosamente di Fiumicino, ma dell’altra sponda del canale (quando si dice la geografia, l’avete studiata?). Mai infatti si erano incontrati, due mondi divisi dal Tevere, lei di qua, lui di là, dentro l’Isola Sacra. Pugnochiuso li riunisce come due parti di una mela e l’intesa si sposta presto anche sul piano professionale. I due cominciano a fantasticare sull’opportunità di aprire un loro posto. Iniziano così a spulciare gli annunci su Porta Portese e qui il destino ci inzuppa lo zampino: individuano un locale accorgendosi solo più tardi altro non essere che la trattoria di famiglia. Si comprano la licenza all’asta e iniziano 13 anni fa “come due ragazzi allo sbando”. Spaghetti alle vongole, calamari fritti, insalata di mare, crudo di pesce, riso alla pescatora, riso agli scampi… calano giù la classica scala del litorale. “Dopo un po’ nemmeno gli amici venivano più. Per un momento abbiamo anzi pensato di chiudere”. Poi la sterzata. “Da cuoco autodidatta vivevo con i libri di cucina persino sotto il letto. Quello fu un periodo di viaggi e di scoperte”. Tra queste il rapporto con Fulvio Pierangelini: “Un faro”. E qualcosa dello stile del grande Fulvio deve essere migrato nella cucina di Gianfranco se è vero che dopo appena tre anni nei giri che contano si comincia a parlare di Pascucci. Il successo arriva alla fine degli anni 90. “Siamo diventati di moda ed è stato ancora peggio”. 

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