Bottiglia, damigiana, lattina, bag in box: il packaging del vino ne influenza la lavorazione, e viceversa. Ne abbiamo parlato con l’esperto Fabio Pracchia e Alessandra Costa, co-fondatrice di Sfusobuono.
Testo di Elisa Teneggi
Foto cortesia
C’è chi il vino lo mette in bottiglia, chi in lattina. Una volta si faceva in damigiana e poi ci sono quelli che preferiscono il bag in box, ovvero una sacca simile a una vescica inserita in una scatola di cartone: metodo usato da tempo per il trasporto di liquidi di vario genere, ultimamente salito alla ribalta in quanto packaging finale di un prodotto. Che se uno ci immagina dentro il succo di mela, ok. Ma quando ci vanno di mezzo affinamenti in cantina & co., viene da chiedersi: ma di quale vino parliamo, quando parliamo di bag in box?
La risposta è semplice: lo sfuso. “Lo sfuso ha una lunga tradizione in Italia. Un tempo era la modalità di consumo del vino per eccellenza, che richiedeva anche una certa perizia, nel senso che andavi a prendere il tuo vino sfuso in damigiana e stava poi a te capire quando imbottigliarlo. Una volta del vino eravamo partecipanti attivi, non spettatori”.
Questo è Fabio Pracchia, autore di saggistica, divulgatore ed esperto nel mondo del vino. Di sfuso – anzi, di sfusi – Pracchia ne sa a otri. Perché aveva iniziato a scrivere una specie di libro sull’argomento, poi aveva dovuto interrompersi. E anche perché, dice, un vino buono può nascere solo da uno sfuso di qualità. Che, per essere riconosciuto come tale, ha bisogno di essere degustato e compreso secondo canoni ben diversi rispetto a quelli riservati al vino in bottiglia.
“Tutto il vino è sfuso, almeno in un momento della sua esistenza”, così Pracchia. “Il vino di Romanée-Conti nasce sfuso, come quello di ogni produttore. Ci troviamo prima dell’imbottigliamento e del passaggio in cantina”. Per questo lo sfuso è maggiormente legato alle caratteristiche di un territorio, ne porta le spalle. Si ferma prima dell’intervento tecnico delle operazioni di cantina. “La bottiglia nobilita il vino e conviene economicamente al produttore. Non dobbiamo però dimenticarci da dove veniamo: fino agli anni Ottanta in Italia non si sapeva bere e in più siamo stati svantaggiati dal ritrovarci Stato-nazione solo nell’Ottocento. Il nostro passaggio alla modernità è stato repentino, e tutto ciò che aveva a che fare con la terra ha assunto immediatamente una connotazione negativa. Invece è eredità, è una tradizione geografica”.
Pracchia continua: “Ricordiamoci che da noi la prima bottiglia per il vino è il fiasco. Da lì, facendo un salto ai giorni nostri, vediamo che gli enologi sono diventati delle specie di superstar del vino. È vero che sono fondamentali, però molti di loro sono dei tecnici, non rispettano una grande denominazione, per esempio, si interessano di fare vini tecnicamente ineccepibili, ma senza nemmeno un po’ di pelo, di territorio”.
Quando diciamo “sfuso”, allora, non ci rivolgiamo solo al contenitore. Certo, il contenitore è sia causa che sintomo: un vino “passato” in cantina sarà imbottigliato e si passano i vini in cantina per uno scopo sia di prezzo che di risultato. Solo che spesso lo sfuso è inteso come sottoprodotto di lavorazioni più pregiate: uve non mature, piccoli difetti e così lo si vende per tagliare altri vini. “Lo sfuso di qualità, invece, è semplicemente un grande vino nella sua forma primordiale. E ha bisogno di diversi criteri per essere degustato e compreso, perché nello sfuso si ricercano le caratteristiche essenziali di un vino”.
Non solo. Secondo Pracchia, infatti, la differenza tra bottiglia e sfuso non è solo culturale, ma anche sociologica. “Il consumatore si approccia allo sfuso in maniera democratica, da pari. Con la bottiglia invece si instaurano trepidazione, distanza, tensione. Lo sfuso è foriero di un approccio alimentare al vino, è come addentare un panino al prosciutto”. Anche perché la sua filiera è più corta e senza fronzoli. Tutto l’ecosistema del vino trae beneficio dalla sopravvivenza dello sfuso: “Oggi l’invenduto sulle bottiglie è alto. Lo sfuso può far riavvicinare al vino, alle denominazioni, ai territori. Anche attraverso grandi nomi che si fanno, con lo sfuso, più abbordabili. Un vino che esce a 100 euro la bottiglia ne può costare 5 al litro sfuso. E l’uva è la stessa. Tutto il resto sono le logiche di mercato, fascino e speculazione a creare il mondo del vino e la sua magia. Basti pensare che, nei fatti, il costo del vino lo decidono gli imbottigliatori a fine vendemmia con i loro mediatori”. La necessità di rimettere in circolo un prodotto che altrimenti sarebbe rimasto invenduto: questa stessa necessità, così legata allo sfuso, ha dato lo spunto per la nascita, in quel di Alessandria, di un progetto che questo vino lo porta proprio nel nome: Sfusobuono.
“Mi sono laureata in Scienze Gastronomiche a Pollenzo, poi mi sono formata come sommelier. Quando è scoppiata la pandemia di Covid-19 stavo lavorando per un’enoteca online di stampo tradizionale. Con l’arrivo del lockdown, pian piano sono sbucati alcuni produttori che mi chiedevano un aiuto nel piazzare il loro sfuso che era andato invenduto. L’export era bloccato, imbottigliare era fuori discussione. Però lo sfuso era di qualità, non da battaglia”. Così Alessandra Costa, co-fondatrice di Sfusobuono, e-commerce e selezionatore di vini sfusi di qualità, ha iniziato a guardarsi intorno, accorgendosi che di verticali sullo sfuso ce n’erano, eccome. “Siamo nati dalla necessità di un periodo storico, poi abbiamo capito che poteva essere una missione: dare una seconda vita a un prodotto di qualità. E permettere a sempre più persone di avvicinarsi non solo a delle eccellenze, ma al mondo del vino in generale”.
Per farlo, Costa ha scelto proprio la bag in box: “Ha vantaggi in termini di sostenibilità e durata nel tempo [40 giorni dall’apertura, nda]. E poi volevamo che la rivoluzione partisse dal packaging, curando molto l’aspetto estetico… Insomma, volevamo rompere con le concezioni deteriori legate allo sfuso”. Per questo motivo, la confezione degli Sfusibuoni è ammiccante: un parallelepipedo perfetto per l’anta del frigo di casa. I numeri ci sono: una bag in box da tre litri (formato di vendita scelto da Sfusobuono) consuma – per essere prodotta – 70 grammi di anidride carbonica, di molto inferiore a un equivalente in Tetrapack (85 grammi), ma anche di una bottiglia leggera (che consuma 525 grammi di CO2) – fonte: Sfusobuono.
Oggi, Sfusobuono conta vini provenienti da dieci regioni italiane, Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Puglia; Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria – e per ora basta loro concentrarsi sull’Italia, eccezion fatta per la Slovenia. Oltre il vino, il sito permette di acquistare succhi di frutta, un amaro, un vermouth e un premiscelato vermouth-bitter da completare per ottenere il cocktail di proprio piacimento. Da quest’anno, Sfusobuono – oltre a essere sempre più capillare sul territorio – ha inoltre aperto al mercato tedesco.
Vien da pensare che fatica, tutte queste anime da convertire allo sfuso. “In Nord Europa è del tutto normale pensare che anche all’enoteca si possa ordinare vino da bag in box”. Le difficoltà più grandi, però, non sono dove ce le si sarebbe attese. Certo, è il consumatore quello su cui bisogna operare inganni e convincimenti per arrivare a portarlo all’assaggio dei vini sfusi, ma sono soprattutto i produttori che non vogliono associarsi con l’idea del vino sfuso.
“Tra questo e l’emergenza sanitaria noi andavamo porta a porta, a bussare alla gente, e presentarci, a chiedere di darci il loro vino per metterlo in una bag in box. Abbiamo cominciato a ingranare quando abbiamo iniziato a lavorare con alcuni produttori rispettati come Carussin. Ah, e conta che ci occupiamo solo di vino naturale. Capiamo questa avversione: oltre al rischio degli inizi, si tratta di piccoli e medi produttori radicati sul territorio, che probabilmente negli ultimi decenni hanno fatto di tutto per modernizzare la propria azienda. Proporre di vendere loro sfuso sembrava un’idea arretrata”.
Il pubblico giovane, invece, è più bendisposto alla novità e infatti le fasce d’età spendenti ma inferiori sono i clienti più affezionati di Sfusobuono. Tanti sono ricorrenti, dice Costa, prendono sempre le solite cose e magari cambiano quella del mese. Sono alla ricerca di un’alternativa più sostenibile, sia a livello ambientale che economico: il costo del vino sta diventando proibitivo e avere un’alternativa al vino di tutti i giorni, magari non delle grandi occasioni, fa comunque comodo. “Pensa che abbiamo organizzato vari blind tasting in cui chiedevamo di indovinare quale vino provenisse da una bag in box. Mi limito a dire che i risultati sono stati deludenti per i nostri detrattori. L’importante è portare il potenziale cliente fino all’assaggio, arrivato lì ce l’hai fatta”.
L’effetto-Tavernello, potremo chiamarlo. Di nuovo Pracchia: “Il Tavernello è uno di quei famosi vini tecnici, fatti a tavolino. Non ha un difetto. Di fronte a un prodotto come quello, però, la domanda è se vogliamo davvero dirigerci verso quegli estremi. Il vino tecnico è un anello che non tiene, che dimentica il territorio. Dobbiamo accettare il fatto che il vino è un prodotto agricolo e che, come tale, nasconde delle increspature. Ma proprio da lì nascono le possibilità dell’esperienza gastronomica e alimentare”.
Insomma: “Il Tavernello è un vino che non ti fa pensare. Apprezzare il buono sfuso, invece, ti fa girare le rotelle, ti avvicina alla qualità”. Oppure, vorremmo dire noi a questo punto, ad avvicinarci sarà uno Sfusobuono.