Testo di Barbara Marzano
Foto cortesia di Ristorante Opera
Come scordare la celebre sentenza coniata dall’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, Less is more? Un principio ispirato alla concezione per cui “di più” si raggiunga costruendo qualche cosa di essenziale, sostanzialmente attraverso un “di meno”. Una filosofia che, se applicata al nostro day by day, sconfessa l’opulenza in cui per golosità è facile inciampare. Un’ingordigia che viene messa alle strette anche da un recente appello del WWF, a cui Stefano Sforza, chef di Opera Ingegno e Creatività nel centro di Torino, ha dato particolare peso. Non è un caso che Stefano abbia rivoluzionato la sua carta, con la decisione di bandire dal menu ingredienti protagonisti, “solamente” per essere più sostenibile. Un atteggiamento responsabile, ma anche una riduzione che incarna l’essenzialità di un semplice, ma necessario, gesto d’amore per il pianeta. Non sarebbe un azzardo sostenere che Stefano rimpolpi in un certo senso il concetto di less is more, con una variante tendente al less is amore. Una mancanza che trasmette al cliente quel valore aggiunto, scaturito da una sperimentazione continua: “Non sono preoccupato per l’assenza di certi prodotti nel mio menu. Al contrario, ho scoperto che proprio la loro eliminazione dà il via a una stimolante ricerca per sostituirli”.
La regola vale nel ristorante torinese, supportato dal proprietario Antonio Cometto, come in quelli ospitanti. Lo chef ne ha dato prova alla due giorni tenuta nell’HUB milanese di Identità Golose, con una cena “misurata” nella selezione degli ingredienti, semplici ed equilibrati, aperta da Capasanta e litchees, bagnati da un brodo di sedano bronzeo, che confondono il palato con le due consistenze gemelle. A seguire Risotto, trota affumicata e mela al ginepro, un classico della tradizione privato di soffritto, burro e parmigiano, sostituiti da una leggerissima emulsione di olio di aneto e latte di soia. Ma sostenibilità fa rima con stagionalità, che lo chef loda con un secondo rispettoso: Merluzzo, zucca brasata e maracuja, riferimento non puramente casuale al frutto come elemento protagonista nei secondi di Sforza e al pesce rigorosamente di stagione come è prassi da Opera. Un piccolo excursus nella sua cucina, chiuso da un ricordo di casa, il kiwi saluzzese avvolto da una Crème fraîche lieve.
Dai suoi maestri, Pier Bussetti e Alain Ducasse, impara rigore e rispetto per la materia, messi in pratica al Bellevue di Cogne, al Del Cambio di Torino e al Trussardi alla Scala di Milano. 15 anni di esperienze che lo portano a una pratica di pura sintesi, uno scarto stilistico per differenziarsi dal resto. Una metamorfosi culinaria che apre le porte di una cucina etica e ambientalista, ma che non perde per strada il sapore. Nonostante il foie gras fosse imprescindibile nei menu di Opera, presente nel tortello in brodo quanto nella pasta, è stato depennato dagli ingredienti principe dello chef a causa dell’insostenibile crudeltà con cui viene prodotto. È stato rimpiazzato, ma senza stravolgere il piatto: “Quando decido di non utilizzare più una materia prima, una cosa è certa: si tratta di una sostituzione dell’ingrediente, che non coincide assolutamente con il cambio radicale di un piatto”.
È così che lo chef lascia in panchina il raviolo con foie gras, per sostituirlo con uno ripieno di tapioca cotta e condita con ricotta, servito su cime di rapa con una salsa di pancotto. Stessa logica anche per l’anguilla, specie a rischio di estinzione, sostituita con l’aringa in uno spaghetto saltato con il suo brodo e condito con arancia – marmellata e scorza tritata – e un’emulsione di succo di mandarino e olio.
“Voglio fare stare bene il cliente, ma anche il pianeta. E dato che è possibile, perché non dovrei farlo?”. Il benessere dell’ambiente pesa quanto quello della persona. Togliere dal menu alcune specie, piuttosto che prodotti poco etici, non è una rinuncia ma un di più, valoriale quanto etico. Lo stesso vale per la linea carnivora di Opera. Le carni vengono prese solo da piccoli allevatori nella zona di Cuneo, persone di fiducia che allevano “animali felici”, trattati con cura e macellati solamente dopo 7 o 12 anni di vita, a seconda della specie.
L’attenzione su carne e pesce, ma più di tutto sul vegetale. Un immancabile tocco veggy firma tutti i piatti di Stefano, che dedica al regno vegetale un menu proprio ogni mese: c’è stata la volta del pomodoro, del cavolfiore e del carciofo, e ora della zucca, che ha aperto l’anno nelle sue tinte orange.
“Le verdure aprono uno spettro di soluzioni incredibile. Carne e pesce, in termini di consistenze e cotture, hanno sicuramente un’esplorazione ridotta rispetto al mondo vegetale, che invece è paradossalmente infinito.” Ogni piatto del percorso vegetariano si riempie di una qualità di zucca diversa, tutte di casa, autoprodotte nell’orto di proprietà della famiglia Cometto, fatta eccezione per la Lunga di Napoli selezionata dai contadini dello storico mercato torinese di Porta Palazzo. Crude, cotte, liquefatte: Beretta, Piacentina, Hokkaido, Delica, Violino e Lunga di Napoli sfilano nei piatti sottobraccio con le loro bucce e i loro semi, basi per realizzare olio, brodo e condimento che rivestono tra i tanti un raviolo di zucca, con latte di mandorla e mostarda di anguria bianca.
Sostenibilità, dunque, nella cucina di oggi e nel piatto di domani, ma verso quale direzione? Stefano per ora accelera sempre più nel traffico delle cucine moderne per imboccare la svolta etica. A quanto pare, un percorso che sa come percorrere.
Opera
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