Testo di Letizia Gobio Casali
Foto cortesia di Peter Brunel
Un pasto da Peter Brunel è un’avventura intellettuale, l’ingresso in un mondo fatto a sua immagine a somiglianza per quanto al servizio del cliente, che qui viene intrattenuto, viziato, informato, sedotto. L’imprinting di Brunel è pervasivo e incide su tutto: dal menu, offerto in 3 possibili varianti (Japan- Trentino- Nikkei, Il priore dedicato a D’Annunzio e I miei grandi classici) più 2 piatti iconici a parte, più la variante 2 x 1, ovvero la rara possibilità per ogni commensale di scegliere indifferentemente tra le varie possibilità senza vincolare, come avviene quasi dovunque, di imporre un unico menu per tutto il tavolo. Nella personalizzazione, tanto delle scelte del cliente, quanto di quelle dell’anfitrione-gestore-chef, sta tanto la forza quanto il limite dell’esperienza: perché, conoscendo lo chef (che in realtà si definisce oste e cuoco), tanto il locale ristorante quanto i piatti appaiono come una mappatura della sua storia e della sua personalità, una summa delle sue esperienze, esigenze, predilezioni e fissazioni.
Non conoscendolo, invece, i dettagli sfuggono, sfumano in una bellezza curata ma non così trasparente nella sua funzionalità intrinseca, mentre in realtà ogni elemento del locale – il cui involucro fu progettato negli anni Trenta del secolo scorso da Giancarlo Maroni, l’architetto del Vittoriale degli Italiani – oltre alla gradevolezza, possiede una finalità specifica. Per esempio, i due mobili bianchi che contengono il frigo e le posate mostrano un lato lavorato, che serve non ad abbellire bensì ad assorbire il rumore. Idem per le lampade a cilindro rovesciato che, come un Cappellaio matto, Brunel ha voluto nel salotto che precede la sala da pranzo, le quali (oltre ad alludere alla storia di Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll) analogamente attutiscono il sottofondo prodotto dei commensali.
Lo stesso ingresso con ampie vetrate che danno su vasche d’acqua volute per “suggerire” la vista del vicino Lago di Garda (riprodotto in piccolo) e accontentare gli incontentabili (che a Brunel hanno rimproverato che dal suo locale non si vede l’acqua ribalta) con ironia, quello del Vittoriale, la dimora di quel Vate che per Brunel è stato un po’ ispirazione, un po’ predestinazione.
Perché se là, a Gardone, occorre chinare il capo quando si entra nella casa di Gabriele D’Annunzio, qui al contrario, l’altezza esime dal farlo. Ma, appunto, se non si è intimi di Brunel, il legame sfugge. Invece qui tutto racconta di lui: dalla cornice dorata, che accompagna l’apertura del locale pasticceria, che è una replica in grande di quella di Vissani, ai gueridon concepiti in due varianti dallo chef, fino ai tavoli a mandorla della prima sala, con sedute basse per accomodare senza imbarazzi gli amici arrivati “solo per mangiare un piatto” ma anche chi abbisogna di una sedia a rotelle; alla librerie, che – in modo impercettibile ma efficace – invitano a sfogliare i libri, ma vietano di toccare i liquori; alle sedie della sala ristorante concepite per appoggiare la schiena e supportare i gomiti, per consentire a chi mangia di rilassare parte dorsale e addominale, gustando meglio i pasti.
Un’attenzione maniacale al benessere degli ospiti, ma anche una ricerca di senso che bandisce ogni decorativismo per privilegiare una comunicazione bidirezionale tra chi accoglie e chi è accolto, in cui entrambi emergono trasparenti (o simultaneamente invisibili) all’altro. E così, se ovviamente la cucina – mutuata da quella del Vittoriale – è a vista e, in realtà è un’estensione della sala, più che un ambiente a sé, per mostrare alla clientela le operazioni che ordinatamente vi si svolgono, altrettanto comodo è per chi cucina vedere cosa resta nel piatto, tarare la grammatura dei primi, aggiustare il ritmo della cucina e del servizio. Ma può accadere anche il contrario: due pannelli mobili, a mo’ di abitazioni giapponesi, ricoperti da un lato di triangoli “che richiamano i simboli massonici” e dall’altro di grafismi novecenteschi che chiudono, all’occorrenza, una saletta nata per meeting e pranzo di lavoro, riparando dagli sguardi chi la occupa ma impedendo al contempo la vista del lavoro della brigata.
L’estetica dei pannelli mobili, rivestiti di materiale fonoassorbente, si conferma coerente con l’ossessione dannunziana dello chef, ma consente di chiarire un “fraintendimento su un artista ritenuto vicino a Mussolini” specifica Brunel. L’ammirazione per il Vate, nata da un documentario visto da adolescente, non è per la sua attività politica, bensì per l’uomo di marketing, capace di coniare loghi e nomi tuttora seducenti per cibi e bevande: dai cioccolatini Fiat, al liquore Aurum, dal vocabolo tramezzino al cremino Scorza di Majani.
Tutti elementi che compaiono nel menu dedicato al Vate (più legato alla cucina classica), nonostante le frequenti variazioni apportate dallo chef, nell’alveo di una correttezza filologica mutuata dalla lettura di documenti e saggi. Per esempio, il menu Il priore si compone di un “Tramezzino” – dicitura creata da D’Annunzio nel 1926 al Caffè Mulassano di Torino – accompagnato mirabilmente dal cocktail La busa (nome della zona del Garda dove è di casa lo chef) composto da acquavite di prugne, susine, limone e Trento doc. Seguono Foie gras e anatra, volatile preferito del Poeta e “i Can-nel-loni”, in omaggio all’imperativo rivolto alla domestica Albina affinché al vittoriale questo piatto risultasse disponibile a ogni ora del giorno e della notte. Poi, un primo colpo di scena: un eccellente Riso alle rose, cotto insieme ai petali e spruzzato di polvere di lamponi e fragranza di fiori, che evoca l’incontro con la Duse ma che ammalia senza pietà, come un seduttore di gran classe.
Subito dopo ecco quello che informalmente viene detto “La gallina dalle uova d’oro”: un gran piatto, in ossequio al consumo continuo di uova da parte di D’Annunzio, che si compone di una spuma di uova con decorazione di foglia d’oro che cela un’anima di capitone, patate a carciofo, che strabilia. E poi di nuovo, l’ironia dello chef di manifesta nella capriola che trasforma l’Agnello con patate fritte amato dal poeta in una costoletta fritta e millefoglie di patate, per chiudere con l‘eleganza della “Mondia di arance”, dove il gelato si ammanta di aurum, liquore abruzzese, ed è accompagnato dal cioccolatini Fiat e Majani, per chiudere con un richiamo all’infanzia dei clienti, che possono attingere liberamente anche ai vasi con i dolciumi vintage (le rotelle di liquerizia, le gelée) disposti nella prima sala, dove vengono offerti gli ottimi amuse-bouche.
Quanto al menu Japan-Trentino-Nikkei, l’esordio è da wow: una foglia della famiglia della borraggine, proveniente dalle isole Shetland, con maionese all’ostrica, che a occhi chiusi ricalca il sapore salmastro e la consistenza dell’ostrica vera e propria. Accompagnata da uno champagne Briganda, servito in coppe vintage, è un colpo al cuore. Ripetuto con il Gazpacho di peperone, latticello e scampi, cui per fortuna seguono un’idea di Vitello tonnato e il Ceviche centenario, sicuramente azzeccati, ma meno da cardiopalma. Si ridecolla con il Nigiri al foie gras, che non prepara però allo sbalordimento per il Glacier 51, un merluzzo con mango, mostarda di peperoncino trentino e uova di pesce volante al wasabi. Si resta a bocca aperta prima di concludere con l’Uovo di cioccolato bianco, banana e curry nato per sfida, usando come spunto il riso e curry molto amato dalla brigata.
In questa cucina di pensiero (sublimemente accompagnata dal pairing vino) non c’è mai un momento di stanchezza, mai una ripetizione. I due menu divergono al punto da parere preparati da persone diverse, eppure il cliente non immagina mai il tipo di piatto che può arrivare dopo, tante sono le possibilità che Brunel può inventarsi. Lo chef sostiene di non avere un addetto al marketing, e probabilmente il pubblico arriva grazie ai traguardi che può vantare: la prima stella a Villa Negri di Riva del Garda a soli 28 anni, compiuti nel 2003. Un’altra prima stella nel 2015, al ristorante Borgo San Jacopo, a pochi metri da Ponte Vecchio. Un’altra ancora nel 2020 con questo locale, che rispecchia il Vittoriale nel senso che, come quello, non sarebbe concepibile senza chi lo ha plasmato. Un’estensione tridimensionale di una personalità poliedrica, la concretizzazione tangibile di una serie di idee pirotecniche, il ristorante gourmet di Brunel evidenzia come un locale debba essere più del contenitore di un pasto, più o meno, memorabile.
Coerenza, linearità, rispetto dei propri valori, ma anche l’abilità di scegliersi bravi collaboratori e una dose di spirito infantile sono necessari. Lo ribadisce il “connettore culturale” Giorgio De Mitri sul numero di Cook_inc. appena uscito. Ma di rado lo si è visto con altrettanta evidenza come qui, tra D’Annunzio e Lewis Carroll, tra il Trentino e il Peru, tra la cucina e lo studio di interior design, dove, pure se tutto parla di Brunel, Brunel non dimentica di parlare ai clienti, di metterli a proprio agio, di prevedere perfino babbucce per le signore afflitte dai tacchi e box giochi per i bambini, di saziarli e di stupirli finché i clienti appagati se ne vanno, portandosi dietro il ricordo di un bruneliano Paese delle meraviglie dove tornare e tornare. Perché la prima volta si sono trovati bene, ma anche perché la volta successiva, sarà tutto lo stesso, eppure tutto diverso.
Peter Brunel Ristorante Gourmet
Via Linfano, 47
38062 Arco (TN)
Tel: +39 0464 076705
www.peterbrunel.com