Testo di Pietro Fasola
Foto cortesia di Pacina
Dove l’alberese e il galestro che hanno fatto la fortuna del Chianti Classico cedono il posto alle fertili colline senesi figlie del mare, un antico monastero del X secolo si fa spazio in una cornice di vigneti, ulivi, campi e boschi. Entrare a Pācina è come un tuffo nell’immaginario del più classico paesaggio di una fattoria toscana i cui frutti rappresentano alla perfezione la triade vino-olio-cereali che ha guidato nei secoli il modello di alimentazione mediterranea. Non a caso furono gli Etruschi i primi ad insediarsi in questo luogo, dandogli il nome di Pachna, dio etrusco del vino. Da allora la generosità di queste terre si è sempre espressa nel rapporto viscerale che si instaura tra Pācina e i suoi abitanti, una relazione intima, quasi carnale, di cui entrambe le parti si nutrono.
A raccontarmelo è Giovanna Tiezzi, che ormai da più di trent’anni porta avanti la fattoria insieme a Stefano Borsa e, oggi, ai figli Maria e Carlo. “I miei genitori, sebbene fossero due scienziati, hanno deciso negli anni ’70 di tornare a Pācina per conservare la vita di questo luogo acquistato dal mio trisnonno tra le due guerre. La mezzadria era stata abolita e a Pācina andava nascendo una nuova storia”.
Nel 1987 per mano di Lucia, madre di Giovanna, dalla selezione delle migliori uve della fattoria nasce la prima bottiglia di Pācina. L’animo ecologista dei genitori di Giovanna, tanto rivoluzionario quanto avanguardista per quei tempi, disegna sin dal principio una precisa identità del vino di Pācina, ottenuto dal classico uvaggio di sangiovese, canaiolo e ciliegiolo, vinificato senza solforosa, imbottigliato nella più leggero dei vetri e chiamato col nome del luogo su carta verde riciclata.
Giovanna allora è di ritorno dall’Africa dove aveva preso parte a una compagnia di ballo, ha poco più di vent’anni, una laurea in antropologia e quasi nessuna esperienza pratica. Il legame con questo luogo che l’ha cresciuta è però talmente forte da decidere di affiancare la madre nel futuro della bottiglia. “Parte della mia famiglia è stata per anni commerciante di trattori in questa zona. Quando ho fatto l’esame di coltivatore diretto a Siena, visto il mio cognome, mi hanno chiesto che trattore avessi. Celeste è stata la mia risposta”. Così, con l’obiettivo ben preciso di continuare a dare nuova linfa vitale a Pācina, ma con la stessa inconsapevolezza che permette al calabrone di librarsi nell’aria contro ogni legge della fisica, Giovanna spicca il volo.
Ci penserà il destino, pochi anni dopo, a far incrociare la sua strada con quella di Stefano Borsa, giovane agronomo milanese che allora lavorava alla cantina di San Felice. La loro storia di amore si intreccia indissolubilmente alla storia di Pācina alla quale Stefano si avvicina con rara sensibilità, comprendendo l’anima del luogo e mettendone al servizio la sua professionalità.
I vini di Pācina non si limitano a essere traduzione intima di un territorio, ma sono veri e propri portavoce della storia di questo luogo. Nella cantina interrata interamente scavata nel tufo, Stefano guida l’evoluzione di vini che poco hanno da spartire con le altre espressioni della denominazione d’origine Chianti Colli Senesi. È il tempo, infatti, a essere l’ingrediente essenziale perché attraverso il calice il senso del luogo possa esprimersi al meglio. Le bottiglie di Pācina vedono la luce cinque anni dopo la vendemmia: fermentazioni spontanee in cemento, lunghe macerazioni sulle bucce, affinamento in antiche botti di rovere e poi ancora riposo in bottiglia.
Nel tempo la gamma si amplia con altri vini tra cui la Cerretina, uno dei più incantevoli orange wine italiani ottenuto dall’assemblaggio di trebbiano toscano e malvasia, e La Sorpresa, il Vin Santo di Pācina che fermenta su una madre ultrasecolare, risalente all’acquisto della fattoria dal trisnonno di Giovanna. E ancora il Pachna, figlio di annate particolari che raccontano l’evoluzione del luogo, vere e proprie testimonianze liquide della storia di Pācina.
Oggi il trattore celeste non c’è più. Ma i vini di Pācina conservano la stessa anima e la stessa etichetta della prima bottiglia, mentre Maria e Carlo, nuova generazione di Pācina, cominciano a sentire lo stesso richiamo della terra che ha portato Giovanna a farsi custode di questo luogo. Pācina continua incessantemente a tessere legami con chi la abita, chiede cura e accudimento e in cambio dell’amore che riceve restituisce identità e nuova forza vitale.
Pacina
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