Testo di Barbara Marzano
Foto di Francesca De Nigro
È naturale. Lo diciamo spesso come a indicare qualcosa di scontato, ma cosa è veramente naturale? La risposta, apparentemente semplice, scorre dentro Naturale Festival, un progetto nato da Sebastiano Leddi, fondatore del magazine Perimetro e da 28 Posti, il ristorante milanese di chef Marco Ambrosino e Silvia Orazi, insieme allo studio di graphic design e comunicazione Burro Studio. Dal 30 settembre al 2 ottobre, Mare Culturale Urbano (MI) è diventato il palco di un retroscena che coinvolge il contesto urbano, agricolo ed enogastronomico, e valorizza tutto il palinsesto che ruota attorno alla parola naturale.
Vignaioli, chef, produttori e fotografi si sono confrontati mettendo a disposizione le proprie sensazioni, opinioni e realtà, per disegnare il profilo frastagliato e impreciso del tema del Festival. Talks, degustazioni e workshop, circondati da mostre fotografiche e dal sound del dj set serale, con un focus particolare sul mondo enogastronomico. Numerose infatti le cantine partecipanti, i diversi workshop – sul foraging di Wooding Lab, sulla panificazione di Aurora Zancanaro del micro-panificio Le Poveri e sul vino di E/N Enoteca Naturale – a cui sono seguite le due cene a 4 mani, la prima con Marco Ambrosino, Sara Nicolosi e Cinzia De Lauri (Altatto) e la seconda servita dalla coppia greco-romagnola, Vasiliki Pierrakea (Vasiliki Kouzina) e Federico Sisti (Frangente).
Ma quindi, cos’è naturale? Se per un attimo ci guardiamo alle spalle, pensando anche solo a 50 anni fa, il vino lo era già. Oggi ritorna a esserlo nel momento in cui concilia un’agricoltura, che ha rispetto della terra in cui è nata, a un calice che porta con sé tutto il territorio da cui deriva. Parliamo comunque di un vino che contiene fallimenti, scoperte, intuizioni e soprattutto conoscenza, tradotta nella consapevolezza che ogni vignaiolo ha del proprio vigneto. Ciò che è naturale vive di un processo spontaneo, fatto di attese, dubbi e poche certezze, che va oltre le aspettative. È conoscere filare per filare, è chiedersi “ce la farà?” e se e come fermenterà. È avere traccia del percorso di crescita di un’uva, ma non avere la minima idea del risultato.
Cascina degli ulivi (azienda agricola biodinamica): “Una bottiglia di vino naturale è figlia di una vinificazione spensierata e sfrontata che cerca di fidarsi del domani. Un po’ alla volta impari a vedere dove sei, a capire le dinamiche di quello che potrebbe succedere, a intuire il potenziale di ogni uva, cosa può darti e dove può arrivare. E il risultato, alla fine, è semplicemente un tentativo andato bene”.
Un’altra strada che riabilita il naturale è il recupero. Oggi non si butta nulla, o almeno l’intenzione è quella, perché costa sì, ma anche perché per produrre è stato impiegato un terreno, forza lavoro, acqua e tutto ciò che non immaginiamo. Marco Ambrosino: “Noi abbiamo sempre cercato di mettere d’accordo il nostro modo di pensare con l’aspetto commerciale, utilizzando l’animale per intero, sia perché è un’idea che funziona dal punto di vista commerciale, sia per una questione di sentimento rispetto a quello che vogliamo esprimere dentro un piatto. È come se la cucina avesse una doppia valenza: da una parte l’emozione del piatto, qualcosa di momentaneo e istantaneo, dall’altro il sentimento che c’è dietro, l’intenzione, che invece resta nel tempo”.
Questa intuizione oggi dovrebbe depennare la concezione di rimedio, uscire dal contesto personale del singolo chef e invadere la società a livello globale, per fissare protocolli e metodi condivisi che facciano in modo che l’essere umano riprenda contatto con il cibo. L’acquisto di una monoporzione, di un prodotto surgelato o già pronto, spinto dal pensiero di un minor spreco, in realtà non fa altro che alimentarlo, perché quella stessa produzione ha già avuto il suo impatto ambientale. Marco Ambrosino: “Dobbiamo riprendere il rapporto con il cibo, cucinandolo, magari rovinandolo, ma poi mangiandolo. Abbiamo la fortuna di vivere nel mediterraneo dove lo spreco non è mai esistito. Basti pensare alle salse fatte con gli avanzi del pesce, alle polpette, cose che però non sono mai state considerate un ripiego, ma la normalità”.
Naturale è anche il processo di integrazione sociale che spazia dal cibo alle culture, attraverso la contaminazione di mondi differenti. Cesare Battisti, al fianco di Gaia Trussardi, ne dà prova con il progetto di integrazione culturale Marcel Boum, street food africano protagonista di Naturale Festival, che coinvolge ragazzi provenienti dall’Africa e non solo e che riconosce quanto l’integrazione sia un rafforzamento di identità. Cesare Battisti: “Marcel Boum non è una cucina africana pensata per gli africani, ma una cucina africana che vuole farsi conoscere e apprezzare dagli italiani. Non è quindi tipicamente local, ma vuole adattarsi – e integrarsi – al gusto italiano senza perdere la propria identità”. Marcel Boum è un tentativo che si tramuta in progetto, un’impresa che coinvolge persone sbarcate in Italia, oggi al comando di una realtà strutturata e trasversale pronta a rompere le barriere attraverso il cibo. Ma perché il cibo? La cucina non è forse il luogo che più ci avvicina e ci permette di avere un rapporto? Non è forse l’identità più intima e intrisa di storie di una cultura? Gaia Trussardi: “Il cibo è il primo abbattitore di barriere, ci integra l’un con l’altro senza dimenticare che l’integrazione non è solo da parte di chi accoglie, ma è un rapporto reciproco dove ci si alimenta a vicenda. Solo l’atto di nutrirsi della stessa cosa in un certo momento ci accomuna irrimediabilmente”.
Vasiliki Pierrakea, chef e proprietaria di Vasiliki Kouzina, vede ancora un altro aspetto del cosiddetto mondo naturale, quello del territorio fuori dal territorio. Vasiliki: “Ogni sera cerco di catturare il desiderio delle persone che stanno a tavola. Al di là della cucina e del rispetto della natura (che è l’unico Dio che esiste per certo e che ci comanda) c’è anche tutto ciò che fa da contorno all’esperienza, che la crea e che l’accompagna per tutto il tempo. La Grecia è alla portata di tutti, sì, ma pochi conoscono la vera cucina ellenica. Per questo cerco di portare le persone lì, con Vasiliki Kouzina, che prima d’essere un ristorante è un progetto naturale che parla del territorio fuori dal territorio”.
C’è bisogno di un ritorno alla terra, di un custode che non la sfrutti, ma che la ami e la curi. Se per il cibo, come per il vino, la tavola è la fine di un percorso saturo di conoscenza, sacrifici e rischi, è anche l’inizio di un nuovo viaggio che fa bene. Non ci resta che partire.