Testo di Cristina Ropa
Foto cortesia di Richard Klein
Sono attimi, istanti quelli in cui affiorano nuove consapevolezze, decisioni importanti che cambiano la vita e che vengono preparate da giorni, mesi, anni di riflessioni, azioni, perlustrazioni come un buon contadino che lavora la terra, la muove, la sollecita, la studia affinché possa accogliere poi quei semi che doneranno frutti freschi e rigogliosi che a loro volta diverranno nettare per prodotti artigianali di rara ed esclusiva bellezza. Tutto scandito da ritmi, da attimi, da anni. È tutta una questione di tempo, sempre. Lavorare duro, ascoltarsi, ascoltare ciò che hai intorno, prendere decisioni e poi andare. Senza guardarsi indietro. Scelte di vita coraggiose, la passione per la cucina, per la terra, per le cose autentiche, tradizionali ma che al contempo profumano di innovazione, cose vere, genuine sono ciò che caratterizza la vita di Richard Klein importatore in Nuova Zelanda di vini artigianali italiani. Una storia che brilla per il suo animo cosmopolita che non significa solo girare il mondo ma possedere la capacità di riconoscere e mettere in connessione quell’unica essenza che tutto accomuna e che tanto sa di umanità. Un animo che si nutre della diversità custodendo i tesori della tradizione. Una storia costellata di antipodi che fa ritorno sempre e comunque alla bellezza di raccontare un territorio, di valorizzare i legami umani, di favorire incontri ed educazione attraverso lo scambio di culture, esperienze, talenti. Una storia di dialoghi, di orti, di convivialità, di musica, di riciclo, di professionalità e tanta passione per la vita.
La tua storia tocca lembi di terra di tutto il mondo. Sei nato in America, hai vissuto in Italia poi hai deciso di trasferirti in Nuova Zelanda. Perché hai scelto questo paese?
Con la mia famiglia in Italia vivevamo a San Giovanni in Persiceto – un comune della provincia di Bologna – in campagna. Eravamo quindi a stretto contatto con le realtà contadine, anche se io lavoravo per un’azienda bolognese produttrice di mobili per ufficio che esportava in tutto il mondo. Questo mi portò all’estero, così conobbi la Nuova Zelanda, un paese che seguivo e che mi fece un’impressione molto positiva fin da subito. All’epoca era il 1995. Le condizioni per comprare casa in Italia per una famiglia giovane come la nostra con due bimbe piccole erano molto difficili. Dovevi dare una cauzione del 40% e per noi, senza risparmi e senza appoggi, era impossibile. Pensai che non fosse giusto, desideravo condizioni migliori per la mia famiglia e quindi decidemmo di emigrare per crearci un futuro migliore. È ironico perché ora entrambe le mie figlie – Astrid e Dara – sono tornate nel “vecchio mondo” a vivere. Pensammo quindi alla Nuova Zelanda dove avevo già contatti. Andammo in vacanza e piacque molto a tutti. Trovai quindi lavoro lì nell’ambito dei mobili per l’ufficio, quello che stavo già facendo. Non è stato facile però emigrare. È stato un percorso lunghissimo, molto difficile a livello burocratico. È stata una grande sfida. Lo è stata allora e lo è ancora oggi. Tra un mese sono 25 anni che vivo qui.
Lì poi hai creato un’attività a conduzione famigliare nel mondo della ristorazione. Come mai avete avuto questa idea?
Come tanti emigrati c’era la voglia di creare un lavoro indipendente. In Italia l’azienda per cui lavoravo era finita nei guai. E prima di partire avevo vissuto l’esperienza di come qualcun altro possa in un istante cambiare la tua vita. Ho passato un trauma terrificante che mi ha temprato come un pezzo d’acciaio. Ho detto “mai più”. Mi sono reso conto, dopo qualche anno qui, che il mestiere che facevo non mi andava assolutamente più bene. Gli emigrati all’estero spesso finiscono a lavorare nel mondo della ristorazione e noi avevamo molto interesse per il mondo culinario. Maria Pia la madre delle mie figlie è una cuoca, molto intuitiva che non viene da una scuola alberghiera ma dalla tradizione di cui è grande portatrice. Il suo talento molto speciale viene da una storia incredibile pugliese, infatti, sua mamma aveva aperto il secondo pastificio di famiglia in Puglia negli anni 60. In Nuova Zelanda non faceva altro che cucinare. Pensai che non saremmo mai riusciti a mangiare tutto quello che stava producendo e che dovevamo fare qualcosa in quell’ambito lì. Anch’io ho la passione della cucina, di andare a caccia di ingredienti, di coltivarli. Abbiamo quindi deciso di creare qualcosa di nostro e siamo partiti con una rosticceria. Poi diciamo siamo stati “scoperti”. Un giornalista scrisse un articolo su di noi. All’epoca avevamo un posto veramente piccolo, un buco, una cosa fatta con quattro soldi ma facevamo del cibo molto buono, sano, vero. L’articolo scritto da questo giornalista gli fece vincere un premio importante e quindi siamo diventati talmente conosciuti che alcune persone decisero di investire su di noi. Dal niente ci siamo trovati in un anno a comprare un ristorante già esistente in un luogo molto bello vicino al Parlamento di Wellington con nessuna esperienza nella gestione di un ristorante. Ci siamo rimboccati le maniche ed è diventato un successone da un giorno all’altro.
È quindi dal mondo della ristorazione è poi nato Artigiano Imports? Perché hai deciso di importare proprio il vino?
C’era nostalgia di certi ingredienti che non si trovavano lì per cui ho iniziato a importare prodotti dall’Italia. Anche se avevo già lavorato nel settore dell’import non è stato facile capire come fare quindi ho iniziato dal piccolo. Ero un garagista cioè lavoravo letteralmente in un garage. I prodotti principali che importavo venivano dalla Puglia naturalmente come olio di oliva, vin cotto tipico di quelle zone e poi poco a poco ho iniziato anche con la pasta. Il vino è seguito a tutto questo in modo spontaneo. Avevamo una trattoria italiana molto autentica, cucinavamo estremamente “vecchio stile”, tutto fatto a mano e quindi non poteva mancare il vino. In quel periodo mettemmo in piedi una condotta Slow Food e sono stato loro fiduciario per circa dieci anni. Era un veicolo per fare educazione sulla cultura gastronomia e sul cibo sano e poi ci divertivamo! Quindi in sintesi è una storia di emigrazione, ristorazione, importazione. Con il vino è stata come una puntura. Una volta che l’hai presa non c’è guarigione. C’è anche da dire che a un certo punto ci siamo resi conto che gestire un ristorante era un mestiere molto impegnativo e difficile. Qui in Nuova Zelanda è proprio 24 ore su 24, 7 giorni su 7. È un po’ brutale. Mi sono chiesto: ti vedi a fare questo lavoro per 10 anni? No. Per 5? No. Allora è tempo di vendere. Abbiamo venduto nel 2011 e sinceramente non sapevo che fare. Mi sono chiesto: Chi sono io? Avevo questa crisi esistenziale. Allora ho pensato che avessi già creato un’azienda dentro l’azienda. Chissà se riesco a guadagnarmi la pagnotta solo a vendere vino? Mi sono chiesto. Era il 2012 e così è nato Artigiano Imports.
Wow. Una storia di grande coraggio, di grande ispirazione. Un mix di buona fortuna, talento e soprattutto della capacità di agire in coerenza con il proprio intuito.
Coraggio o follia? A 40 anni lo vedevo come un atto di coraggio. Adesso lo vedo più come un atto di follia. Ogni stagione, ogni età ti porta ad avere una certa visione delle cose. Sicuramente è stata un’avventura.
Che tipo di vino importate?
Per rispondere a questa domanda per prima cosa devo parlarti del mercato. Quello della Nuova Zelanda è un mercato difficile e limitato. Qui ci sono 5 milioni di abitanti. Sono molto idealista ma non posso vivere di ideali. La comunità italiana qui è piccolissima quindi la conoscenza del vino era limitata ai soliti sospetti. Chianti, Montepulciano, Moscato, Lambrusco… soprattutto del supermercato e tutti cattivissimi. A oggi siamo in tre forse quattro a importare solo vino italiano. Con il tempo le cose sono cambiate. Adesso è conosciuto anche il Primitivo e il Nero d’Avola ma dieci anni fa si contavano su una mano. Fatta questa premessa c’era quindi la necessità di essere realista e flessibile. All’inizio avevo un punto di retail, il ristorante, con cui riuscivo a vendere qualsiasi cosa perché era più facile con il cibo. Quando nel 2012 mi sono lanciato nell’importare solo vini mi sono reso conto che se non avessi scelto un prodotto che viaggiasse anche da solo sarei stato nei guai. Quindi anche se il cuore e la testa sono con i vini artigianali, con le piccole aziende locali, autonome, non grossi gruppi, ho dovuto pensarci bene e fare delle scelte. Ho quindi incluso anche vini commerciali, più “industriali” con il giusto prezzo che funzionassero bene in diversi contesti di ristorazione. Non lavoro però con i supermercati e questa è una scelta ideologica che ho fatto. Questo è il panorama generico. Poi però quello che prediligiamo sono i vini veri cioè i vini che esprimono un territorio.
Come scegliete quindi i produttori?
I produttori ideali per noi sono le aziende famigliari oppure quelli che emergono da collaborazioni. Scelgo vini che parlino veramente di quel posto in cui sono stati prodotti. Se prendi un vino prodotto dall’azienda Foradori, per esempio, lì senti davvero le Dolomiti. È un vino inequivocabilmente di quel posto. Devo essere sincero. A volte ci scegliamo a vicenda, avviene una specie di selezione naturale. Una volta andavo nelle fiere, facevo i miei compiti a casa ma a volte i legami, gli incontri nascono spontaneamente in base a una relazione. Il produttore ideale inoltre è un produttore con cui io ho un dialogo diretto. Potrei metterla all’inverso e pensare a come il produttore sceglie un buon distributore. Un mio cliente in Emilia-Romagna un giorno mi ha mandato un articolo su come scegliere un importatore. “Quando vengono a visitare l’azienda e chiedi se vogliono assaggiare i vini oppure andare nella vigna come risponde il buon distributore? Quelli che dicono che vogliono subito assaggiare i vini non sceglierli. La prima cosa è andare in vigna”. Capire la terra, assaggiarla, sentirla. Stare lì insieme al produttore. C’è questo tipo di rapporto e sinergia. Questo porta a scegliersi. Ti garantisco che succede così. A volte uno può sentire qualcosa che non va. Mi è successo. Ero in Fruili e sono andato a visitare un’azienda molto nota. Non mi hanno permesso di vedere la vigna dicendomi che stavano facendo i trattamenti. Mi sembrava impossibile con tutta la terra che avevano. Per me è stato un segnale. Questa gente non è per me. Un’altra storia unica, classica, molto legata alla terra, in cui ci siamo scelti e che mi ha subito affascinato è quella di Arianna Occhipinti.
Per la tua esperienza, cosa determina secondo te l’eccellenza di un vino?
Un vino eccellente è un vino che parla della sua provenienza, della storia della sua terra. Non sono un sommelier. Ho la laurea in Linguistica e ho sempre goduto come tutti del vino e della cucina italiani. Secondo me la caratteristica più importante è l’equilibrio. Il mio socio su questo è molto più schematico. È più istruito ad assaggiare vini. Io vado più per tatto, sono più intuitivo ma comunque arriviamo sempre alle stesse conclusioni. Lo senti quando c’è armonia, quando c’è equilibrio tra tutte le componenti. Lavorando accanto agli enologhi e facendo domande ho imparato quanto questo sia importante. Anche la pulizia lo è. Mi piacciono infatti i vini puliti e rustici e quelli naturali sicuramente lo sono anche se poi tutto dipende dalle attività batteriologiche. Molti vini rustici, ad esempio, hanno sentori di brettanomyces. Certi clienti qui ne sono totalmente intolleranti. È una cosa molto personale. Può essere molto piacevole, ma fino a un certo punto. Quando certe cose prendono il sopravvento rovinano anche il resto. Per questo ho parlato di equilibrio e di pulizia.
È molto affascinante questa ricerca dell’equilibrio e dell’armonia. Tu Richard sei musicista nell’anima e per diletto. In qualche modo c’è una risonanza, una somiglianza tra l’armonia che crei con quello che produce la terra e quello che crei con le note di un violino.
La musica e il vino per me sono inseparabili, sono ciò che ci rende umani. Penso che entrambi siano gli ingredienti essenziali della convivialità. Però la musica è più universale perché dobbiamo riconoscere che ci sono culture dove non sono presenti bevande alcoliche ma la musica sì, è presente ovunque. Come il linguaggio. Penso che anche la musica abbia questa funzione. Il vino aggiunge tanto piacere a questo essere umani. Però è anche un’arma a doppio taglio. Il vino, l’alcool va gestito. Bisogna averne rispetto.
Prima hai detto che la tua mente e il tuo cuore sono verso vini artigianali però per necessità devi fare anche altre scelte. La Nuova Zelanda ha un rispetto, una cultura, un legame molto forte con la natura. Come senti di star contribuendo al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU?
Come imprenditore sostegno e scelgo i piccoli produttori soprattutto quelli biologici, biodinamici ovvero coloro che cercano di nutrire la terra e non di togliere. Numericamente se guardo il mio portfolio abbiamo più di 250 etichette. Il 70% sono naturali, biologici e biodinamici. Ma se guardo i volumi ovvero i numeri di bottiglie vendute, poiché hanno prezzi che vengono incontro a esigenze di mercato, è difficile misurare quali di queste due realtà pesa di più nel mio portfolio. Noi siamo allineati con la piccola produzione e con quel tipo di agricoltura che dona alla terra, che integra alla terra e crea un ambiente olistico nutrendo. Una decisione che credo, spero, possa contribuire in qualche maniera al miglioramento della situazione del Pianeta. Come azienda ho deciso anche di non lavorare con chi usa bottiglie di vetro molto grandi e pesanti. Solitamente attraggono molto i mercati stranieri, ma non fanno bene all’ambiente. Nel nostro piccolo facciamo questo. I nostri clienti stessi sono spesso chef che vanno nei boschi, al mare a raccogliere fiori e cose strane naturali per farne ingredienti originali da utilizzare nelle cucine e quindi necessitano di un vino naturale che si abbini bene a quei gusti. A livello personale invece credo di dare molto di più al Pianeta. Ho un orto enorme tutto biologico in cui coltivo tantissime varietà. Poi riciclo tutto. Da casa mia esce ogni settimana un sacco piccolissimo di rifiuti. Vetro, cartone, carta, plastica tutto riciclato. Cerchiamo di fare ciò che possiamo.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sicuramente più presenza online. Se abbiamo imparato una cosa dal Covid è di implementare questo aspetto. Abbiamo sofferto molto in questo periodo perché eravamo troppo dipendenti dalla ristorazione. Quindi stiamo per uscire con il nostro negozio online anche se far arrivare la merce qui dall’Italia è diventata un’impresa. Fino a poco tempo fa ho lavorato da solo. Adesso siamo in due con anche collaboratori esterni. L’idea per il futuro è creare una rete di vendita della dimensione giusta per questo paese e per il tipo di azienda che siamo. Un altro aspetto che mi interessa molto è l’educazione. Non intesa come qualcosa di altisonante o che viene dall’alto verso il basso. Ogni bottiglia ha una storia. Perché la storia è quella di un posto, di un territorio, di una famiglia, di una donna, di un uomo, di generazioni. Ed è importante comunicare questa storia. Aprire un po’ l’orizzonte. Noi siamo molto distanti dall’Europa e da tanti altri posti. La gente viaggia anche in modo virtuale ma molti non hanno la minima idea di quante regioni ci sono in Italia piuttosto che di quante varietà di vino. Diffondere la storia, la cultura, il modo di bere e di consumare è importante. In Italia il vino si accompagna sempre con qualcosa da smangiucchiare. Cambia anche il suo gusto. Se assaggi un’oliva e poi bevi il sapore che percepisci è diverso. Qui non c’è questo tipo di cultura. Quindi credo sia una cosa fondamentale. Mi piacerebbe infatti creare più scambi, più occasioni di dialogo tra i produttori locali italiani e alcuni miei amici produttori qui. Parlano lo stesso linguaggio ma vengono da scuole diverse. È affascinante perché quando si mettono insieme dei colleghi anche se di origine geografica opposta il linguaggio è sempre quello e lo scambio è fantastico.
L’Italia e la Nuova Zelanda possono imparare molto l’una dall’altra valorizzando i reciproci aspetti positivi.
Assolutamente. Succede in maniera più o meno organica. Adesso i confini sono ancora chiusi e non ce n’è la possibilità ma prima ogni anno venivano tantissimi giovani enologi italiani, spagnoli, tedeschi, sudamericani ecc… che lavorano nel campo del vino. Questi scambi già esistono. Mi piacerebbe portarlo a un altro livello perché ho il privilegio di lavorare con certi personaggi fenomenali con una cultura incredibile. So che se queste persone potessero venire qua e avere uno scambio con la bravissima gente che c’è qui sarebbe bellissimo.
Un sogno nel cassetto in ambito gastronomico?
Vorrei creare uno scambio culturale con Forno Brisa. Ho un amico cliente qui in Nuova Zelanda che ha un forno fantastico quindi vorrei dare la possibilità a questi giovani super bravi e seri nel mondo del pane e del forno di poter fare uno stage di lavoro in Italia e viceversa accogliere qui i ragazzi di Brisa. Questo mi ricollega con le attività di slow food che facevo 10-15 anni fa. Mi piacerebbe tanto perché va al di là dello scambio commerciale di comprare e rivendere. Il mio sogno nel cassetto più grande però è abbracciare il mio nipotino bolognese che finora ho visto solo online.