Testo di Francesca Ciancio
Gli amanti del cibo e in particolare di quello servito nei ristoranti dovrebbero leggere Tra i pasti. Un appetito a Parigi di Abbot Joseph Liebling. Il libro, poco più di 150 pagine, è pubblicato in italiano da una piccola casa editrice milanese, Edizioni Settecolori. La prima edizione risale al 1962 e raccoglie molti dei saggi che Liebling scrisse per la mitica rivista The New Yorker. Le ragioni per leggerlo sono molte e provo qui a elencarne alcune.
Abbot Joseph Liebling era un giornalista, penna coltissima che sapeva muoversi con agio tra alto e basso perché spinto da una sincera curiosità. Nato in una famiglia benestante di Manhattan, frequentò la prestigiosa scuola di giornalismo della Columbia University negli anni 20 del secolo scorso. Scrive di cibo – che è poi l’argomento del nostro libro – di sport con una predilezione per il pugilato e le corse dei cavalli e tanto dai fronti di guerra come inviato durante la Seconda Guerra Mondiale. È un uomo ironico, dotato di una scrittura leggera ma non approssimativa e che ha un’attenzione particolare per una borghesia minuta, apparentemente priva di connotati che, grazie alla sua abilità di scrittore, prende forma in maniera anche esilarante, ma mai ridicolizzante.
La lettura di Tra i pasti mi ha fatto pensare a una bella mostra fotografica dedicata all’opera di Robert Doisneau, in corso presso I chiostri di Sant’Eustorgio di Milano (fino al 15 ottobre 2023). Il giornalista americano, come il fotografo francese, aveva uno sguardo amorevole e delicato su Parigi e i suoi abitanti, verso quel “teatro della strada” tanto caro a Doisneau e ai suoi celebri scatti.
A Parigi Liebling ci arriva per la prima volta nel 1926, mandato dal padre che gli regala un anno di studi all’Università Sorbona (forse, chissà, per allontanarlo dal giornalismo). Per tutta risposta il figlio poco prodigo si butta con ardore nel mondo dei ristoranti e dei bistrot parigini, conoscendo e riconoscendo i quartieri attraverso gli indirizzi culinari suggeritigli o scoperti. È un buongustaio di piatti e di parole, gli piace mangiare e tanto – come raccontare – ma nulla di tutto questo viene fatto a sbafo.
La differenza tra gourmet e gourmand
Liebling non è ricco, anzi è giovane e piuttosto squattrinato nel suo anno di formazione parigina e pondera bene come spendere i soldi che il padre gli manda tutti i mesi. Pondera ma intanto fantastica come “investirli” in maniera proficua: un grande vino e un pasto più modesto o un vino discreto e un piatto di grande nobiltà? In questo rispetto del denaro e della scelta commisurata alle proprie disponibilità, sta la differenza tra gourmet e gourmand per lo scrittore: il primo gira i locali seguendo le mode, scegliendo ciò che costa di più per affermare un personale potere; il secondo si fa i conti in tasca e capisce se i desideri sono realizzabili. Il godimento inizia dalla possibilità di poterli realizzare e allora ogni tavola imbandita, con sei, otto e più portate, diventa una festa. Liebling entra nei locali spesso da solo e lì fa amicizia, fa il reporter e racconta di cuochi, osti, cameriere attraverso una scrittura per nulla autoreferenziale e mai compiaciuta. Scrive di ricette che grondano grassi e calorie con una lievità invidiabile. Serve un appetito vigoroso e una leggiadria in punta di penna per scrivere così.
Parigi e il cibo come educazione sentimentale
Tra i pasti è anche una storia d’amore con Parigi, l’apprendistato di un ventiduenne all’arte di mangiare. Non è più la città favolosa della fine dell’800/inizio 900 e, sebbene Liebling ne sia rapito, sa cogliere i primi segni di decadenza. Lo fa però con gli occhi dell’americano che è grato. Colpisce l’abbondanza delle descrizioni e al contempo la bravura nel cogliere l’essenziale. Insomma, da un lato il ghiottone – e saranno tanti e diversi i problemi medici legati a questa sua passione – dall’altro il giornalista di razza.
Di Parigi ama le donne “spregiudicate” – in contrapposizione al puritanesimo americano – le viste dal basso, i personaggi non convenzionali. Ama i ristoranti di provincia e odia la Guida Michelin (“un esempio deprimente della subordinazione dell’arte agli affari”) per lui, causa della banalizzazione dei menu e della standardizzazione del servizio. Il mito della velocità – la “rossa”, infatti, è legata al noto marchio di pneumatici – porta avventori dove prima arrivavano solo appassionati davvero motivati. È la nascita di una clientela anonima, del cui appetito bisogna diffidare.
Liebling ha un mentore, il commediografo e regista francese Yves Mirande che, come il giornalista, ama alla follia cibo vino e donne. I loro incontri a tavola sono dei veri e propri match tra pesi massimi e leggere i loro buoni propositi mette una certa fame: “(…) un pranzo a base di prosciutto crudo di Bayonne e fichi freschi, una salsiccia calda in crosta, fusi di luccio filettato in una ricca salsa alle rose Nantua, un cosciotto d’agnello lardellato con acciughe, carciofi su un piedistallo di foie gras e quattro o cinque tipi di formaggio, con una buona bottiglia di Bordeaux e una di Champagne”. Oggi un menu così sarebbe considerato “politicamente scorretto”, un attentato alla salute e più in generale a un’idea di benessere che, talvolta, pare essere più una tassa da pagare che una scelta del ristoratore per essere ben voluto.
Tra i pasti è un libro pieno anche di vino, francese ovviamente. I Borgogna non sono la prima scelta – perché già troppo cari – ritenuti spesso dallo scrittore etichette buone per farsi notare. Predilige i Bordeaux, non sopporta i rosati, o meglio i rosé. Ne salva uno solo, il Tavel, della Valle del Rodano. In questa zona ama l’AOC Côte Rôtie che descrive come “una collina letteralmente arrostita ma miracolosamente verde, scoppiettante di bontà come la pelle di un’anatra arrosto”. Cene e pranzi si concludono quasi sempre con Armagnac e Calvados.
Un libro che può diventare una guida
Lo scritto di Liebling poteva avere un respiro più ampio, avrebbe potuto essere un romanzo, ma spesso ai giornalisti, anche ai più bravi, manca il “coraggio” di cimentarsi in opere dagli orizzonti più estesi. Forse vi è la necessità di cogliere le cose – persone, luoghi, accadimenti – per quelle che sono e fissarle nella scrittura con tempestività. Mi piace pensare che ci sia anche, da parte di un giornalista, una priorità legata alla verità più che alla verosimiglianza e, a lettura finita, mi pare che A.J. Liebling questa necessità l’avesse. A libro chiuso viene voglia di organizzare un viaggio a Parigi e usare Tra i pasti come una guida, andare alla ricerca dei ristoranti che cita, assaggiare le ricette di cui parla, anzi, trovare i cuochi in grado di riproporle. Sarebbe una trasferta molto poco salutare, ma utile – se fai il mestiere del food writer – per capire come scrivere di argomenti elevati in modo semplice e viceversa. Non è un invito a strafare – Liebling era grande in tutto, nella mole come nella produttività – ma non ha del tutto torto quando scrive che “nessun asceta può essere considerato attendibilmente sano di mente”.