I saisonniers del Domaine Thenard
Testo di Virginia Dal Porto
Foto di Jeanne Tortiller
Prima che arrivassero i saisonniers (gli stagionali), in vigna c’erano solo Lionel e pochi altri, che è più di trent’anni che lavorano i campi del Domaine Thenard. I saisonniers sono gruppi di giovani che si spostano per fare le stagioni – appunto – nelle vigne o per altri lavori agricoli. La prima è stata Gwendoline, poi piano piano sono arrivati gli altri e quest’estate sono arrivata io. Dicono che negli ultimi sei anni i giovani siano tornati a lavorare la terra. Qui la maggior parte sono italiani, perché fare un lavoro del genere in Italia non avrebbe alcun senso: lo stipendio è troppo basso per potersi stabilire da altre parti per una stagione. Quindi, paradossalmente, è più conveniente cambiare Paese piuttosto che cambiare regione in Italia.
È la terza volta che vado al Domaine Thenard, ma la prima senza vendemmia. La vendemmia sa di eccezionalità: per i francesi è una festa, la fine dell’anno e i vendemmiatori sono quelli che portano dal campo il ricavato di un anno di lavoro. È un Capodanno agricolo. Quando vendemmi ti sembra che l’uva sia arrivata lì senza aiuti, che quando hai finito di raccoglierla basti aspettare l’anno dopo. La vigna invece non va lasciata da sola. Se la vendemmia sa di eccezionalità, il lavoro che si fa per il resto dell’anno è abitudine: è sempre lo stesso e devi avere la costanza di portarlo avanti. Più o meno ogni mese è dedicato a un lavoro specifico. È luglio e qua al Thenard facciamo l’élevage e la pioche. Prepariamo la vigna alla vendemmia. Si “eleva” la pianta, si rende compatta e ci si assicura che tutti i rami siano all’interno dei fili per aiutarli a sostenere il peso dell’uva. E poi si fa la pioche, la zappa. Si puliscono i filari affinché sì che il piede libero. Al Thenard non usano diserbanti, quindi c’è tanto da togliere.
Il lavoro nei campi non ha niente a che fare con la tranquillità. È una vita sudata, sporca. Ma è anche una vita cauta: “metti camicie a maniche lunghe, mi raccomando i guanti, devi avere sempre qualcosa che ti copra la testa, stai dritta con la schiena sennò mentre zappi te la spacchi”. L’équipe sta attenta ai membri dell’équipe, è normale curarsi del corpo di chi lavora con te. Qui il tempo è strano, le giornate filano veloci una dopo l’altra, ma l’orologio continua a segnare le sette del mattino. È come stare nel mezzo. Un mezzo senza tempo, ma condiviso.
Adesso siamo in nove. C’è chi ha iniziato come saisonnier e poi ha continuato a lavorare qua stabilmente, come Gwendoline e Jules. C’è chi fa solo lavori agricoli e gira con il camper, come Nicola e Irene. Poi ci sono gli altri, che fanno i saisonnier per poter portare avanti altri lavori: Alessandro ed Eloi, che dipingono e illustrano; Vincent, che studia all’Accademia di Belle Arti; Jeanne, che nel mentre sta facendo un Dottorato in Antropologia; poi ci sono io, che scrivo.
Siamo in nove e poi c’è la vigna. C’est la vigne è la frase che mi sento ripetere più spesso. Sei stanca? C’est la vigne. Sei felice? C’est la vigne. Ti prudono le braccia? C’est la vigne. La vigna sta con noi, a volte è ostile, non si fa aiutare, a volte ti rasserena. Dipende dalle giornate. Anche noi nove dipendiamo dalle giornate. Capita che siamo troppo felici, che urliamo solo per il gusto di urlare, che mettiamo la musica con una cassa portatile per far ascoltare ai francesi Lucio Dalla e Mina e loro per far conoscere a noi Charles Aznavour e Edith Piaf. Ma capita anche che si lavori in silenzio perché già lavorare è dura, figurarsi parlare; se si trova la forza di dire qualcosa allora è una bestemmia contro un cespuglio d’erba che non ne vuole sapere di farsi zappare. A volte torniamo dal lavoro e giochiamo a bocce, beviamo birre e ci diciamo che domani, in vigna, saremo stanchissimi, che dovremmo andare a letto, ma a letto non ci va nessuno. A volte torniamo a casa e ognuno si rinchiude in camera. C’est la vigne. E la vigna capita che ci senta se siamo giù. L’altra mattina ci ha mandato un cucciolo di cerbiatto. Lionel ha detto che non potevamo toccarlo, perché sennò la madre non lo avrebbe ritrovato.
Chi è qua da più tempo sa quello che noi saisonnier non possiamo sapere: cos’è stato il Domaine. André è il figlio del proprietario e gestisce tutto. Ha ventotto anni. Mi ha raccontato ridendo che a volte, per strada a Givry, lo chiamano monsieur-baron, dice che fa strano visto che proprio in Francia c’è stata la Rivoluzione francese e che la nobiltà è formalmente morta da più di duecento anni. Ma la famiglia Thenard – che ormai non fa più Thenard di cognome, ma Bordeaux-Montrieux – è conosciuta a Givry perché il Domaine è loro da secoli e la famiglia è una famiglia antica. Nel 1842 Paul Thenard sposa Françoise Derrion-Duplan, l’erede del Domaine Yvon, quello che nel 1921 diventerà il Domaine Thernard. Paul Thenard era un chimico, come il padre Louis-Jacques Thenard, famoso chimico e politico che sarà l’ispirazione per Monsieur Thénardier, uno dei principali antagonisti ne Les misérables di Victor Hugo. André mi ha raccontato che a Hugo non andava a genio Thenard per le sue idee politiche (Thenard si era opposto alla riduzione delle ore lavorative dei bambini). Il Domaine Yvon aveva soltanto le vigne che si trovavano a Givry, quindi il Givry, il Clos du Cellier aux Moins, il Saint-Pierre, Les Boischevaux. Poi, Paul Thenard decide di fare un grosso investimento, tentando di comprare Clos de Vougeot, che però perderà all’asta. Ecco allora che – i soldi erano stati messi da parte e andavano spesi – decide nel 1871 di comprare ¼ degli ettari di una vigna non troppo vicina a Givry, su una collina brulla e apparentemente inospitale: Montrachet. Qui si fa il vino bianco più pregiato al mondo. Infatti, quando lo si vendemmia bisogna stare ancora più attenti: vanno levate anche le foglie e una volta finito il filare, si ripercorre a ritroso per essere sicuri di aver raccolto tutti i grappoli. La lavorazione dell’uva è quella che impegna più inquietudini, perché va trattata bene, non vanno fatti errori. Ma André dice che sì, l’ansia c’è, però non si deve fare troppo: il Montrachet non ha bisogno di particolari lavorazioni, perché l’uva non sbaglia mai. Dice che è quella la differenza dei Grands Crus (come Corton Clos du Roi e Grands-Echezeaux, altri due vitigni dei Thenard) rispetto agli altri vini: viene sempre bene, non importa l’annata. È una vigna della quale ci si può fidare.
Non sono solo i racconti a dirci cos’è stato, ma anche la vigna. I primi giorni Lionel mi dice di tagliare “gli americani”, i rami della vite che crescono direttamente dalla radice. Nella seconda metà del 1800 la Borgogna – come altri parti d’Europa – affrontò un grande problema: la fillossera, un parassita di importazione che ha distrutto tutte le vigne. Dopo vari tentativi (Paul Thenard aveva anche creato un antidoto, ma non bastò e risultò troppo inquinante per i campi) i francesi decisero di prendere le radici delle viti americane, per poi innestarle con la Vitis vinifera (la vite europea). La soluzione funzionò. Ma adesso, di tanto in tanto, crescono – appunto – gli americani, dei rami vergini, che non fanno uva, direttamente dalle radici. Lionel mi dice che è facile riconoscerli, perché sono rossastri.
Siamo noi saisonniers quelle radici americane, stranieri arrivati in Borgogna per trovare un’altra casa. Poi ci sono i francesi, come Gwendoline e Lionel, che ti spiegano come fare, a cosa stare attenti, come cresce la pianta. Siamo insieme in questo mezzo senza tempo. Ed è qui che si crea il sentimento che ti fa tornare al Domaine e che ti fa mancare il lavoro nei campi. È un sentimento strano quello che si crea in équipe. Qualcosa di tangibile, che si può toccare, qualcosa di etereo, ma anche scurrile. Qualcosa di simile alla nostalgia, che ti rimane nei muscoli affaticati. È qualcosa che ti lega al passato e ti costringe al futuro. Non sono sicura di poterlo definire, ma sono sicura che il sentimento che abbiamo provato insieme non è qualcosa di silenzioso.
Domaine Thenard
7 Rue de L Hôtel de ville,
71640 Givry – Francia